Molotov tracciò un quadro organico della politica estera sovietica il 31 ottobre 1939, durante la quinta sessione (straordinaria) del Soviet supremo1. L'analisi di questo discorso è utile per chiarire una questione di grande rilievo storiografico e teorico: e cioè se la politica estera dell'Urss dell'epoca staliniana fosse ideologicamente dettata da una prospettiva politica leniniana oppure da criteri diversi. Il primo caso rimanda all'interpretazione liberale del Patto d'agosto fra Hitler e Stalin come convergenza fra i totalitarismi, motivata dalla condivisa ostilità alla democrazia e, più in particolare, dall'intento staliniano di trar profitto dalla guerra imperialista per estendere il sistema sovietico al resto d'Europa. Un'alternativa è l'interpretazione per cui la politica estera sovietica non differiva qualitativamente dalla Realpolitik delle grandi potenze e che nel 1939-41 avrebbe avuto l'obiettivo di rimanere fuori del conflitto. Questa grande corrente interpretativa assume la sostanziale dicotomia fra politica interna ed esterna e una logica geopolitica in cui lo spazio socio-politico è una sorta di dato naturale nel quale gli attori fondamentali sono gli Stati, nelle versioni più semplici intesi come blocchi internamente omogenei. Nonostante la sua apparente naturalità e astoricità - in quanto indifferente alle peculiarità sociali e ideologiche dei paesi in questione - anche questa classe di interpretazioni è figlia della modernità westfaliana e capitalistica. Trovo entrambi gli approcci insoddisfacenti in quanto entrambi, sia pur per opposti motivi, sottovalutano la specificità sociale della dittatura burocratica staliniana e le sue implicazioni circa i metodi e gli obiettivi di politica estera. Occorre spiegare la strategia discorsiva di Molotov e i suoi argomenti nel quadro di un'interpretazione che leghi le decisioni di politica estera all'ordine sociale e politico interno dell'Unione Sovietica.
Il discorso di Molotov si presenta strutturato in tre parti: nella prima Molotov trattò i grandi cambiamenti nella politica internazionale intervenuti nei due mesi seguiti alla quarta sessione del Soviet supremo, presentò un'interpretazione della guerra in corso fra le potenze liberali e la Germania nazista e delineò l'atteggiamento internazionale dell'Unione Sovietica nel contesto della guerra europea; nella seconda motivò in modo più specifico l'intervento in Polonia; nella terza fornì un quadro dei rapporti tra l'Urss e alcuni Stati per essa di particolare rilievo strategico: gli Stati baltici, la Finlandia, la Turchia, il Giappone.
È molto significativo che il primo dei grandi cambiamenti nella scena internazionale indicati da Molotov fosse il Patto d'agosto con la Germania nazista, «che ha posto fine alle anormali relazioni fra Germania e Unione Sovietica», seguito dal trattato di amicizia firmato il 28 settembre; nei documenti sovietici e del Comintern dell'epoca scomparvero l'antifascismo e la differenziazione fra i regimi politici delle potenze capitalistiche. Questo cambiamento precedeva nell'elenco il «collasso dello Stato polacco» e la «grande guerra divampata in Europa»: forse un errore perché, per una volta, la dirigenza staliniana diceva la verità. Infatti, con questo lapsus nell'ordinamento degli eventi recenti, Molotov ammise involontariamente il Patto che aveva firmato con Ribbentrop quale necessaria condizione strategica della detonazione della guerra da parte della Germania nazista, in quanto la liberava dal pericolo di dover condurre simultaneamente una guerra su due fronti con potenze industriali e bene armate. Si può inoltre notare come Molotov presentasse come fatto normale che «la patria del socialismo» intrattenesse buoni rapporti con il più bestiale nemico del movimento operaio, del socialismo e di tutto ciò che può dirsi civile e umano. Traspare così una visione del mondo gretta, statalista e nazionalista che dava il tono a tutto il discorso. Assumere come dato positivo la normalizzazione dei rapporti con il Terzo Reich era necessario per giustificare il brusco rovesciamento della linea della sicurezza collettiva e dei fronti popolari antifascisti. Si tratta di un argomento che si colloca nella secolare tradizione, risalente alla pace di Westfalia del 1648, al termine della Guerra dei Trent'anni, secondo la quale i corretti rapporti fra gli Stati europei escludono l'ingerenza negli affari interni.
D'altra parte, non si può neanche dire che il tentativo di normalizzare i rapporti con la Germania nazista fosse una novità. Parallelamente alla linea della sicurezza collettiva diretta ai Paesi liberali e al di sotto della retorica antifascista, approcci in vista di accordi economici preliminari al miglioramento dei rapporti politici fra Terzo Reich e Unione Sovietica già prima del 1939 non mancarono. Da parte sovietica, un protagonista fu David Kandelaki2, diplomatico rappresentante commerciale sovietico a Berlino, nel 1934-1937 al centro di negoziati con il presidente della Reichsbank e ministro per gli affari economici Hjalmar Schacht e poi con Hermann Göring in qualità di responsabile del piano quadriennale di riarmo. L'accordo commerciale-finanziario firmato nell'aprile 1935, rinnovato il 24 ottobre 1936 e il 1° marzo 1938, era di limitato valore economico ma pur sempre un passo avanti rispetto al calo del volume degli scambi commerciali tra i due paesi, conseguenza innanzitutto della depressione economica mondiale. Il punto su cui si può discutere è quale delle due parti avesse più interesse a portarli a buon fine, se i tedeschi - allora per motivi principalmente economici, a causa delle tensioni indotte nell'economia dai programmi di riarmo - o i sovietici; non è invece in discussione che i contatti ci furono e che entrambe le parti erano consapevoli delle possibili implicazioni politiche. In un'intervista al giornalista Chastenet di Les temps sulla rimilitarizzazione della Renania, nel marzo 1936, Molotov dichiarò:
«Esiste una tendenza, in alcuni settori della pubblica opinione sovietica, verso un atteggiamento di totale inconciliabilità nei confronti degli attuali governanti della Germania, in particolare a causa dei ricorrenti discorsi ostili dei dirigenti tedeschi contro l'Unione Sovietica. Ma la tendenza principale, che è quella determinante la politica del governo sovietico, ritiene che un miglioramento delle relazioni sovietico-tedesche sia possibile»3.
