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sabato 29 novembre 2014

NEL 20º DELLA MORTE (30 novembre 1994) - La società dello spettacolo di Guy Debord e la critica rivoluzionaria, di Michele Nobile

L’inattualità della Società dello spettacolo, nel mondo falso in cui è verificata 

A rileggerla oggi, vien da pensare che la Società dello spettacolo di Guy Debord sia di straordinaria inattualità: ma proprio perché, da quel lontano 1967, il processo storico di spettacolarizzazione della società è ora giunto a compimento.
Nel discorso contemporaneo i termini spettacolo e spettacolarizzazione ricorrono frequentemente: ad esempio, non sono rare espressioni come politica-spettacolo e spettacolarizzazione della politica; il termine americanizzazione li implica entrambi, essendo erroneamente considerati gli Stati Uniti come patria dello spettacolo (come si vedrà, invece, i partiti operai europei hanno svolto un ruolo di primo piano nella formazione della società dello spettacolo); è una banalità sottolineare l’importanza, ai fini del successo, dell’immagine degli individui, sia comuni spettatori che pubblici attori. Ed è un fatto che, quale sia il campo nel quale sono state fatte emergere, le vedette dello spettacolo possono trascorrere tranquillamente dal commento sportivo alla discussione di bioetica, dalla dietetica alla politica internazionale. Altamente spettacolari sono le grandi mostre itineranti, che rappresentano l’imbalsamazione commerciale dell’arte, e massimamente spettacolare fu l’attacco terroristico alle torri gemelle: a dimostrare che perfino i nostalgici dell’Umma medievale hanno fatto propria la spettacolarità quale dimensione essenziale della politica postmoderna e postdemocratica. Logica postmodernista nell’uso dei mezzi comunicativi - e distruttivi - e neomedievalismo integralista possono fondersi nell’azione e nella falsa coscienza spettacolare. La società dell’immagine e degli eventi spettacolari è messa in scena da un insieme di apparati vastissimo e diversificato.
Dunque, riconsiderando sia la realtà dello spettacolo della società contemporanea, sia l’enorme diffusione della varia letteratura intorno all’immagine e allo spettacolo, ci si può sentire autorizzati a considerare la Società dello spettacolo come uno dei testi di maggior successo dell’ultimo mezzo secolo: se non come copie vendute, almeno per influenza sull’intellettualità postmoderna. Tuttavia, penso si tratti di un’influenza mediata e indiretta: in sostanza, una banalizzazione che si limita a vedere solo la superficie dei fenomeni della spettacolarizzazione.
L’analisi di Debord permette di dare un senso storico sia alle trasformazioni strutturali sia alle rielaborazioni ideologiche omogenee all’ordine esistente, quali si sono dispiegate tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. La Società dello spettacolo delinea le caratteristiche principali e la ragion d’essere dell’atmosfera sociale, politica, culturale e, perfino!, economica a noi contemporanea. E appare inattuale perché, portato a compimento il processo di spettacolarizzazione della società e, vivendo noi dentro questa atmosfera, è difficile distanziarsene e prenderne coscienza. Il perfezionamento postmoderno della società dello spettacolo comporta il trionfo della tesi della fine delle ideologie ma con la differenza, rispetto alle aspettative degli anni ’60, che il trionfo è tale perché è sopravvissuta un’unica visione ideologica del mondo o, meglio, abbiamo «una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta. Si tratta di una visione del mondo che si è oggettivata» (tesi 5, La società dello spettacolo, introduzione e cura di Pasquale Stanziale, Massari editore, Bolsena 2002, p. 44. D’ora in poi l’indicazione delle pagine si riferisce a questa edizione). Che è, appunto, la società dello spettacolo come fatto sociale totale e totalizzante. In tempi più recenti la tesi della fine delle ideologie è stata riproposta con l’idea della fine della storia, postulando la società capitalistica e liberaldemocratica quale l’unico orizzonte oramai disponibile all’umanità. La risposta che diede allora Debord si attaglia perfettamente all’atmosfera mentale postmoderna:

«Quando l'ideologia, che è la volontà astratta dell'universale e la sua illusione, si trova legittimata dall'astrazione universale e dall'effettiva dittatura dell'illusione nella società moderna, essa non è più la lotta volontaristica del parcellare, ma il suo trionfo» (tesi 213).

Non si tratta qui del «pensiero unico neoliberista». Il pensiero dei politici e le strategie messe in atto dalle grandi società transnazionali non si riducono ad un’unica forma: sono piuttosto elastici, pragmatici, sono liberisti e mercantilisti secondo la convenienza e i bersagli. Lo spettacolo può essere una intera società perché è un periodo storico, in tutte le sue molteplici articolazioni e divisioni, nel suo insieme e nella sua complessità. Nel senso di Debord lo spettacolo non è il settore specifico della cosiddetta comunicazione di massa, né il prodotto spontaneo dell’evoluzione tecnologica, né uno stile: «lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente (…) costituisce il modello presente della vita socialmente dominante»; «è il momento storico che ci contiene» (tesi 6 e 11, pp. 44 e 46).
Tuttavia, coloro che ragionano dello spettacolo e dell’immagine sono per lo più irretiti nel suo stesso gioco e ne sono essi stessi agenti: si limitano a un discorso, più o meno critico, su quel che è relativo allo spettacolo come settore specifico e come apparenza fenomenica. In tal caso, la critica è moralistica, rimane limitata agli eccessi della spettacolarizzazione, magari auspica un ritorno ai buoni vecchi tempi, quando lo spettacolare era meno pervasivo, la riscoperta degli antichi valori - come se non avessero, a loro tempo, legittimato il medesimo ordine sociale che ora li scarta o li proclama per fini particolari - comportamenti più sobri, ma non coglie il senso profondo della centralità odierna dell’immagine e dello spettacolo come forma del rapporto sociale.

