Dall'inizio dell'irruzione del radicalismo islamista e del jihadismo sui media si parla frequentemente di Sharia, ma con estrema approssimazione e varie deformazioni, col risultato di non far intendere le reali caratteristiche del fenomeno. Questa parola araba significa "via", "cammino verso la fonte", "strada battuta", "sentiero", e indica altresì il diritto religioso contenuto nel Corano e da esso derivato. Parlare di "legge" islamica è impreciso se teniamo conto della tipicità assunta in Occidente dal concetto di legge. La Sharia non è una "legge codificata" né codificabile, per quanto anche le rivendicazioni del radicalismo musulmano - e a volte anche di movimenti islamici qualificati dagli occidentali come "moderati" - occultino questo aspetto: essi infatti parlano di reintroduzione della Sharia quale disciplina giuridica religiosa della società e dei singoli, al che c'è da chiedersi di quale Sharia si tratti. Infatti essa non s'identifica per nulla con un insieme normativo bell'e fatto, e se qualcuno si recasse in una libreria islamica con l'idea di comprare il volume contenente la Sharia non lo troverebbe, o nella migliore delle ipotesi il libraio gli presenterebbe il Corano, una raccolta completa dei detti e fatti del Profeta (se è sunnita) e dei commentari della scuola giuridico-religiosa più influente nel paese.
Innanzitutto deve essere "ricavata" dal Corano e poi dalle altre fonti di cui diremo. Tutto sommato sarebbe meglio parlare di "sistema giuridico", piuttosto che di legge, e infatti fino al sec. XIX (cioè fino alla grande irruzione del colonialismo europeo nel mondo musulmano) l'espressione "legge islamica" era ignota ai Musulmani.
Per quanto possa sembrare un'eresia ai più, esistono forti similitudini con la common law britannica, particolarmente riguardo all'importanza dei precedenti e all'uso dell'analogia. In entrambi tali sistemi giuridici non c'è legge scritta, e se la common law è un diritto formato dai giudici, la Sharia è formata essenzialmente dai giuristi. Gli storici del diritto discutono su un altro punto inaspettato: cioè se la common law abbia tra le sue ascendenze proprio il diritto musulmano. Chi risponde positivamente al quesito sostiene che istituti fondamentali del diritto britannico derivano o sono stati adattati dal diritto islamico a seguito della conquista normanna dell'Inghilterra in base a conoscenze acquisite dal regno normanno di Sicilia, in cui forte era ancora la presenza musulmana. Ciò ovviamente non vuol dire negare il ruolo della tradizione anglo-sassone nella formazione della common law.
Nella tradizione islamica classica il potere politico non poteva intervenire in alcun modo nell'elaborazione normativa, riservata ai soli giuristi attraverso l'elaborazione dalle fonti religiose. Questo dà luogo a una sorta di tensione (per così dire) tra tendenza etico-spirituale e tendenza "istituzionale", in cui prevale l'aspetto normativo. Altro aspetto da considerare (e che i radicali islamisti e i jihadisti trascurano) è che, proprio per la sacralità di base della Sharia il fine primario della rivelazione coranica non è la regolazione dei rapporti fra gli esseri umani, bensì il rapporto tra il singolo e Dio.
In Occidente gli studi islamistici da lungo tempo sono focalizzati sul solo Sunnismo, quantitativamente maggioritario (circa l'80% dei Musulmani), e pochissimi sono ancora gli specialisti di Sciismo; di conseguenza anche il discorso sulla Sharia viene presentato secondo la versione sunnita. In questa sede ogni differenza fra Sunnismo e Sciismo verrà segnalata, senza però presentare una visione comparata - per esigenze di spazio. In merito allo Sciismo va ricordato che lì la corporazione degli ulema nel corso del tempo si è strutturata in termini organizzativi "forti", gerarchici, costituendosi in una sorta di "simil-clero". Ragion per cui vale solo per il Sunnismo osservare che l'impostazione modernista (nonostante le apparenze) del radicalismo islamista fa perdere di vista un aspetto essenziale della fenomenica giuridica sunnita tradizionale: la sua variegata articolazione nelle modalità e nelle tecniche operative è agevolata anche dalla mancanza di una gerarchia del sacro, per cui in caso di controversie giuridiche non esiste un'autorità superiore capace di dirimerle.