Alla domanda seguente: «perfino con la Germania di Hitler?», Molotov rispose chiaramente: «sì, perfino con la Germania di Hitler». In questa intervista è interessante e insolito il cenno a tendenze diverse; del resto Molotov - il capo del governo - era ed è ritenuto sostenitore di una linea pro-tedesca diversa da quella del commissario per gli Affari esteri Litvinov. Esse, tuttavia, non si escludevano in assoluto: in pubblico si poteva perseguire la linea della sicurezza collettiva e dei fronti popolari antifascisti attraverso il Comintern mentre, in via riservata, si cercava di normalizzare i rapporti con il Terzo Reich, passando innanzitutto attraverso gli accordi commerciali. In questo senso è esemplare una risposta a Schacht dell'8 gennaio 1937 elaborata dallo stesso Litvinov a nome del Politburo, da trasmettere mediante Kandelaki:
«Il governo sovietico non solo non ha mai evitato negoziati politici con il governo tedesco, in un'occasione ha anche fatto una precisa proposta politica. Il governo sovietico non ritiene affatto che la sua politica debba dirigersi contro gli interessi del popolo tedesco. Quindi, esso non ha nessuna obiezione a entrare ora in trattative con il governo tedesco nell'interesse di migliorare i rapporti e, in generale, della pace. Il governo sovietico non rifiuta di negoziare attraverso rappresentanti diplomatici ufficiali: concorda inoltre di rispettare la riservatezza e di non far conoscere pubblicamente le nostre recenti conversazioni, o futuri colloqui, se il governo tedesco insiste su questo»4.
Infine, nuove trattative economiche fra Germania nazista e Unione Sovietica ebbero luogo alla fine del 1938, con un primo, limitato accordo sottoscritto il 22 dicembre; per giungere a un trattato più importante venne però deciso di continuare le trattative a Mosca. Tuttavia, mentre il negoziatore tedesco Karl Schnurre si trovava a Varsavia sulla via verso Mosca, per sabotare l'avvicinamento tedesco-sovietico i giornali polacchi diffusero la notizia di un'imponente delegazione tedesca, caricando il viaggio di un significato politico che spinse Ribbentrop, al momento ancora indeciso sul valore della carta sovietica, a richiamarlo in patria. I dirigenti sovietici la presero molto male, facendo pesare il fatto quando i contatti ripresero ad aprile e si intensificarono da maggio, quando Litvinov fu destituito e Molotov assunse anche la carica degli Esteri: per arrivare al Patto politico - e per usare il tempo come mezzo di pressione - pretesero con forza, come prova che l'intenzione tedesca non fosse mera tattica di qualche settimana, che prima si firmasse il trattato commerciale-finanziario. Fatto notevole è che tutto questo accadeva dopo la conferenza di Monaco: nonostante gli strali durissimi contro l'appeasement, la verità è che pure Stalin cercava di «pacificare» Hitler e, su questa strada, avviò trattative segrete, parallele a quelle con gli anglo-francesi. Il paradosso del 1939 è che mentre Parigi e Londra si decidevano – bene o male - alla deterrenza contro l'hitlerismo, Mosca muoveva in direzione opposta.
Non si può dire che la linea della sicurezza collettiva e dei fronti popolari fosse mero fumo negli occhi e che Stalin puntasse da sempre a un accordo strategico con Hitler; tuttavia, non è neanche vero che l'Urss «avesse le mani pulite» e che prima del 1939 non cercasse di conciliarsi con la Germania nazista. Che si tratti della convergenza fra i totalitarismi oppure di un coerente antifascismo «senza macchie», nell'analisi dei rapporti fra Unione Sovietica e Terzo Reich i punti di vista ideologici non reggono. Nonostante fosse uno sbalorditivo voltafaccia rispetto alla linea ufficialmente seguita per un quinquennio, la logica politica di fondo con cui Molotov presentò il Patto di non-aggressione e poi il Patto di amicizia con il Terzo Reich, seguente alla duplice invasione e alla spartizione della Polonia, non fu un'improvvisazione dell'ultimo momento, una conseguenza della perfidia anglo-francese. I bruschi rovesciamenti di linea erano tipici della politica staliniana: esprimevano non lungimiranza ma miopia, l'adattamento a problemi che essa stessa creava e che venivano affrontati con tutta la brutalità e l'impunità garantita dal potere assoluto nonché dal fanatismo di chi all'estero era disposto a credere che il «Lenin di oggi» avesse sempre ragione5.