Lo spettacolo come forma totale del capitalismo avanzato, ovvero La Società dello spettacolo come critica dell’economia politica

Ponendo la società sotto l’insegna della comunicazione e della conoscenza, i discorsi dominanti nello e sullo spettacolo allontanano dalla coscienza i segni del dominio e dello sfruttamento, rendendo più difficile comprenderne la portata e specialmente - al di là della dolorosa constatazione dell’accidente empirico - le profonde ragioni sociali. Così, nella società della conoscenza la società è mistificata. Questi discorsi tendono infatti a far apparire le trasformazioni dei rapporti di classe e la ristrutturazione sociale come fatti inevitabili, conseguenti dalla naturale evoluzione tecnologica ed economica. Nel postmodernismo, inteso come razionalizzazione ideologica della società dello spettacolo, l’ideale e il reale, il soggetto e l’oggetto si confondono, sotto il primato dei primi termini, nella riduzione unilaterale del mondo a complesso di simulacri, a gioco linguistico, ad assoluta indeterminatezza che vuole apparire come libertà, pluralismo, politeismo dei valori, tolleranza tra le diverse «tribù» coesistenti nella società. Si tratta della forma più recente di quel che nel linguaggio filosofico si definisce idealismo assoluto; nei termini della scuola di Francoforte, questa è la forma più radicale di formalizzazione della ragione soggettiva, che giunge al consapevole e felice dissolvimento non solo dell’oggettività come altro dal soggetto (individuale e sociale), ma anche del soggetto stesso. In definitiva, questo soggettivismo, estremo e autocontraddittorio, finisce per confermare il rozzo materialismo del primato della tecnica, che è poi il primato dell’economico, quindi del dominio oggettivo, impersonale e nichilistico della riproduzione del capitale, sempre in trasformazione, sempre sé stesso. Nella messa in scena delle soggettività spettacolari si perde il significato del giudizio fondato e condivisibile; specialmente, cessa di avere senso l’idea di trascendere la totalità oggettiva dell’ordine sociale esistente. Esso è sacralizzato dallo stesso movimento che nega il sacro come liberazione dall’ingiustizia e come comunità di individui spiritualmente liberi.
Ciò che si realizza in questo modo è il compimento del processo che va dalla «degradazione dell'essere in avere», che è proprio della prima fase del capitalismo - o forse di tutti i modi di produzione che attuano lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, tutti, in certa misura, spettacolisti in quanto basati sulla separazione - alla conferma dell’avere come si pone nel suo apparire, anche illusorio o desiderante (vedi tesi 17, p. 47).
Perché il modo di produzione capitalistico assume la forma della società dello spettacolo? Quale rapporto corre tra la forma di falsa coscienza postmodernista e la logica sociale obiettiva del capitalismo? La risposta di Debord è: «lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che quello: il mondo che si vede è il suo mondo» (tesi 42, p. 58).
Nei primi due capitoli del libro lo spettacolo è proprio delle società capitalistiche più avanzate, quelle dette dell’abbondanza o consumistiche (dello spettacolo diffuso), nelle quali la riproduzione della vita e la vita quotidiana dipendono pressoché integralmente dal consumo di merci. Il modello economico implicito in Debord è quello che sarà poi detto fordista, in cui la domanda di beni di consumo dei salariati è integrata nella programmazione economica, privata e pubblica, ed in cui la modalità prevalente dello sfruttamento è quella dell’estrazione di plusvalore relativo, assicurata dalla velocità dell’innovazione del processo di lavoro e dei prodotti-merce. Il punto di vista è macroeconomico e sintetico

«A questo punto "della seconda rivoluzione industriale", il consumo alienato diviene per la massa un dovere supplementare alla produzione alienata. È tutto il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il cui ciclo deve proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale ritorni frammentariamente all'individuo frammentario, assolutamente separato dalle forze produttive operanti come un insieme» (tesi 42, p. 58).

Quel che era già valido ai tempi della redazione della Società dello spettacolo è ancor più vero oggi: non solo perché il lavoro sociale è ancor più sottoposto, in estensione ed intensità, alla forma di merce ed alla valorizzazione del capitale, ma perché enormemente più debole è la capacità di resistenza sociale e politica del lavoro vivo e dell’insieme dei cittadini ai processi economici capitalistici. Nel significato macrosociale di Debord lo spettacolo è una modalità potenziata del feticismo della merce, quella a cui perviene il capitalismo quando

«La soddisfazione che la merce abbondante nel suo uso non può più dare continua ad essere cercata nel riconoscimento del suo valore in quanto merce: è l'uso della merce che basta a se stesso e, per il consumatore, l'effusione religiosa verso la libertà sovrana della merce» (tesi 67, p. 71).

Nell’universale mercificazione è il desiderio del possesso della forma-merce in quanto tale che diviene un bisogno, prevalente sul reale valore d’uso della merce stessa, realizzando, nella pratica e nell’immaginario, quel che si può dire la caduta tendenziale del valore d'uso. Questa è l’altra faccia dell’obsolescenza programmata delle merci e della morte delle singole merci, assicurata dalla varietà e dal susseguirsi delle mode, la cui sostanza invariabile è appunto la forma-merce come tale, spirito assoluto che si manifesta attraverso particolari figure. Il consumatore vive del consumo di illusioni e di pseudobisogni pagati a rate, fino alla bancarotta personale e del sistema finanziario - la cui nuova architettura poggia sullo spettacolo delle imprese startup senza profitti e sul mutuo immobiliare anche per chi non ha lavoro. Sappiamo che gli Stati possono lasciar sommergere le famiglie ma, senz’altro, gli è doveroso salvare le banche: lo spettacolo, con i suoi drammi e le sue commedie, deve continuare. La società dello spettacolo è la scena della consumazione della vita in cui regnano, in contrasto con la concretezza dei bisogni vitali e dei valori d’uso, il valore di scambio e l’autovalorizzazione del capitale, produttivo e monetario. Più precisamente: merci, mercato e moneta non sono invenzioni della società capitalistica, ma è solo in questa società che, in forza della separazione generale dei lavoratori dai mezzi di produzione e di sussistenza, la forma-merce e la forma dell’equivalente generale, il denaro, dominano completamente la vita: la produzione delle merci particolari deve sempre potersi ricondursi alla loro realizzazione nella concreta astrazione del lavoro sociale, in denaro che genera più denaro. Giustamente, allora, lo spettacolo della forma-merce non è che «l'altra faccia del denaro: l'equivalente generale astratto di tutte le merci», che si afferma quando

«la totalità del mondo mercantile appare in blocco, come un'equivalenza generale di ciò che l'insieme della società può essere e fare. Lo spettacolo è il denaro che si guarda soltanto, perché già in esso è compresa la totalità dell'uso che si è scambiata contro la totalità della rappresentazione astratta. Lo spettacolo non è solo il servitore dello pseudouso, è già in se stesso lo pseudouso della vita» (tesi 49, p. 61).