È noto che in alcuni Stati musulmani (come l'Arabia Saudita) la Sharia viene intesa come diritto dal carattere rigidamente coercitivo, e identica è la posizione dei vari movimenti jihadisti. Tuttavia nell'Islam classico si indirizzava il comportamento etico con scarso potere coercitivo, proprio a motivo del suo predetto fine spirituale primario. Ad ogni modo i versetti coranici definiti e definibili "legali" sono in numero ridottissimo rispetto all'insieme di 6.236 versetti e oltretutto non hanno una portata così ampia o esaustiva da costituire un codice giuridico completo.
Dovrebbe essere appena il caso di rilevare che sono estranei alla Sharia i risultati di usi e costumi locali, eventualmente preislamici o extraislamici, spesso e volentieri spacciati come richiesti dalla religione (si pensi alla mutilazione dei genitali femminili praticata in varie regioni musulmane dell'Africa), ma semplicemente frutto di feroci concezioni patriarcali.
LE FONTI
La prima e più importante fonte d'integrazione normativa al Corano è la vita del Profeta, considerata "esemplare" avendo egli meglio compreso fra gli esseri umani gli intendimenti divini. La sua biografia, cioè i suoi comportamenti e anche i silenzi, insieme ai suoi detti costituiscono la Sunna, "la tradizione". Corano e Sunna sono quindi le fonti primarie della Sharia. Le altre fonti sono: a) il fiqh, il diritto, cioè il lavoro di "estrazione" delle norme giuridiche dalle due fonti primarie; b) il consenso (ijma), che si fonda su un detto del Profeta per cui la comunità musulmana non può essere concorde su un errore, in quanto ispirata da Dio. Questo consenso è considerato dai Sunniti una forma di rivelazione, e viene usato per dare corpo a determinate interpretazioni del Corano o all'applicabilità di un precetto. Certo è che si presenta come una fonte estremamente problematica, e infatti gli Sciiti – a motivo dell'incertezza di fondo esistente in tale ambito - non l'ammettono. Il problema sta nella scelta di chi sia abilitato a manifestare il consenso. Che si tratti di un consensus populi è da escludere (e oltretutto non sarebbe affatto di facile determinazione): si fa riferimento invece all'accordo tra i maggiori giuristi di una data epoca o generazione, i quali non sono certo rappresentativi del consenso dell'intera comunità islamica e nessuno ha dato loro la rappresentanza. Si sostiene che il contenuto di tale accordo deve radicarsi nel Corano e nella Sunna, ma questo non dice nulla quand'anche queste due fonti principali presentano profili di incertezza o incompletezza.
Ad ogni modo nell'intero corpus giuridico musulmano sunnita i casi risolti con il consenso non superano l'1%; c) l'analogia (qiyas): più che di fonte vera e propria sarebbe meglio parlare di metodologie volte a ricavare norme giuridiche per i casi non regolati né dal Corano, né dalla Sunna, né dal consenso. Per quanto nel Corano e nella predica del Profeta ricorra la pratica dell'analogia, tuttavia il metodo è fonte di contrasti, e non mancarono né mancano le tesi dei tradizionalisti radicali (come sempre più realisti del re) che tacciano di empietà l'uso della ragione umana per colmare le "lacune" nella normazione divina; d) il ragionamento del giurista (ijtihad); riguardo a esso negli scritti degli islamologi ricorre il tema della sua avvenuta "chiusura" tra l'855 e l'inizio dell'XI secolo in ambito sunnita, nel quadro di un più ampio processo di stasi del pensiero critico.