Come disse Molotov, senza dubbio il Patto con il Terzo Reich aveva già avuto «il suo effetto sull'intera situazione internazionale». Tuttavia, non specificò in cosa esattamente consistesse questo effetto, se nella direzione della guerra oppure della pace; né in qual modo l'amicizia con il Terzo Reich potesse costituire un progresso per la causa del proletariato tedesco, polacco, francese, britannico, degli altri Paesi europei. Omissioni necessarie, compensate però dalla trionfale dichiarazione che i nuovi territori annessi all'Urss equivalevano a un grande Stato europeo di 13 milioni di persone.
La caratteristica più forte del discorso è che non solo il Terzo Reich non veniva più elencato tra le potenze aggressive, ma si insisteva sul fatto che, «invece dell'inimicizia alimentata in ogni modo da certe potenze europee», tra «i due più grandi Stati dell'Europa» si erano stabilite relazioni amichevoli destinate a ulteriori miglioramenti. Tutta la valutazione della drammatica situazione internazionale veniva giocata sulla dicotomia amicizia-inimicizia nei confronti dell'Urss. Della guerra Molotov disse l'ovvio: che aveva avuto inizio fra la Germania e la Polonia (di certo è questo l'«effetto» del Patto d'agosto), ma meno banale è il modo in cui egli ripresentò l'argomento del «collasso dello Stato polacco» (il secondo cambiamento della scena internazionale menzionato nel discorso). In modo nel contempo arrogante e ipocrita, Molotov affermò che a por fine alla presunta stabilità e potenza di questa «deforme creatura» del trattato di Versailles era bastato solo «un rapido colpo», prima dall'esercito tedesco, poi dall'Armata rossa. Sono frasi che avrebbe potuto pronunciare Hitler e che nel tono anticipano la risposta di Stalin agli auguri ricevuti da Ribbentrop e dal Führer per il suo sessantesimo compleanno (a dicembre): che l'amicizia tedesco-sovietica era stata suggellata col sangue. In effetti, all'opinione pubblica antifascista (con l'eccezione dei più fedeli seguaci di Stalin) e ai governi del mondo la Wehrmacht e l'Armata rossa apparivano affratellate nel sangue della conquista di una Polonia la cui colpa, secondo il ministro sovietico, era stata «la sua "tradizionale" politica di destreggiarsi senza principi tra la Germania e l'Urss, aizzando l'una contro l'altra»6. A Molotov non interessava la coerenza logica dell'argomentazione, né la verità dei fatti, bensì di ritorcere contro la Polonia quello che era il giudizio dell'opinione pubblica internazionale antifascista sulla svolta sovietica pro-nazista: che, appunto, fosse del tutto amorale e senza principi, puro opportunismo indifferente alla sorte dei popoli europei. Molto peggio dell'appeasement di Chamberlain e Daladier nei confronti di Hitler: illusoriamente, l'appeasement si proponeva di mantenere la pace; l'appeasement di Stalin invece garantì la guerra e il successo di Hitler nel 1939-1941.
Se i rapporti politici dell'Urss con la Germania erano ora fondati sull'amicizia, resi ancor più solidi dallo sviluppo degli scambi economici con reciproco beneficio dei due Paesi, Molotov caratterizzò in modo del tutto diverso la posizione internazionale della Gran Bretagna e della Francia.
Innanzitutto, prese beffardamente in giro il valore delle garanzie inglesi e francesi sulla Polonia (ovviamente alquanto deboli in assenza di un fronte orientale che facesse perno sull'Urss): come a confermare, insieme alla «più completa bancarotta dei dirigenti polacchi», il primato della vittoriosa forza sovietica (e ancor più nazista) sull'indipendenza degli Stati e l'autodeterminazione dei popoli. In quella congiuntura era però politicamente più importante l'argomento secondo il quale «è assurdo continuare la guerra attuale sotto la bandiera della restaurazione della vecchia Polonia». E dunque, mentre «la posizione della Germania è quella di uno Stato che si sta impegnando per la pace e per por fine al più presto alla guerra», Gran Bretagna e Francia si oppongono alla pace. Questa era la linea di politica estera di Hitler: che gli anglo-francesi si rassegnassero al fatto compiuto.
Il passaggio politicamente più importante e delicato del discorso di Molotov, anche per i comunisti russi e per la propaganda dei partiti del Comintern nel resto del mondo, fu questo:
«In relazione con questi importanti mutamenti della situazione internazionale, certe vecchie formule, formule che abbiamo impiegato fino a poco tempo fa e alle quali molte persone erano così abituate, sono chiaramente obsolete e inapplicabili. Dobbiamo essere chiari su questo punto, per evitare grossolani errori nel valutare la nuova situazione politica che si è sviluppata in Europa. Sappiamo, per esempio, che nei mesi più recenti concetti come "aggressione" e "aggressore" hanno acquisito una nuova concreta connotazione, un nuovo significato. Non è difficile comprendere che non possiamo impiegare questi termini nel senso, diciamo, con cui lo facevamo tre o quattro mesi fa. Oggi, per quel che concerne le grandi potenze, la posizione della Germania è quella di uno Stato che si sta impegnando per la pace e per por fine al più presto alla guerra, mentre Gran Bretagna e Francia, che fino a ieri declamavano contro l'aggressione, sono a favore della continuazione della guerra e si oppongono alla conclusione della pace. Come vedete, i ruoli cambiano»7.