È quindi comprensibile che, quanto più debole è la capacità di resistere agli imperativi dello sfruttamento e della competizione capitalistica - quanto più arretra la coscienza della necessità e della possibilità della liberazione sociale - la forma-merce e il denaro che valorizza sé stesso diventino feticci che dominano, realmente e idealmente, la società. Il corso delle azioni e delle monete diviene uno spettacolo in sé stesso, complemento delle battute e delle contro-battute delle vedette sulla scena politica postdemocratica.
Nello spettacolo si condensa il feticismo spontaneamente secreto dalla moderna mercificazione universale, ipostasi reale, realtà che appare autonoma e separata dai viventi, il dominio del morto sul vivo, dell’astrazione sul vissuto. Si deve insistere sulla realtà dell’astrazione capitalistica. Essa è, innanzitutto, l’astrazione del lavoro come si compie nel processo di valorizzazione del capitale. Se l’alienazione-separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione e di sussistenza è la necessaria premessa di questa astrazione, e se l’alienazione dei lavoratori dal prodotto del loro lavoro ne è la conseguenza necessaria, l’astrazione del lavoro si opera nel processo di lavoro-valorizzazione del capitale, sotto il comando del capitale. Il lavoro diviene astratto non solo perché indifferente al suo contenuto concreto ma, essenzialmente, perché sottoposto all’estrazione tendenzialmente senza limiti di valore, di ricchezza in forma astratta, che deve realizzare il proprio valore nella vendita in cambio di denaro. Ne La società dello spettacolo il nesso tra astrazione reale e il darsi della società capitalistica come spettacolo è posto così: «l'astrazione di ogni lavoro particolare e l'astrazione generale della produzione d'insieme si traducono perfettamente nello spettacolo, il cui modo di essere concreto è giustamente l'astrazione» (tesi 29, p. 52). L’astrazione del lavoro si fonda sulla sussunzione reale del lavoro al capitale e costruisce il potere del capitale; e questo stesso potere, nella circolazione spettacolare delle merci, sussume realmente la vita dei lavoratori, che la pagano indebitandosi col capitale monetario, dopo aver arricchito il capitale produttivo. L’abbiamo verificato con le trasformazioni dei sistemi finanziari a partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso e, nel modo più chiaro, con la grande recessione iniziata nel 2007 negli Stati Uniti.
Lo spettacolo è dunque l’autoaffermazione del potere esistente, della società come un dato apparentemente naturale e indiscutibile, la sua trasformazione in feticcio attraverso la rappresentazione della forma-merce che, in tal modo, consegue la sua realizzazione assoluta. Esso, tuttavia, è pur sempre un «rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini» (tesi 4, p. 44); lo spettacolo è reale ed è anche solo l’illusione del regno del consumatore, perché il consumo non è che il risultato di scelte a priori compiute da chi detiene i mezzi della produzione sociale (nel senso più ampio, del monopolio del capitale produttivo di merci materiali e immaginarie e del monopolio del capitale monetario).
È questo che permette di concludere che «lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine» (tesi 34, p. 54).
Il concetto del capitalismo avanzato come società dello spettacolo supera la dicotomia di base e sovrastruttura, di realtà e ideologia, di essere e apparire.

«Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e l'attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. E nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riprende in se stessa l'ordine spettacolare, offrendogli un'adesione positiva. La realtà oggettiva è presente su entrambi i lati. Ogni nozione così fissata non ha per fondo che il suo passaggio all'opposto: la realtà sorge nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è l'essenza e il sostegno della società esistente» (tesi 8, p. 45).

Qui il mondo sociale non è ridotto a un gioco linguistico, né il linguaggio di questo mondo è inteso come un mero riflesso della base economica: nessuno dei due termini è assorbito dall’altro ma, insieme, nella loro unità, costituiscono una contraddizione. Senza unità nella distinzione non c’è contraddizione: e qui la distinzione si concretizza nella separazione degli apparati e nella scissione della società, che riconducono ad una condizione di alienazione, alla potenza del dominio.
Riformulando una frase di Eduard Bernstein, nella riproduzione della società dello spettacolo si realizza l’inversione tra i mezzi e il fine: «nello spettacolo, immagine dell'economia dominante, il fine non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo in se stesso» (tesi 14, p. 47).
Per quanto pubblicata prima della crisi del dollaro, della fine del gold exchange standard e dei cambi fluttuanti, del dilagare delle innovazioni di prodotto e di processo nel settore finanziario, dei cambiamenti in tutti i campi della società prodotti dalla controffensiva capitalistica, tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, la linea di pensiero del libro di Debord ha trovato conferma nella realtà.

La lettura parziale della Società dello spettacolo e la critica della società come totalità