Oggi non mancano gli autori musulmani che o presentano la cosa in modo più soft, o addirittura la negano. Certo è che sarebbe vano andare alla ricerca di un "proclama di chiusura" che del resto - mancando un'autorità religiosa centrale nel Sunnismo - nessuno avrebbe mai potuto emanare legittimamente. E si potrebbe aggiungere che quand'anche (per ipotesi) taluno l'avesse fatto, in un ambiente culturalmente vivace ciò avrebbe avuto scarsa influenza. Ad ogni modo la stagnazione che ha coinvolto l'Ijtihād è un dato di fatto, seppure non si possa parlare di totale paralisi della giurisprudenza musulmana sunnita, anche perché è sempre chiamata ad affrontare situazioni di tipo nuovo. Il problema non ha mai riguardato lo Sciismo, in cui l'Ijtihād è rimasto sempre del tutto funzionante.
C'è poi come fonte sussidiaria la consuetudine, cioè la prassi locale, il cosiddetto diritto comune, l'usanza tradizionale, le cui origini sono essenzialmente preislamiche. Ma non ci dev'essere contrasto con le fonti islamiche scritte. Casi tipicamente consuetudinari sono la circoncisione (non prevista dal Corano) e la determinazione del tempo entro cui dev'essere pagata la dote dallo sposo.
I RUOLI ISTITUZIONALI NELLA PRASSI GIURIDICA ISLAMICA
È il mondo degli operatori del diritto, innanzitutto distinguibili in Muftì e Qadì. Il primo è un esperto giurista (un soggetto privato) con la funzione di emettere su richiesta di singoli interessati un responso giuridico (fatwa; che non è sentenza) su un caso particolare. Si tratta di opinione non vincolante, ma idonea a risolvere anche liti in virtù del prestigio del Muftì che la emana. L'importanza di questi responsi è stata tale che in realtà la giurisprudenza islamica non è costituita dalle deliberazioni giudiziali, bensì da quanto prodotto dai Muftì. Questo insieme ha anche costituito la base per i testi giuridici scritti dai semplici studiosi del diritto.
Il Qadì è invece il giudice deliberante, soggetto pubblico e non privato come il Muftì. La funzione del Qadì era molto ampia, e ne rivela il ruolo all'interno della società musulmana, in cui era fortemente radicato: sovrintendeva alla costruzione di moschee e alle opere pubbliche, controllava le fondazioni pie e operava da mediatore extragiudiziale. In definitiva mediatore lo era anche nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, giacché il processo islamico classico non punta a un risultato definibile in termini di vincitore-vinto, bensì di ricomposizione fra le parti, in modo da evitare irreparabili rotture fra membri della stessa comunità.
Ultimo soggetto è il professore di diritto, e questo ci porta a parlare della madrasa, la scuola coranica e giuridica nata verso la fine del sec. X. Tale istituzione, inizialmente nata per iniziativa privata, ben presto suscitò l'interesse dei governanti e dei potenti che si attivarono a fondarne in gran numero e a dotarle di mezzi finanziari notevoli. Per il prestigio in tal modo acquisito, le madrase più importanti divennero anche luogo di formazione di elementi della futura classe dirigente. Ad ogni buon conto questa istituzione non ebbe mai il monopolio della formazione giuridica, tant'è che non mancarono giudici formatisi fuori da essa.
L'interesse dei sovrani e delle classi alte per la madrasa introduce il discorso sui rapporti fra il potere politico e la sfera della Sharia, che il primo controllava assai poco e male, innanzitutto non essendo fra i produttori del diritto a base religiosa, che aveva la sua sfera di autonomia rispetto ai sovrani, e godeva di un radicamento popolare tale da costituire per essi un bastione insormontabile. Lo stesso Califfo non può essere considerato fonte del diritto, e difatti non si conoscono editti giuridici di provenienza califfale tali da venire a far parte del diritto musulmano. D'altro canto il suo compito consisteva nella difesa della Sharia, nella sua applicazione, e non nella sua produzione.