Secondo Molotov, «dipingendo se stesse [la Francia e la Gran Bretagna] come campioni dei diritti democratici delle nazioni contro l'hitlerismo» e annunciando, il governo britannico, che «obiettivo nella guerra contro la Germania è, né più né meno, che la "distruzione dell'hitlerismo"», le potenze liberali hanno deciso di condurre una «guerra "ideologica" contro la Germania, che ricorda le guerre di religione dei tempi antichi»8. Per il ministro sovietico si poteva accettare o respingere l'hitlerismo come qualsiasi altro sistema «ideologico»: di fatto considerava la valutazione del regime interno come questione d'opinione, indifferente al fatto che si trattasse di un sistema di feroce negazione di qualsiasi diritto democratico o che negli Stati liberali fosse consentita libertà di propaganda e di organizzazione a partiti e sindacati operai. Rigettava però «non solo come insensato ma criminale intraprendere una guerra come "guerra per la distruzione dell'hitlerismo" camuffata come guerra per la "democrazia"»9. Molotov sostenne che i motivi avanzati dalla Gran Bretagna e dalla Francia fossero falsi: quelli autentici risiedevano non nell'ideologia ma negli interessi materiali delle potenze coloniali, nella paura delle rivendicazioni della Germania sui possedimenti coloniali delle potenze imperialiste. La guerra, dunque, veniva senz'altro caratterizzata come imperialistica e condotta per la supremazia mondiale, da cui la classe operaia non poteva attendersi altro che sacrifici di sangue e sofferenze.
Il discorso di Molotov ha valore storico come illustrazione degli argomenti e della linea diplomatica obiettivamente favorevole al Terzo Reich nelle prime fasi della Seconda guerra mondiale, ma è interessante anche perché si presta bene a mettere a fuoco i presupposti e la logica politica complessiva della politica estera staliniana. Fermandosi alla fraseologia - predisposta per essere trasformata in slogan propagandistici - l'argomentazione di Molotov potrebbe apparire leniniana e per tale è spesso scambiata. Nelle interpretazioni «totalitarie», che insistono fortemente sul ruolo dell'ideologia marxista-leninista, la finalità di Stalin era la stessa di Lenin: promuovere la rivoluzione, estendere il sistema socialista. In questa prospettiva, sicurezza collettiva e frontismo sono interpretati come maskirovka, un inganno o un camuffamento, e il Patto con Hitler come l'autentico obiettivo perseguito fin dal 1933 (se non da prima), un accorgimento machiavellico per scatenare la guerra tra le potenze capitalistiche e per costruire un impero sovietico sulle rovine dei contendenti. Invece, nelle interpretazioni ispirate dal «realismo», l'ideologia gioca un ruolo scarso o nullo, essendo la politica estera sovietica interpretata come Realpolitik non dissimile da quella di altre potenze.
Il problema non risolto da entrambi gli approcci è quello della discontinuità fra l'era leniniana e l'esito della lotta interna al partito risultante nella vittoria della fazione staliniana (e buchariniana) poco prima della metà degli anni Venti.
Una prospettiva diversa dalle precedenti è quella per cui la proclamazione del «socialismo in un solo paese» intorno alla metà degli anni Venti trasformò radicalmente sia la definizione delle condizioni per l'edificazione del socialismo sia la concezione del rapporto fra l'Urss e i conflitti di classe e nazionali nel mondo e, quindi, anche metodi e finalità della sua politica estera. Vediamo perché.
Si consideri la coppia di concetti utilizzati dalla dirigenza staliniana come criteri determinanti della politica estera sovietica, sia nel periodo della linea della sicurezza collettiva e dei fronti popolari sia in questo e altri documenti successivi al Patto d'agosto con Hitler: aggressione e aggressore. Senza dimenticare che della Germania guidata da Hitler Molotov diceva che era «uno Stato che si sta impegnando per la pace»!
Ebbene, è una certezza che per Lenin e la sinistra della socialdemocrazia internazionale del 1914 il presupposto elementare dell'opposizione alla guerra fosse il rifiuto di differenziare fra Stati imperialisti aggressori e Stati imperialisti aggrediti, distinzione che ciascuno dei governi belligeranti utilizzava per legittimare come difensiva la propria decisione militare, promuovere il patriottismo, ottenere il consenso dei lavoratori e di parlamentari e sindacalisti socialisti. Al contrario dei socialisti «difensivisti» e patrioti, gli internazionalisti consideravano tutti i governi imperialisti come aggressori sia dei lavoratori dello Stato nemico sia dei «suoi» lavoratori, costretti a versare il sangue - proprio e di altri - per interessi ad essi antitetici. Quali che fossero le loro divergenze nella spiegazione dell'imperialismo, Lenin, Luxemburg, Trotsky, Bucharin e gli altri erano accomunati dalla visione del capitalismo come sistema mondiale, della guerra come prodotto delle contraddizioni interne a questo sistema, dall'assunzione dell'antagonismo tra capitalismo e classi dominate direttamente sul piano internazionale. È per questi motivi che essi sostenevano la fraternizzazione tra i soldati degli Stati in guerra e che il nemico da combattere fosse innanzitutto il proprio governo: da qui il disfattismo con la prospettiva dell'abbattimento rivoluzionario del governo nazionale, della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile tra le classi. Senza il rigetto della politica basata sulla distinzione fra Stati imperialisti aggressori e aggrediti e del conseguente «socialpatriottismo» non si possono comprendere lo scisma della socialdemocrazia internazionale nel 1914, la rivoluzione d'Ottobre, la formazione dei partiti comunisti e la costituzione della nuova Internazionale. Viceversa, non può darsi dubbio sul fatto che una linea politica (distinta dall'analisi) basata sulla distinzione fra Stati imperialisti aggressori e aggrediti fosse originale creazione staliniana, in rottura sostanziale con l'impostazione di Lenin, malgrado la formale elevazione di quest'ultimo al rango di «padre della chiesa» meritevole di mummificazione. Ovviamente, diversa era la posizione di Lenin sull'aggressione imperialista nei confronti di popoli e Stati coloniali e semicoloniali, come la Cina dell'epoca.