Quelle esposte sono le linee fondamentali della concezione debordiana del capitalismo avanzato come società dello spettacolo. Esse permettono di distinguere tra chi critica lo spettacolo in quanto forma del dominio capitalistico e chi si limita a criticare moralisticamente gli eccessi dello spettacolo e della spettacolarizzazione, quel riformismo «che non conosce il negativo insediato al centro del suo mondo, non fa che insistere sulla descrizione di una sorta di eccedenza negativa che gli sembra deplorabilmente ingombrarlo alla superficie, come una proliferazione parassitaria irrazionale» (tesi 197, pp. 147-8).
Linee assolutamente fondamentali, ma che sono ben lungi dall’esaurire la critica totale della società dello spettacolo nella sua dimensione mondiale e in tutto il suo spessore storico. Come si vedrà, ne La società dello spettacolo c’è molto altro. Eppure, la mia impressione è che, nella maggior parte dei casi, del testo di Debord si faccia una lettura mutilante. Si prenda, per esempio, uno studioso interessante e raffinato come Frederic Jameson, il cui lavoro è un riferimento importante per la riflessione marxista intorno al rapporto tra cultura e società. Qui mi riferisco in particolare a Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo (Garzanti, 1984) e ai saggi raccolti in The cultural turn. Selected writings on the postmodern, 1983-1998 (Verso, 1998). Allorché Jameson considera il postmoderno come la forma o la logica culturale del tardo capitalismo, egli può legittimamente richiamarsi a Ernest Mandel e a Guy Debord. Tuttavia, egli trascura l’impulso politico e più profondo della Società dello spettacolo. Il punto è che questo libro sembra ridursi ai primi due, importantissimi, capitoli e magari agli ultimi tre, mentre si sorvola del tutto sui capitoli centrali dedicati a «Il proletariato come soggetto e come rappresentazione», a «Tempo e storia e al «Tempo spettacolare». A seconda degli interpreti, i motivi della lettura parziale possono essere: un accademico disinteresse per la prospettiva politica; o l’idea, che poi è la razionalizzazione del precedente, che la ricostruzione storica e politica di quei capitoli sia qualcosa di posticcio, una divagazione di filosofia della storia irrilevante rispetto al discorso sull’immagine e sullo spettacolo. O, ancora, la lettura mutilante può essere il risultato della difficoltà a comprendere la natura della burocrazia «socialista» e il suo specifico e fondamentale apporto alla costruzione della società dello spettacolo.
Questa tipo di lettura, che coglie solo frammenti combinandoli con altri, è tipica della visione del mondo postmoderna. Essa accoglie l’idea che la vita attuale sia spettacolo, il rapporto sociale un gioco linguistico e comunicativo, la formazione di una soggettività rivoluzionaria un mito; può anche riconoscere che la mercificazione generale sia il vettore e l’ambiente dello spettacolo, assumendo un atteggiamento più o meno critico o apologetico verso il mercato e l’obsolescenza della distinzione tra l’istanza critica e pessimistica dell’alta cultura modernista e la produzione d’intrattenimento dell’industria culturale. Ma non può digerire la lezione di quei capitoli che costituiscono, evidentemente, una «grande narrazione», la cui finalità è la liberazione sociale, il cui metodo è dialettico e totalizzante. La società dello spettacolo non si può collocare nel campo dei cultural studies: il suo territorio è quello della teoria rivoluzionaria. Il libro di Debord non è solo una stimolante diagnosi dello spettacolo, è un manifesto politico; i capitoli sul tempo e la storia non sono filosofia della storia ma una ricostruzione, a grandi linee, della civiltà occidentale come storia del dominio e dello sfruttamento, come lento e incompleto processo di presa di coscienza della storicità. Quei capitoli sono un appello a prendere possesso della storia, a uscire dall’isolamento e dalla passivizzazione dello spettacolo per sovvertire l’ordine costituito del capitalismo avanzato, dell’imperialismo e delle dittature burocratiche sedicenti socialiste. È da questo punto di vista che la critica della rappresentanza, dei partiti operai e dei socialismi di Stato acquista un senso e si rivela intrinsecamente connessa alla critica dello spettacolo. Ovviamente, anche della postdemocratica spettacolarizzazione della politica.
Ridotte all’osso, le tesi del quarto capitolo sono le meno originali della Società dello spettacolo: rientrano nella tradizione di un comunismo antileninista e antistalinista che risale almeno a Karl Korsch. Tuttavia, ritengo che quei capitoli siano centrali non solo nel senso dell’architettura formale del testo ma anche della sua architettura concettuale: architettura e messaggio sono connessi. Dunque, ignorandoli non si fa solo una lettura parziale, nel senso meramente quantitativo. Si perde la qualità più profonda del messaggio politico di Debord e della logica sociale sottesa allo spettacolo come fatto mondiale, non limitato alle sole isole più avanzate del capitalismo. Penso anche che in quei capitoli risieda il nucleo di riflessioni e di motivazioni che sono geneticamente all’origine delle tesi esposte nei primi capitoli: metodologicamente, l’esposizione dei risultati segue un ordine diverso da quello della loro genesi; in questo caso si può dire anche che la tesi più astratta e generale di primi capitoli preceda una progressiva concretizzazione dei concetti e della prospettiva politica. Infine, ma non meno importante dei punti precedenti: la realtà totale della società dello spettacolo, come prodotto del capitalismo e come suo progressivo sviluppo, deve essere spiegata percorrendo, per così dire, due strade.
Una strada è quella dell’astrazione della merce e dell’astrazione della forza lavoro nel processo di valorizzazione del capitale, culminante nella società dell’abbondanza in cui il consumo di merci pervade ogni momento della vita quotidiana, presentandosi, infine, come l’apparenza reale e il momento della sintesi sociale spettacolare. Questa è la strada dei primi due capitoli, che costituiscono una esplicita critica dell’economia politica dello spettacolo del capitalismo più avanzato - necessaria anche per comprendere il capitalismo sottosviluppato delle società dette socialiste o dello spettacolo concentrato. Il riferimento al mondo sottosviluppato tuttavia qui è episodico, ed è ancora assente la critica del «socialismo reale».