Tutto questo non significa delineare uno scenario idilliaco sui rapporti fra potere politico islamico e mondo della Sharia, ma solo comprendere le rispettive posizioni di forza e debolezza. La storia delle società musulmane è costellata di poteri politici arbitrari e tirannici, ma anche di dominatori paragonabili a statue dal piede di argilla in quanto costantemente bisognosi di legittimazione religiosa che, in caso di loro entrata "a gamba tesa" nella sfera della Sharia, poteva costare molto caro. Per cui, alla fin fine, Califfi e potenti di vario rango erano costretti a sottostare a una produzione giuridica da essi non controllata.
In genere in Occidente non si ha chiaro che il potere di dinasti e governanti musulmani era visto dai sudditi con sospetto (a dir poco), per precisi motivi religiosi: la parola indicante il potere politico in arabo è mulk e il sovrano malik, che originariamente significavano "possesso" e "possessore", ma solo a Dio compete il possesso delle cose del mondo. Questa situazione faceva sì che solo i giuristi della Sharia potessero in qualche modo assicurare una legittimità islamica. Il rapido succedersi di effimere dinastie nella storia politica delle società musulmane esprime questa situazione.
Si tenga anche presente che (come del resto in tutte le società preindustriali) i dominatori nell'Islam classico erano privi dell'apparato burocratico necessario a controllare le società a essi sottoposte, ed era quindi indispensabile utilizzare allo scopo la classe dei giuristi. Ovviamente tutta questa situazione implicava la dialettica di una costante rinegoziazione con i soggetti istituzionali della Sharia, e - al di fuori dai casi di mancanza di interesse materiale o politico - non mancarono certo i momenti di frizione, anche acuta. Tuttavia per i potenti era sempre meglio valutare in anticipo i pro e i contro di loro eventuali intromissioni autoritarie nella sfera del diritto religioso.
Nella madrasa era il docente a scegliere cosa e come insegnare e quali testi far usare dagli studenti, tuttavia questa sua libertà a un certo momento venne limitata dall'approvazione ufficiale dei testi giuridici consentiti. Inoltre era lui - non avendo la madrasa personalità giuridica - a rilasciare gli attestati curricolari agli studenti alla fine dei corsi. È quasi superfluo notare che il consolidarsi e l'estendersi di questa istituzione con il sostegno economico dei potenti consentì loro di acquisire anche la fedeltà (magari provvisoria) dei giuristi che vi operavano.
La madrasa divenne anche centro di promozione sociale, sia per accedere alle cariche di giudice (ben pagate dai governanti) sia per sviluppare una carriera accademica o per diventare Muftì o autore di testi giuridici. Progressivamente si formò un processo di professionalizzazione dei giuristi e di formazione di loro dinastie famigliari. Il monopolio di queste dinastie si consolidò definitivamente nel sec. XVI durante l'Impero ottomano, nel quadro di una precisa politica di centralizzazione.
Radicali islamici e jihadisti forniscono un'immagine distorta dell'amministrazione della giustizia in base alla Sharia, cioè l'immagine di una prassi spietata, cieca e disumana. Tale immagine è moderna, poiché la giustizia secondo la Sharia tradizionale è stata storicamente altra cosa: "la soluzione amichevole è il miglior verdetto" costituisce al riguardo un principio cardine, dietro il quale operavano precise realtà sociologiche.
In società articolate in una pluralità dei corpi intermedi (per i colonialisti si trattava di frammentazione) come famiglie, clan, tribù, quartieri urbani, una gran parte delle questioni e delle liti trovavano soluzione più o meno conciliativa proprio in queste entità sociali, a partire dalla famiglia (che non era mononucleare). Quando poi le controversie finivano in tribunale, lì le parti in causa trovavano un ambiente del tutto diverso dai tribunali a cui noi siamo abituati. Il giudice era parte integrante del corpo sociale in cui operava e suo compito primario consisteva nel mantenimento dell'armonia al suo interno, dando il massimo della considerazione ai profili etici collettivi e personali dei contendenti.