L'interpretazione «totalitaria» non vede la discontinuità implicita nel «socialismo in un solo paese»: il filo che lega le svolte della politica estera dell'epoca staliniana non era la rivoluzione mondiale, ma la conservazione del potere della casta dominante. L'intervento nelle crisi nazionali e nei conflitti di classe e nazionali erano orientati dall'obiettivo della coesistenza con l'insieme degli Stati imperialisti, a prescindere dal loro regime interno, purché questi mantenessero rapporti pacifici con l'Urss. Conseguentemente, la linea politica nazionale dei partiti del Comintern era immediatamente subordinata alla politica estera sovietica, di cui in effetti essi divennero organi. Secondo questa prospettiva sovietico-centrica e statalista, a determinare la linea dei partiti era lo stato dei rapporti diplomatici fra il governo nazionale e Mosca. Così come la dittatura del partito unico sul proletariato veniva equiparata alla dittatura del proletariato, così l'interesse nazionale dell'Urss (o meglio: ciò che il circolo dominante staliniano riteneva essere il proprio interesse) era meccanicamente identificato con l'interesse del proletariato internazionale.
Ma, si può obiettare da un punto di vista «realista», quel che era valido per gli internazionalisti prima dell'Ottobre non poteva più esserlo una volta che la rivoluzione si fosse fatta Stato. Dunque, prosegue l'obiezione, la politica estera dell'Urss doveva far leva sulle contraddizioni fra gli imperialismi, stipulare accordi con gli altri Stati, distinguere tra aggressori e aggrediti. A proposito si può far riferimento alla celebre flessibilità tattica di Lenin, alla politica delle concessioni per attrarre investimenti esteri - questione sulla quale egli si impegnò a fondo e con un punto di vista opposto a quello di Stalin10 - all'obiettivo del riconoscimento internazionale del potere sovietico. Tuttavia, non è possibile assimilare i trattati di Brest-Litovsk nel 1918 con la Germania imperiale e di Rapallo nel 1922 con la Germania di Weimar, gli accordi economici e le concessioni alle società estere negli anni Venti, ai trattati del 1939 con la Germania nazista: erano troppo diversi i contenuti e - specialmente - completamente differente la valenza politica nei rispettivi contesti internazionali. Un conto era stabilire relazioni diplomatiche (più o meno) normali e mettere in concorrenza imprese e potenze capitalistiche perché i termini degli accordi commerciali e finanziari fossero più favorevoli all'Urss, cosa del tutto diversa era stringere un'alleanza politica con una potenza o un blocco contro l'altro in una guerra fra gli imperialismi. Un conto era respingere il trattato di Versailles e stabilire buone relazioni con la Germania di Weimar, il più debole degli Stati imperialisti e che quel trattato subiva, un altro stipulare un'alleanza di fatto con il Terzo Reich, che delle pastoie di Versailles si era completamente liberato e le cui ambizioni territoriali erano di gran lunga superiori, per estensione e per metodo, a quelle dei revisionisti weimariani.