Ma il capitalismo non si riduce al processo di valorizzazione né alla realizzazione del valore, a ciò che sbrigativamente si indica come la sfera dell’economia. Sua caratteristica strutturale è la separazione dei rapporti di potere in due autonome sfere: quella economica, con le sue istituzioni, private e statali, e quella politica, con l’insieme di apparati che costituiscono lo Stato. Due sfere solo relativamente autonome, che insieme costituiscono il dominio di classe; certo, connesse tra loro secondo rapporti mutevoli, ma nondimeno realmente distinte. Aggiungo che neanche nei paesi cosiddetti socialisti la sfera economica coincide totalmente con quella politica, non solo per l’esistenza di unità economiche non statali: il sogno della burocrazia pianificatrice è dominare totalmente l’economia, ma questa, prima o poi, in questo o quel modo, tende a sfuggire alla volontà politica e a trasformarsi per essa in un incubo. Comunque, per Debord la statualità è necessariamente consustanziale allo spettacolo, non meno del feticismo della merce elevato alla ennesima potenza: «La scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile dallo Stato moderno, vale a dire dalla forma generale della scissione nella società, prodotta dalla divisione del lavoro sociale e organo del dominio di classe» (tesi 24, p. 50).
Ebbene, il quarto capitolo è la seconda strada per pervenire al concetto di società dello spettacolo, quella che passa attraverso la sfera politica, dialetticamente connessa alla prima. Se lo spettacolo non pervadesse anche questa sfera e non avesse la sua origine anche nella separatezza della statualità, non avremmo, propriamente, una società dello spettacolo. Dunque, per afferrare la società dello spettacolo come fatto sociale totale è necessario percorrere entrambe le vie. La ricostruzione storica non è solo storia passata: sia perché getta luce sullo spettacolo contemporaneo; sia perché, attraverso la critica storica, si delinea una prospettiva ideale e politica, per il presente e il futuro. È significativo che la storia abbozzata nel quarto capitolo sia quella di un fallimento, del fallimento dei partiti di matrice operaia e socialista del XX secolo: si tratta dell’altro lato della formazione e dello sviluppo dello spettacolo attraverso il successo mondiale del capitalismo.
Quanto ai capitoli su tempo e storia, anch’essi sono indispensabili, sia per il «pensiero pratico» della sovversione dell’ordine esistente, sia per comprendere formazione e significato storico della società dello spettacolo.
Nel primo capitolo, «lo spettacolo non è niente altro che il senso della pratica totale di una formazione economico-sociale, del suo impiego del tempo» (tesi 11, p. 46) e «la principale produzione della società attuale» (tesi 15, p. 47). L’impiego del tempo rimanda allo sfruttamento del tempo del lavoro salariato e alle condizioni che lo consentono. Non si tratta però solo di questo: l’impiego del tempo comprende non solo la produzione ma anche il consumo, la riproduzione del rapporto sociale di produzione, il dominio e lo sfruttamento, quindi la totalità della vita sociale, il vissuto alienato degli individui. Comprende la produzione e riproduzione, nella psiche degli individui e nelle istituzioni, di questa determinata totalità sociale spettacolista.Una delle definizioni sintetiche di quest’ultima è: «Lo spettacolo come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell'abbandono della storia che si erige sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo» (tesi 158, p. 129). L’estrema falsa coscienza del tempo, che è tale perché ne cancella pure il problema, è il tratto singolo che racchiude o condensa in sé tutti gli altri tratti del postmodernismo come atmosfera culturale dell’epoca. La falsa coscienza estrema è anche quanto contraddistingue la burocrazia partitica, statale e sindacale detta socialista e i suoi illusi seguaci.
Nella Società dello spettacolo Debord sviluppa un discorso proprio centrato sul farsi della storia, sul suo movimento inconscio da cui emergono le diverse e incompiute forme della coscienza storica. È intorno alla conquista della coscienza storica nella lotta che la Società dello spettacolo va oltre l’analisi e la diagnosi impassibile del processo di spettacolarizzazione, per entrare nella dimensione politica della prassi, come critica del socialismo, nelle sue varianti socialdemocratica e bolscevica, e come indicazione di una prospettiva alternativa.
Per Debord si tratta della lotta tra il tempo reificato e il tempo vissuto, tra la temporalità del potere e quella delle grandi masse in movimento. La formazione della coscienza storica richiede la ricomposizione coerente di teoria e pratica: e questa può darsi solo nella lotta per l’auto-organizzazione in forma consiliare del movimento rivoluzionario.
La definizione più sintetica dell’umano in Debord è: l’uomo è identico al tempo (tesi 125, p. 111). Questa eguaglianza comporta una negazione, quella dell’Essere con la maiuscola, dell’ipostatizzazione dell’essere come dato naturale e statico e, inversamente, l’inseparabilità di quel che è umano dal divenire. Rigetta l’ontologia filosofica, anche di matrice marxista, cercando le ragioni storiche della liberazione. Noto infatti che, nella sua astrattezza, questa definizione dell’umano è coerente con l’enfasi sul concetto di dialettica come storia e come negazione: «e il pensiero della storia, la dialettica, il pensiero che non si arresta più alla ricerca del senso dell’essere, ma si eleva alla conoscenza della dissoluzione di tutto ciò che è, e nel movimento dissolve ogni divisione» (tesi 75, p. 76).
Se l’umano è la sua propria storia - e se la piena coscienza di questo viene a coincidere con la coscienza rivoluzionaria che abbatte ogni divisione, separazione, alienazione all’interno della società - la società dello spettacolo è, al contrario, la negazione della coscienza storica, l’annullamento dell’azione in contemplazione, «come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente» (tesi 2, p. 43), oppure «lo spettacolo è la conservazione dell'incoscienza nel cambiamento pratico delle condizioni d'esistenza» (tesi 25, p. 51).
La coscienza storica di massa della necessità e della possibilità della rivoluzione, la riconquista della vita, sono l’unica antitesi all’alienazione della rappresentanza e della società dello spettacolo, diffuso o concentrato che sia, capitalistico o socialistico.