L'assenza del rigido e impersonale binomio "vittoria-soccombenza" dipendeva dal dovere del giudice di non applicare astrattamente le norme a prescindere dai profili di equità, di modo che non frequente era la vittoria schiacciante: il deliberato processuale mirava a precisi risultati sociali ed etici; la vittoria parziale, cioè volta alla composizione, era più normale della condanna secca, peraltro inevitabile in casi di gravi violazioni dell'ordine morale e sociale. In definitiva il ruolo del giudicante doveva svilupparsi nella mediazione dialettica fra norma giuridica ed esigenze morali tanto dei contendenti, quanto del corpo sociale nel suo complesso.
Nelle aule di giustizia il processo si svolgeva in modo estremamente informale, e le parti, che esponevano liberamente le proprie ragioni senza avvocati, raramente erano digiune di diritto (come invece accade normalmente per i cittadini degli Stati moderni), giacché la Sharia - a parte le inevitabili sottigliezze teoriche riservate ai giuristi - era una tradizione sociale vivente e condivisa, il che consentiva ai litiganti autorappresentati di potersela cavare da soli. E questo riguardava anche le donne, nonostante quel che in genere si pensa: in quanto titolari di personalità giuridica potevano agire da sole nei tribunali, e spesso lo facevano con astuzia e abilità non inferiori a quelle degli uomini.
LE SCUOLE GIURIDICHE
Tali scuole (madhhahib, sing. madhhab) sono quattro nel Sunnismo e due nello Sciismo; rispettivamente: la Hanafita, la Malikita, la Shafiita e la Hanbalita; e quindi la Zaydita e la Jafarita. La formazione delle scuole giuridiche è stata una necessità per il mondo islamico poiché l'iniziale abbondanza di scuole individuali aumentava senza costrutto il proliferare di differenti interpretazioni giuridiche in un sostanziale vuoto di autorità di riferimento. Alla fine queste scuole fecero da punto di collegamento tra le società e i vari dinasti. Esse si affermarono de facto, ma alla fine anche de jure, giacché fino alla loro sostanziale emarginazione dovuta al colonialismo non fu possibile ai singoli giuristi operare indipendentemente da esse. I cittadini comuni potevano passare da una scuola all'altra anche per singoli negozi o chiarimenti operativi.
L'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA NEL PERIODO OTTOMANO
Per le dimensioni raggiunte e per aver incluso quasi totalmente il mondo di lingua araba fino all'incontro/scontro col colonialismo europeo, l'Impero ottomano è importante per accertare la situazione della Sharia in quella fase storica, premettendo che già con l'avvento della dinastia califfale degli Abbasidi di Baghdād (nel 750) il potere degli ulema si era accresciuto notevolmente, e il califfo Harun ar-Rashid (dal 786 all'809) costituì un potere giudiziario centralizzato all'uopo nominando un capo gerarchico dei giudici. I giuristi riconoscevano al Sultano il potere discrezionale di emanare norme "amministrative" a integrazione della Sharia, purché nel rispetto di essa. Questo è il qanun. Il grande Sultano a noi noto come Solimano il Magnifico (1494-1566) per Ottomani e Turchi era detto Süleyman qanuni, cioè il legislatore.