Inoltre, ancora nei primi anni Venti, nella fase della «stabilizzazione capitalistica» e del riflusso della radicalizzazione di massa in Europa, tra le singole decisioni di politica estera del governo sovietico e la linea dei partiti del Comintern non si dava meccanica coincidenza. Questo perché, se da una parte il governo sovietico cercava di instaurare i normali rapporti diplomatici ed economici necessari alla vita di uno Stato, dall'altra il partito che deteneva il monopolio esclusivo del potere a Mosca sosteneva i partiti sezioni dell'Internazionale con l'obiettivo dell'unificazione e della radicalizzazione del movimento operaio contro la borghesia e i governi degli stessi Stati imperialisti. Era una politica estera inedita, comprensibilmente motivo di diffidenza, tensione e incidenti nelle relazioni diplomatiche, che rifletteva la contraddittoria situazione da cui era nata e in cui ancora si trovava l'Urss, conseguente dalla non coincidenza tra la dinamica politica della Russia zarista e la sua realtà socioeconomica: primo paese al mondo a compiere una rivoluzione socialista ma troppo arretrato per edificare da solo il socialismo. Quella politica esprimeva la contraddizione tra la riproduzione economica e politica dello Stato sovietico entro il sistema internazionale degli Stati e l'economia mondiale dominata dal capitalismo, da una parte, e, dall'altra, il fatto che quello Stato fosse inteso solo come il primo passo della rivoluzione mondiale o il primo mattone di una divisione internazionale del lavoro fra paesi socialisti. In questa non risolta contraddizione si può vedere la ragione ultima dell'affermazione dello stalinismo (ultima ma non unica: perché occorre considerare anche l'accentramento del potere nel partito bolscevico, già prima dell'esplodere della guerra civile e ben oltre le necessità che questa impose). Intanto però, Lenin ancora vivo, in nessun caso sarebbe stato concepibile trasformare il governo borghese con cui si facevano accordi in un amico della classe operaia o definire una potenza imperialista come uno «Stato amante della pace»; in nessun caso la linea politica nei confronti della rivalità fra le grandi potenze imperialiste sarebbe stata definita sulla base della dicotomia aggressore-aggredito. Semmai, ciascuna delle potenze imperiali era per definizione un aggressore dei popoli colonizzati e la rivalità interna fra tutte loro motivo di una futura guerra mondiale; infine, per quanto i rapporti diplomatici potessero normalizzarsi, si assumeva che l'antagonismo storico fra Unione Sovietica e Stati imperialisti fosse inevitabilmente destinato a manifestarsi in ogni crisi politica, sia interna a questi Stati, sia tra di essi, sia tra le potenze imperialistiche e i paesi coloniali e semicoloniali. Per Lenin e il bolscevismo dei primi anni post-rivoluzionari - prima del «socialismo in un solo paese» bucharinano-staliniano - era fatto ovvio che la transizione al socialismo dovesse essere un processo internazionale e che la migliore difesa della Rivoluzione russa fosse la rivoluzione in altri paesi, in particolare in Germania. Per le sezioni nazionali del Comintern l'ammorbidimento del conflitto di classe o il sostegno al governo borghese erano una impossibilità, comunque qualcosa che sarebbe costato l'anatema senza appello.
Consideriamo ora le varie svolte della politica estera staliniana a partire dal 1934: il tentativo di creare uno schieramento con le potenze liberali nel periodo della sicurezza collettiva, la collaborazione con il Terzo Reich e poi, ma per «causa di forza maggiore», l'alleanza antinazista dal 1941. Il primo elemento comune è il tentativo o l'attuazione di un'alleanza politica con le potenze imperialiste; il secondo è che queste alleanze tentate o attuate avevano un carattere che può dirsi organico. Nel caso del frontismo degli anni Trenta o dopo l'attacco nazista all'Urss, i partiti comunisti lottavano contro il nazismo tedesco e il fascismo italiano ma non per il radicale sovvertimento dell'ordine sociale e dello Stato capitalistico, certo da riformare in senso progressivo e democratico, secondo una prospettiva che Lenin avrebbe detto menscevica e socialpatriottica. Tra il compito immediato della lotta al fascismo e per la democrazia e la lotta per il socialismo si determinava, con una logica qualitativamente non diversa da quella della socialdemocrazia della Seconda internazionale, un vuoto, nel caso dei Pc illusoriamente colmato dal riferimento alla rivoluzione d'Ottobre e all'Urss: la «terra promessa» che un giorno, con la maturazione delle condizioni, sarebbe stata raggiunta. Sicuramente il frontismo apriva spazi di manovra politica e di mobilitazione di massa che il «terzo periodo», a cavaliere fra gli anni Venti e Trenta, non consentiva a causa dell'estremo settarismo che qualificava la socialdemocrazia come «socialfascismo», un pericolo più insidioso dello stesso nazismo, e per cui si assumeva come un fatto la fascistizzazione incipiente di tutti i regimi liberali. È pure sicuro che la logica frontista neutralizzò o represse le possibilità di radicalizzazione di massa e che per questo si risolse in una catastrofe in Spagna, in un fallimento in Francia; aveva già condotto al massacro in Cina. I fronti popolari di collaborazione con i partiti borghesi progressisti erano altra cosa dalla tattica del fronte unico tra i partiti operai dell'epoca leniniana.
Queste sono le ragioni per cui la politica estera staliniana rassomiglia, nei termini della teoria «realistica» delle relazioni internazionali e della Realpolitik, a quella delle potenze capitalistiche. Spartendosi Polonia e Baltico con il Terzo Reich e alleandosi di fatto con esso, il 1939 fu l'anno in cui l'Urss entrò a sua volta come potenza imperiale nella politica mondiale; il coronamento fu la spartizione delle aree di competenza a Yalta fra Stalin, Churchill e Roosevelt.
Tuttavia, l'interpretazione «realista» sottovaluta la specificità sociale dell'Unione Sovietica, il fatto che non si trattava di una società capitalista (senza entrare nell'enorme questione di una più esatta definizione) ma di uno statalismo integrale essenza dello straordinario potere della sua casta dominante, di molto superiore a quello delle élite politiche delle grandi potenze capitalistiche (Terzo Reich incluso), e condizione per l'estrema concentrazione delle decisioni politiche in un circolo ristrettissimo (di cui il ministro per gli Affari esteri Litvinov non faceva parte). La specificità sociale sovietica era anche il quadro decisivo per una peculiare definizione dell'«interesse nazionale», cioè delle condizioni e dei mezzi, non solo materiali e militari, per riprodurre e rafforzare il potere della casta dominante all'interno e per allargarne i confini. E dunque l'unica reale e importante eredità della rivoluzione e di Lenin a tutta la successiva politica estera sovietica, anche oltre Stalin, fu appunto questa consapevolezza: che tra Unione Sovietica e il resto del mondo esisteva una differenza di natura sociale che poteva sfociare nella guerra. Da qui la contraddizione congenita della politica estera e le sue oscillazioni, giocata anche nella politica interna dei singoli Stati e importante per l'identità dei partiti comunisti: contraddizione tra l'obiettivo di coesistere con le grandi potenze e l'economia mondiale capitalistica e la necessità di prepararsi alla difesa, di acquisire alleati politici e basi militari all'estero, di «sovietizzare» le società dei paesi che il Patto fra Hitler e Stalin assegnò all'Urss e poi di quelli che l'Armata rossa liberò dal nazismo.