Debord e Marx

Solo il «pensiero pratico», l’azione della classe rivoluzionaria che investe tutti i rapporti di potere, esprimendo così la coscienza della «totalità del mondo», può costituirsi come pensiero della storia, che è poi la dialettica: il progetto della rivoluzione è il tempo che esiste per l’uomo, di una vita storica generalizzata. Il fine utopico da realizzare è

«il progetto di un deperimento della misura sociale del tempo, a profitto di un modello ludico di tempo irreversibile degli individui e dei gruppi, modello nel quale sono simultaneamente presenti dei tempi indipendenti federati. È il programma di una realizzazione totale, nell’elemento del tempo, del comunismo che sopprime “tutto ciò che esiste indipendentemente dagli individui”» (tesi 163, p. 131).

Il progetto rivoluzionario implica quindi un nuovo corso della civiltà, una trasformazione che non è solo istituzionale e dell’uso e del funzionamento delle tecniche, ma anche della psiche. A questo mi pare alludere il tempo ludico, qualcosa che può ricordare la tesi di Marcuse in Eros e civiltà: la trasformazione del contenuto del principio di realtà e la rideterminazione della ragione non più nei termini economici del principio di prestazione ma in direzione dell’Eros: cioè della soddisfazione dei bisogni umani invece che della riproduzione del dominio. Anche la storia universale ha un proprio inconscio.
Prassi e coscienza stanno qui per il vissuto reale degli individui nella loro lotta come classe, collettività o comunità, antitesi dell’alienazione della vita nello spettacolo. Ciò che Debord bersaglia è l’alienazione del vissuto individuale e collettivo, che nel succedersi delle epoche assume diverse forme e figure. Nei termini più generali della visione della storia, ma anche più specifici dal punto di vista della prassi politica, direi che quel che Debord combatte è l’idea che la vicenda storica sia determinata da una forza separata e autonoma rispetto ai rapporti umani, per quanto questi si siano sempre dati come rapporti di potere. Nel caso dei partiti del movimento operaio questa separatezza, «l’ultima visione metafisica incosciente dell’epoca», è quella che assume come oggetto della storia la «progressione produttiva» (tesi 74, p. 75), la sostituzione del processo hegeliano dello Spirito «con lo sviluppo materialistico delle forze produttive» (tesi 80, p. 78) o, più generalmente, «la contemplazione del movimento dell’economia». Benché non se ne faccia parola, considerando gli anni in cui venne formulata, la posizione anti-scientistica e anti-contemplativa di Debord suona come una critica implicita dello strutturalismo marxista alla Althusser: l’enfasi è sulla lotta, sui rapporti di forza tra le classi sociali invece che sulle «leggi» dell’economia, i cui parametri sono continuamente sconvolti dalla storia reale (si veda l’attacco esplicito allo strutturalismo nelle tesi 196, 201, 202). Anche la posizione di Debord è antistoricista, ma nel senso con cui Marx affermò che la Storia, come idea ipostatizzata, non fa nulla, perché la «storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco» (tesi 74, p. 76). Qui è netta l’opposizione alla riduzione delle contraddizioni, delle lotte e del vissuto degli individui all’attesa della maturazione del contrasto tra rapporti di proprietà e forze di produzione, come nella formula marx-strutturalista. Quest’ultima può ben dirsi astratta perché riduce gli individui e le classi a portatori passivi di un ruolo, separando la coscienza e la pratica, la soggettività politica dall’oggettività dell’istanza dell’economico. Una dicotomia che darà origine a tanto post-marxismo (e postmodernismo) senza Marx, una volta che si sia preso atto della flessibilità e della resistenza del sistema.
Debord scrive: «La critica dell’economia politica è il primo atto di questa fine della preistoria: - e subito precisa -  “Di tutti gli strumenti della produzione, il più grande potere produttivo è la classe rivoluzionaria stessa”» (tesi 80, p. 79). Con ciò si ricorda un concetto fondamentale del pensiero marxiano, che è tale anche per intendere la critica dello spettacolo come critica dell’economia politica del capitalismo contemporaneo. La critica dell’economia politica non è una diversa o alternativa teoria economica, con le sue leggi invarianti storicamente specificate, ma la penetrazione e lo svelamento delle contraddizioni dei rapporti di produzione esistenti, la loro determinazione come rapporti sociali, tra esseri umani, quindi rapporti di potere e di lotta; implica l’indicazione delle condizioni sociali di possibilità e anche di dissoluzione pratica di questi stessi rapporti sociali, il loro divenire storico. Una storia che, come storia cosciente, non può che essere opera di un soggetto rivoluzionario: una storia che ha come finalità la fine dei rapporti sociali mercantili e della stessa economia politica. Il lavoro vivo, oggetto di sfruttamento e strumento della valorizzazione del capitale, deve riconquistare la vita individuale e il tempo storico nella loro totalità.
Nel prefigurare la fine rivoluzionaria dell’economia politica, Debord concordava con quanto insegnava Rosa Luxemburg nella scuola di partito poco prima l’esplodere del conflitto mondiale, ripreso nella sua Introduzione all’economia politica: una convergenza significativa, visto che Rosa dovette fare i conti molto praticamente e precocemente con la logica che caratterizzò i partiti operai del ‘900.

La critica del «marxismo ortodosso», della rappresentanza partitica e dell’assimilazione della rivoluzione proletaria a quella borghese