Qanun e Sharia non sempre collimarono: in certi casi il qanun integrò semplicemente quest'ultima in materia di ordine pubblico e di taluni reati, ma aprì all'usura, alla tortura e alla tassazione non prevista dalla Sharia, tant'è che i giudici, quando potevano, ignoravano o disapplicavano tali innovazioni. Sul finire del sec. XVI nell'Impero ottomano si procedette all'unificazione dei poteri riferiti alla Sharia in capo al Qadì che accrebbe di gran lunga la sua sfera di competenze. Nella creazione di una gerarchia giuridica alla fine del sec. XV era stata valorizzata la figura dello Shaykh al-Islam, che in precedenza era stato solo un Muftì di prestigio, supervisore dell'istruzione giuridica locale. Con la riforma ottomana questa figura divenne il vertice della gerarchia giudiziaria, la suprema entità giuridico-religiosa, titolare del potere di nominare e revocare i giudici, di esprimere pareri legali e per molto tempo anche di deporre il Sultano. Fino al sec. XVII la sua carica fu a vita, e neppure il Sultano poteva deporlo.
Ulteriore innovazione ottomana fu la localizzazione unica delle aule giudiziarie, ovvero il palazzo di giustizia. Qui si svolgevano oltre all'attività di tribunale anche altre funzioni che ne facevano un centro di amministrazione imperiale: era sede dell'amministrazione fiscale e divenne fonte di reddito per la tesoreria del Sultano, giacché i giudici (non più stipendiati) furono autorizzati a percepire parcelle dai litiganti e da chi a loro si rivolgesse. Cominciarono le registrazioni delle cause e dei matrimoni, dietro pagamento di una tassa.
La fase di vera e propria sostituzione progressiva della Sharia da parte di una legislazione improntata ai moduli occidentali sarebbe poi avvenuta nel sec. XIX. Il qanun - attraverso l'incremento quantitativo e qualitativo della sua produzione, innanzitutto con il conferimento di un ruolo sempre maggiore al diritto consuetudinario - ovviamente entrò in concorrenza dialettica con la Sharia, e per quest'ultima la situazione si aggravò in modo rilevante a causa dell'introduzione (volontaria o no) di moduli e teorie desunti dagli ordinamenti giuridici europei.
OGGI
Finora abbiamo parlato della Sharia come è stata, prima delle vaste distruzioni del contesto classico effettuate dal colonialismo europeo che, per periodi magari di lunghezza non biblica, ha dominato la quasi totalità del mondo musulmano incidendovi in profondità e introducendo lo Stato nazionale. E poi c'è da mettere nel conto l'azione del radicalismo islamico contemporaneo. Per pura comodità cominciamo da quest'ultimo. Si legge spesso che - nonostante i reiterati proclami di ritorno alle origini dell'Islam (viste in modo riveduto e corretto secondo gli intendimenti ideologici del radicalismo stesso) - reca in sé stigmate proprio di quella modernità occidentale a cui rivolge multipli anatemi. Il giudizio è esatto, ma in genere viene motivato in base ad elementi psicologici, ideologici, politici ecc.; manca invece, quale termine di confronto, il nesso con tanti secoli di esperienza della Sharia fatte da società musulmane tanto diverse fra di loro; in sostanza un diritto costruito dall'interno di queste società come parte essenziale di un modo di vivere condiviso socialmente, nel quadro - non sembri azzardato dirlo - di una specie di autogoverno, pur se sovrastate da poteri politici dispotici a cui era negato l'ingresso nella sfera della Sharia. Inoltre, aspetto fondamentale, si è trattato di un diritto plurale nelle sue interpretazioni e nelle determinazioni normative estratte dalla rivelazione, che essenzialmente presupponeva comunità attente alla morale e con i membri moralmente definiti.