Se è vero che per Lenin, Trotsky o Luxemburg la guerra imperialistica aveva carattere sistemico, in quanto manifestazione degli antagonismi interni all'economia mondiale capitalistica, è pur vero che sul piano dell'analisi questi distinguevano le posizioni e gli obiettivi dei diversi Stati imperialisti e non ignoravano affatto le differenze dei loro regimi politici interni. In altri termini: sul piano dell'analisi e del metodo non trasformavano la tesi circa il carattere sistemico della guerra imperialistica in una notte oscura in cui tutte le parti si equivalevano. Questo fu invece argomento stalinista, che nel 1939-41 ricalcava quello del cosiddetto Terzo periodo. Al contrario, ferma restando la natura di classe dei regimi liberali, Lenin, Trotsky e Luxemburg si opposero sempre e fieramente alla sottovalutazione degli obiettivi democratici ai fini della radicalizzazione del conflitto di classe (per Luxemburg sicuramente erano fini intrinseci del socialismo) e alla confusione fra i diversi regimi, ben distinguendo tra quelli che consentivano una certa libertà della propaganda e dell'agitazione rivoluzionaria e quelli che la reprimevano spietatamente.
Su base delle precedenti considerazioni è possibile un esperimento mentale: delle alternative che nel 1939 si ponevano logicamente alla politica estera dell'Urss - accordo con il Terzo Reich, accordo con le potenze liberali, neutralità, intervento autonomo - quale può considerarsi coerente con la prospettiva internazionalista di Lenin e con la sua peculiare definizione - per usare il linguaggio delle relazioni internazionali - dell'«interesse nazionale» sovietico?
Per essere coerentemente in linea con il metodo di Lenin non bastava caratterizzare la guerra come imperialista.
Lenin si sarebbe certamente chiesto se la nuova guerra mondiale presentava qualche particolarità rispetto alla precedente, quando ancora l'Urss non esisteva, e quale concreto significato avrebbe assunto una determinata linea di politica estera dell'Unione Sovietica per le sorti del proletariato europeo. Avrebbe ben considerato la specificità del nazismo come sistema politico e ideologico immediatamente, programmaticamente e ferocemente rivolto alla repressione di qualsiasi forma di autonoma organizzazione proletaria, diretto alla riduzione in servitù su base razziale di gran parte dei popoli europei e alla spietata persecuzione degli ebrei. Probabilmente, avrebbe considerato il nazismo non soltanto un imperialismo come gli altri ma come il distillato più velenoso delle pulsioni antisocialiste del capitalismo, un ulteriore salto qualitativo in questo senso relativamente alla Prima guerra mondiale, quando i governi degli Stati imperialisti accettarono o richiesero il sostegno dei dirigenti socialdemocratici. Avrebbe visto nella eventuale vittoria del nazismo un colpo micidiale per la causa del socialismo europeo e - proprio per questo motivo - una mortale minaccia per la stessa Unione Sovietica.
Non si può escludere che, se fosse vissuto, nel 1939 Lenin si sarebbe spinto a un qualche tipo d'accordo militare con le potenze liberali. Accordo, ripeto, di natura militare, non volto alla determinazione di sfere d'influenza o alla spartizione della Polonia: un accordo di questo tipo non sarebbe stato qualificato come «fronte unico antimperialista» o fra «Stati amanti della pace»; non sarebbero state diffuse illusioni tra le masse. L'«interesse nazionale» dell'Urss sarebbe rimasto saldamente legato - nei fatti, non a parole - con l'interesse storico dei lavoratori europei. In questo caso, i partiti comunisti avrebbero dovuto incalzare dall'esterno i governi e vigilare contro cedimenti o tradimenti, pronti a radicalizzare la mobilitazione antifascista in senso anticapitalista: la prospettiva sarebbe rimasta quella del governo dei soli partiti operai, parola d'ordine opposta a quella staliniana dei fronti popolari con i partiti borghesi. In ciò Lenin non sarebbe stato ispirato dal «realismo» nel senso della teoria delle relazioni internazionali, che assume gli Stati come attori esclusivi o determinanti e l'«interesse nazionale» in termini geopolitici destoricizzati, ma da un realismo di diverso genere, certamente comprensivo degli Stati, ma per il quale ad essere determinanti erano in definitiva i rapporti di forza tra le classi sociali e la politica più appropriata allo sviluppo delle potenzialità anticapitalistiche in una data congiuntura.
Oppure, l'Urss avrebbe potuto mantenere una posizione simile a quella degli Stati Uniti: di neutralità armata, preparandosi a condurre presto una guerra con il Terzo Reich, indirizzando in questo senso l'agitazione antifascista e antigovernativa nei paesi liberali. O ancora, indipendentemente da accordi con le potenze liberali e il governo polacco, l'Armata rossa avrebbe potuto varcare le frontiere della Polonia per contrastare la Wehrmacht, come forma di «difesa rivoluzionaria» del popolo polacco e di guerra preventiva in difesa della stessa Unione Sovietica11.