A questo punto la riflessione di Debord si fa più originale, perché nella ricostruzione storica salda la forma organizzativa, il partito, all’ideologia, il marxismo «ortodosso», e al contenuto politico, la rappresentanza nello e dello Stato: il riferimento iniziale è alla II Internazionale e in particolare al suo gioiello, il Partito socialdemocratico tedesco. L’ideologia kautskiana del Spd è «scientifica» nel senso in cui lo è l’economia politica, «che identifica ogni sua verità con il processo obiettivo nell'economia»; la forma organizzativa è adeguata all’ideologia in quanto è «al servizio dei professori che educavano la classe operaia», iniettandogli dall’esterno dosi di «illusione rivoluzionaria, secondo una pratica manifestamente riformista» (tesi 96, p. 90), orientata al successo elettorale e, in definitiva, all’integrazione nello Stato capitalista.
Il contenuto politico è dunque gradualista, perché «ora si scopre che, secondo la scienza delle rivoluzioni, la coscienza arriva sempre troppo presto e dovrà essere insegnata» (tesi 84, p. 81): troppo presto, si intende, rispetto al maturare delle condizioni obiettive quali sono definite dalle leggi dell’economia secondo il «marxismo ortodosso». E questo è l’atteggiamento politico contemplativo nel senso di Debord. La connessione tra la burocratizzazione dei partiti operai, la loro forma d’organizzazione e il contenuto della loro politica, da una parte, e lo spettacolo, dall’altra, è costituito dal concetto di rappresentanza socialista, intrinseco alla funzione anti-rivoluzionaria dei partiti, non a caso da Debord riferita a Ebert, al suo odio militante per la rivoluzione e alla nozione che «socialismo vuol dire lavorare molto» (tesi 97, p. 92). È la rappresentanza che implica la separazione tra partito e auto-organizzazione operaia, tra pratica riformista e ideologia rivoluzionaria, illusoria; è la rappresentanza che separa il fine e i mezzi, come è intrinseco allo spettacolo: «il fine non è niente, lo sviluppo è tutto» (tesi 14), scrive Debord, parafrasando Bernstein; oppure, ricordando Hilferding, la forma del partito operaio e la sua ideologia contemplativa separano l’obiettività della lotta tra le classi, che esprime le contraddizioni del capitalismo, dalla soggettività, riducendo la lotta per il socialismo a scelta etica puramente individuale (tesi 95, p. 90), cioè infondata.
Debord inverte i rapporti di causa ed effetto: direi, invece, che è la pratica della rappresentanza che spiega l’ideologia contemplativa, legittimazione di un partito che si concepisce come istituzione educativa della classe nell’attesa della maturità dei tempi e, intanto, orientato all’allargamento del consenso elettorale. È questa stessa pratica, quindi, che legittima ideologicamente l’assimilazione della rivoluzione proletaria al modello della rivoluzione borghese: una forma di falsa coscienza storica che, da errore, per quanto possa farsi risalire a Marx, diviene potere antirivoluzionario (tesi 84: «L'aspetto deterministico-scientifico del pensiero di Marx costituì la breccia attraverso la quale penetrò il processo di ideologizzazione, quando egli era vivo, e ancor di più nell'eredità teorica lasciata al movimento operaio»; tesi 85: «i limiti della teoria di Marx sono naturalmente i limiti della lotta rivoluzionaria del proletariato della sua epoca»; tesi 89: se Marx «si era aspettato troppo dalla previsione scientifica, al punto di creare la base intellettuale delle illusioni dell'economicismo, si sa anche che non vi soccombette personalmente»).
A proposito della confusione tra i modelli della rivoluzione borghese e proletaria, ammesso che essi esistano, Debord continua la polemica contro lo scientismo (contro la falsa coscienza storica) con delle osservazioni interessanti e tra loro concatenate. Nel criticare «l'immagine lineare dello sviluppo dei modi di produzione», egli contesta anche la nozione che la successione dei modi di produzione consegua dalla vittoria della classe rivoluzionaria: al contrario, «la borghesia è la sola classe rivoluzionaria che sia mai stata vincitrice» (tesi 87, p. 83). Sarebbe da chiarire in che senso e in che momento la borghesia sia mai stata classe rivoluzionaria; ma la conseguenza interessante che può trarsi da questa annotazione, adombrata dallo stesso Debord, è che il conflitto tra le classi può anche risolversi catastroficamente, con la rovina generale; subito segue l’osservazione che la borghesia è «la sola classe per la quale lo sviluppo dell'economia sia stato causa e conseguenza del dominio da essa conquistato sulla società». Direi che per economia qui deve intendersi, più precisamente e in modo più ristretto, l’economia mercantile: l’osservazione è importante sia perché rimanda a un’interpretazione dei paesi detti socialisti e a un’idea dell’economia mondiale; sia perché implica la posizione antigradualista e antieconomicista per cui la rivoluzione non può attendere la maturazione delle forze di produzione e il pieno sviluppo dei rapporti capitalistici.
Unilinearismo ed economicismo sono ideologicamente funzionali e conseguenti dall’adozione del modello giacobino di rivoluzione, in cui è fondante l’idea della rappresentanza: della nazione, del popolo, del proletariato. La rappresentanza, in quanto separazione dell’organizzazione partitica e delle istituzioni statali dal rappresentato, comporta la preminenza dei rappresentanti sui rappresentati, la gerarchia, l’utilizzo del potere sopra quel che si intende rappresentare. Ovvero: la rappresentanza è inseparabile dalla supremazia del potere statuale sopra il rappresentato, il proletariato, il popolo atomizzato dei cittadini-elettori.
Secondo Debord, Marx aveva sottovalutato il ruolo dello Stato ma «d'altra parte Marx aveva potuto descrivere, nel bonapartismo, l'abbozzo della burocrazia statale moderna, fusione di Stato e di capitale». In quegli stessi anni Nicos Poulantzas considerava il bonapartismo come tratto costitutivo dello Stato capitalistico, per la sua pretesa di porsi quale arbitro al di sopra delle classi, garante dell’interesse della nazione; e se consideriamo che Luigi Bonaparte venne eletto e poi confermato plebiscitariamente come rappresentante del popolo, si intende perché Debord scriva che così «la borghesia rinuncia ad ogni vita storica, che non sia la sua riduzione alla storia economica delle cose, e accetta di “essere condannata allo stesso nulla politico delle altre classi”». Con il bonapartismo «sono già poste le basi socio-politiche dello spettacolo moderno» (tesi 87, p. 83). Si può concludere che la spettacolarità è connaturata allo Stato capitalistico in quanto forma concentrata della rappresentanza popolare
Riprendendo la metafora delle vie, questo può dirsi il percorso borghese, dall’alto, alla fondazione delle basi politiche della società dello spettacolo. L’attenzione di Debord si concentra però sull’altra via, che potremmo dire dal basso, quella che è propria dei partiti che pretendono la rappresentanza della classe dominata, del proletariato.

La critica del bolscevismo e dello spettacolo concentrato

Un fenomeno sociale come il processo di spettacolarizzazione non può essere datato in modo preciso. Eppure, se proprio si volesse e con precauzione, si potrebbe indicare una data precisa: il 1918. Quello fu l’anno in cui, in Germania, «la socialdemocrazia ha combattuto vittoriosamente per il vecchio mondo», contribuendo a reprimere la rivoluzione, ma fu anche l’anno di una rivoluzione riuscita in Russia; o, perlomeno, mentre in Germania il Spd si consacrava come partito dello Stato capitalistico nel sangue dei rivoluzionari, in Russia prendeva il potere il partito dei rivoluzionari di professione, quello della «professione che non vuole patteggiare con nessuna professione dirigente della società capitalistica» e che, perciò, «diviene dunque la professione della direzione assoluta della società» (tesi 98, p. 92).