Con il radicalismo odierno abbiamo invece un'impostazione ideologica estremamente coercitiva e sanguinaria, che si lascia indietro il pluralismo e la flessibilità pregresse, ne isola determinate elaborazioni e interpretazioni a scapito delle altre e ne fa una sorta di diritto statale. Cosa ha a che fare tutto questo con la dimensione classica della Sharī‘ah? La domanda è retorica. Poiché pensar male sarà anche peccato, ma in genere ci si azzecca, vengono alla mente due considerazioni: la prima è che buona parte dei Musulmani auspicanti l'avvento della Sharia ne abbia perso - dopo le demolizioni colonialiste e dello Stato moderno - le connotazioni spirituali e antropologico-culturali; la seconda è che il silenzio o l'appoggio degli ulema all'attuale ubriacatura corrisponda più al timore per le conseguenze personali di una decisa presa di posizione che non a convinzioni effettive. Altrimenti ci sarebbe da chiedere cosa abbiano appreso della Sharia tradizionale. Inoltre, parlare di un effettivo diritto pubblico su base religiosa è molto azzardato, in quanto il Corano non contiene elementi utili alla realizzazione e gestione dello "Stato islamico" (concetto inesistente fino a oggi), a parte due indicazioni più etiche che istituzionali: il governante deve essere giusto e i governati devono obbedirgli (4,58-59), e governanti e governati devono consultarsi (42,38).
Si aggiunga che l'introduzione dello Stato moderno ha inserito nel corpo delle società musulmane - o meglio, vi ha sovrapposto - un'entità che per la sua stessa natura esprime esigenze specifiche non compatibili con lo spirito e la prassi della Sharia. Quando nelle condizioni politiche, sociali e culturali odierne, dopo sostanziali e pesanti soluzioni di continuità, se ne chiede la restaurazione, non si capisce bene a che cosa ci si riferisca, stante il contesto plurale all'interno della stessa Sharia se correttamente intesa. L'influsso occidentale ha operato tanto nel diritto privato quanto in quello pubblico, e quando in certe Costituzioni di paesi musulmani, per contentare i tradizionalisti e i radicali, si presenta la Sharia come "fonte" o "fonte principale" o "una delle fonti" del diritto, ma tali previsioni hanno un valore tra il simbolico e il propagandista dagli effetti pratici non bene individuabili.
Infine non va sottaciuto che il sistema tradizionale si è formato in contesti preindustriali di cui rispecchia situazioni ed esigenze, e quindi non è sempre adeguato alle mutate condizioni socio-economiche e politiche. Per esempio, una società contemporanea non può assolutamente essere gestita con le poche tasse previste dalla Sharia, per non parlare della contrattualistica: i contratti di assicurazione, in quanto aleatori, contrastano col divieto di alea, e dovrebbero essere vietati; lo stesso dicasi per i contratti produttivi di interessi, equiparati alla vietatissima usura. E infatti abbiamo che il Codice civile egiziano prevede la produzione di interessi nel caso del ritardo di pagamento di una somma già determinata, a titolo di risarcimento del danno, nella misura del 4% per gli ordinari contratti civile e del 5% per quelli commerciali. Da notare che tale norma fu considerata costituzionalmente legittima quand'anche ci fosse stata (nel 1980) la modifica della Costituzione nel senso di mutare il ruolo della Sharia nei confronti dell'ordinamento giuridico statale: non più "una" fonte del diritto, bensì "la" fonte del diritto.
La pratica conosce tutta una serie di aggiramenti della Sharia per adeguarsi alla realtà, spesso salvando la lettera ma non lo spirito. Si pensi alla vendita con riacquisto in modo da far pagare un interesse camuffato. C'è da chiedersi che cosa sia realmente rimasto dell'esperienza della Sharia. E se un'incompatibilità profonda esiste fra la Sharia e qualcosa di altro da essa, l'incompatibilità opera in primo luogo nei confronti dello Stato moderno. La Sharia è stata un ordinamento giuridico sviluppatosi in seno alle comunità e senza intervento o sovraordinazione statale, e se oggi il presunto - e da certuni auspicato - ritorno alla Sharia dovesse passare attraverso il ruolo dello Stato, allora sarebbe meglio provvedere a un cambio di nome, poiché non si tratterebbe affatto della stessa realtà. L'imperversare di radicalismi islamici e jihadismi vari non riesce a occultare un dato oggettivo: la Sharia è un fenomeno storico sostanzialmente terminato. Riportarlo in vita (a prescindere dal problema di quale Sharia si tratti) equivale a cercare di costruire uno zombie.
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