Quel che intendo segnalare con questi esempi immaginari è che fra tutte le linee d'azione e tutti gli scenari ipotizzabili, da un punto di vista coerente col metodo e lo spirito leninista un'alleanza di fatto con la Germania nazista sarebbe stata almeno due volte inconcepibile: in quanto alleanza con uno Stato imperialista; e in quanto alleanza con uno Stato programmaticamente fondato sulla negazione di ogni libertà di propaganda e organizzazione autonoma del proletariato, incarnazione delle tendenze più violente e reazionarie del capitalismo sia contro la classe dominata tedesca - e austriaca, ceca, polacca - sia contro i lavoratori del resto d'Europa e della stessa Unione Sovietica. Sulle altre alternative sarebbe stato invece possibile ragionare.
E ancora: dal punto di vista di Lenin sarebbe stato inconcepibile concordare la definizione di sfere d'influenza alle spalle e sulla pelle dei popoli con una potenza imperialista, con la conseguente negazione dell'indipendenza e della libertà dei popoli della Polonia, della Lituania, della Lettonia e dell'Estonia. L'Armata rossa avrebbe potuto marciare dentro questi Stati, ma in risposta a un'offensiva da essi lanciata contro l'Urss, come in Polonia nel 1920, oppure per sostenere una rivolta interna, non per «esportare» il sistema sovietico sulla punta delle baionette e con le pallottole del Nkvd. Quale che sia il giudizio complessivo su Lenin, sul principio dell'autodeterminazione dei popoli fu coerente fino ai suoi ultimi giorni, in questo caso proprio contro la persona di Stalin.
Sappiamo invece cosa fece Stalin della libertà dei popoli.
1 Il discorso di Molotov è in Jane Degras (a cura di), Soviet documents on foreign policy, vol. III: 1933-1941, Oxford University Press, London 1953, pp. 388-400. Vjačeslav Michajlovič Molotov (1890-1986) era allora presidente del Consiglio dei commissari del popolo, il governo dell'Urss, e commissario agli Affari esteri.
2 Kandelaki fu nominato vice commissario per il Commercio con l'estero nel 1937 ma ucciso nel 1938 durante il Grande Terrore, come il suo vice Friedrikson; un altro consigliere e negoziatore con i tedeschi, Sergej Bessonov, fu arrestato, testimoniò nel processo a Bucharin e infine fu eliminato nel 1941. Anche Evgenij Gnedin, figlio del ben più noto Aleksandr Helphand-Parvus, addetto stampa dell'ambasciata a Berlino e poi del ministero a Mosca, nel maggio 1939 finì nel Gulag, ma sopravvisse. Nei primi anni Sessanta, periodo di relativa destalinizzazione e di critica a Molotov, rilasciò testimonianze sulle trattative con i nazisti, poi non ebbe più spazio, se non nelle pubblicazioni clandestine. Il caso di Gnedin è discusso da Paul D. Raymond in «Witness and chronicler of nazi-soviet relations: The testimony of Evgeny Gnedin (Parvus)», in The Russian Review, vol. 44, n. 4, 1985.
3 Intervista in Soviet documents on foreign policy, vol. III: 1933-1941, cit., p. 84.
4 Dall'articolo «Osobaya missiya Davida Kandelaki» [La missione speciale di David Kandelaki], in Voprosy istorii, nn. 4-5, 1991, scritto da N.A. Abramov, ricercatore per gli articoli del ministero degli Esteri dell'Urss, citato da Geoffrey K. Roberts in The Soviet Union and the origins of the Second World War. Russo-German relations and the road to war, 1933-1941, Macmillan, Basingstoke 1995, p. 44.
5 L'epiteto «Lenin di oggi» pare fosse stato creato dallo stesso Stalin per la sua biografia pubblicata nel 1939, in occasione del compleanno.
6 Soviet documents on foreign policy, vol. III: 1933-1941, cit., p. 388.
7 Ibidem, corsivi miei.
8 Ibidem, p. 389.
9 Ibidem, p. 390.
10 Si veda Richard B. Day, Trotsky e Stalin. Lo scontro sull'economia, Editori Riuniti, 1979, il cui titolo originale è più significativo: Leon Trotsky and the politics of economic isolation, Cambridge University Press, New York 1973.
11 Tuttavia, se entro il 1936 l'Urss aveva prodotto più mezzi corazzati di tutti gli altri paesi avanzati messi insieme e sicuramente di miglior qualità dei Panzer tedeschi, la dottrina militare più avanzata e un'organizzazione in corpi meccanizzati ad essa corrispondente, tutto ciò venne spazzato via durante il Grande Terrore del 1937-38 dalla purga del corpo ufficiali, che ne eliminò come minimo 30 mila, insieme ai cervelli più fini dell'Armata rossa; da questo conseguì l'abbandono della precedente impostazione, la liquidazione dei corpi corazzati, disorganizzazione, demoralizzazione. Qualcosa iniziò a cambiare dopo la vittoria della Wehrmacht in Francia, ma non abbastanza: questo, con la convinzione di Stalin che Hitler avrebbe avuto la buona grazia di presentare le sue richieste, condusse alla catastrofe del 1941.
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