Due movimenti opposti, dunque, ma secondo Debord convergenti. Il partito della rappresentanza operaia in Germania è «l'organizzazione spettacolare della difesa dell'ordine esistente, il regno sociale delle apparenze in cui nessuna “questione centrale” può più essere posta “apertamente e onestamente”», in cui, cioè, non è possibile porre in modo chiaro l’alternativa capitalismo o socialismo (tesi 101, p. 92). E questa falsificazione della verità storica non è forse un momento fondativo dello spettacolo moderno, a cui si attaglia la tesi che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso» (tesi 9, p. 45)?
L’altro movimento, quello a oriente, non è però meno importante: sarà pure «un primitivismo locale dello spettacolo», ma il suo «ruolo è tuttavia essenziale nello sviluppo dello spettacolo mondiale» (tesi 105, p. 97, corsivo mio).
Cosa hanno in comune la socialdemocrazia e il bolscevismo? La forma organizzativa: il partito leninista che dirige le masse dall’esterno non è che l’adattamento della concezione del partito di Kautsky alle condizioni autocratiche del sottosviluppato capitalismo russo, che non poteva giovarsi delle possibilità d’integrazione sociale e politica dell’occidente europeo. Ma questa forma è anche un contenuto. Se per Rousseau l’idea di una democrazia rappresentativa costituiva un ossimoro, per Debord il partito come forma della rappresentanza operaia si contrappone alla classe: la rappresentanza ideologicamente rivoluzionaria del proletariato, «era divenuta contemporaneamente il fattore principale e il risultato centrale della falsificazione generale della società» (tesi 101, p. 93) oltre che «il partito dei proprietari del proletariato» (tesi 102, p. 94).
Per Debord l’Unione Sovietica (e la Cina di Mao e le altre formazioni dette socialiste) non è un nuovo modo di produzione diretto da una nuova classe dominante, come aveva scritto Bruno Rizzi ne La burocratizzazione del mondo (1939), né una società che, in qualche modo, potesse dirsi ibrida. Si tratta, invece, di un capitalismo di Stato in cui la burocrazia è una «classe dominante di sostituzione», espressione del sottosviluppo economico (tesi 104, pp. 95-6).
A mio parere, se presa alla lettera la caratterizzazione dell’Urss come capitalismo di Stato è fuorviante, sia per comprendere il funzionamento interno di quella particolare formazione sociale, sia per la messa in guardia dai «pericoli professionali del potere». Tuttavia, Debord è sicuramente vaccinato dall’ultimo rischio, come si vede nella critica rigorosa della separazione e della rappresentanza, dal rigetto del professionismo politico, dal modo in cui pone il rapporto tra pratica rivoluzionaria e autorganizzazione. Quanto al capitalismo di Stato, nella Società dello spettacolo esso non è usato al modo di un’arma ideologica di una burocrazia (quella cinese) contro un’altra, e non solo perché il giudizio accomuna tutte le burocrazie al potere. Posta nel suo contesto, la caratterizzazione di Debord svolge un’altra funzione e serve a evidenziare fenomeni che la trascendono. Anzi, l’analisi di Debord è tanto più interessante quando si sviluppa in modo da sottolineare le «considerevoli particolarità nelle modalità della produzione e del potere», al punto che «queste diverse opposizioni possono darsi, nello spettacolo, secondo criteri del tutto differenti, come forme di società assolutamente distinte» (tesi 56, p. 65).
Questo è il motivo per cui la ricostruzione storica del quarto capitolo è preceduta dalla trattazione della «unità e divisione nell'apparenza»: qui l’unità è quella dell’economia mondiale capitalistica; la divisione è quella delle «false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato», ovvero tra il sedicente mondo libero e il presunto socialismo. Insieme, è questo che costituisce lo spettacolo come fatto planetario e la «divisione mondiale di compiti spettacolari» (tesi 57, p. 66). A conferma che la società dello spettacolo è non solo un’epoca storica ma anche un fatto sociale totale nel senso più forte, cioè di dimensioni mondiali, che abbraccia due sistemi sociali (o un solo modo di produzione differenziato, secondo Debord). Direi che, molto prima che entrasse nell’uso attuale, qui c’è già la visione del globale, non come mero fatto culturale conseguente dalla istantaneità della comunicazione mediatica ma, innanzitutto, come fatto politico e socioeconomico mondiale. Se le lotte spettacolari sono false in quanto riproduzione del potere separato, esse sono, tuttavia,

«nello stesso tempo reali, in quanto traducono lo sviluppo ineguale e conflittuale del sistema, gli interessi relativamente contraddittori delle classi o dei segmenti delle classi che riconoscono il sistema, e definiscono la propria partecipazione al suo potere» (tesi 56).

Nell’uso critico e liberatorio del concetto di società dello spettacolo la dimensione microsociale è compresa attraverso quella macrosociale, l’analisi della fisiologia socioeconomica è vista attraverso il fatto fondamentale, che è poi quello politicamente discriminante, del dominio di classe sulla società. Su scala mondiale, è il concetto di sviluppo ineguale e combinato che può definire la divisione del lavoro nella riproduzione unitaria del falso spettacolare; in esso i capitalismi più avanzati dominano l’economia mondiale non solo attraverso i meccanismi economici nel senso più ristretto ma proprio «in quanto società dello spettacolo» (tesi 57). La tesi è ampiamente dimostrata dall’irresistibile attrazione che il capitalismo esercita sui popoli «socialisti», non appena si apre un varco, per mare o per terra: attrazione illusoria, ma per fondate ragioni. Come la rivoluzione, per affermarsi lo spettacolo non attende che siano maturate tutte le condizioni materiali, le forze di produzione e i rapporti di proprietà: il processo storico della spettacolarizzazione del mondo è inestricabilmente legato a quello del capitalismo ma non si riduce ad esso.
In cosa consiste propriamente l’aspetto spettacolare di questa unità nella divisione dello spettacolo mondiale?
Anche per la scala mondiale è utile procedere seguendo due strade, illuminare l’oggetto da due punti di vista, senza dimenticare che si tratta della stessa meta e dello stesso oggetto.
La formazione dell’opposizione spettacolare, pseudonegazione dello spettacolo, è innanzitutto il risultato di un progetto politico, orientato sul modello giacobino e statuale.
Che la rappresentanza sia una rappresentazione ideologica non è da intendersi come un’evanescente idea limitata alla sola coscienza; è invece qualcosa che di concreto, l’anima di una forma organizzativa e di un funzionamento dell’organizzazione, di un apparato che agisce e trasforma la realtà. Questa è la grande forza storica della forma partito e, nello stesso tempo, la ragione del rovesciarsi del mezzo organizzativo in separata finalità di potere, che mira a riprodursi e a espandersi come apparato. Il partito può quindi intendersi come ideologia materializzata, come «spirito oggettivo»: 

«L'ideologia è la base del pensiero di una società di classe, nel corso conflittuale della storia. I fatti ideologici non sono mai stati delle semplici chimere, ma la coscienza deformata delle realtà e, in quanto tali, dei fattori reali esercitanti di ritorno una reale azione deformante: a maggior ragione la materializzazione dell'ideologia - originata dal successo concreto della produzione economica divenuta autonoma, nella forma dello spettacolo - confonde praticamente con la realtà sociale un'ideologia che ha potuto ritagliare tutto il reale sul proprio modello» (tesi 212, p. 155).

Qui salta la dicotomia tradizionale del marxismo ortodosso tra base e sovrastruttura; e se l’ideologia è «la coscienza deformata delle realtà», essa non è mero riflesso passivo della realtà della società di classe ma qualcosa che le dà forma.
La repressione della rivoluzione tedesca e il sottosviluppo capitalistico dell’impero zarista sono certamente, con altri elementi indipendenti dalla volontà dei bolscevichi, fattori che rientrano nella spiegazione della deformazione del processo rivoluzionario in Russia. Tuttavia, si tratta di circostanze aggravanti, non univocamente determinanti: altrimenti la pressione esterna diviene giustificazione ideologica del dato di fatto storico, sua assunzione come inevitabile necessità, accecamento nei confronti della storia e del futuro di altre esperienze di rottura con l’imperialismo e legittimazione delle caste dirigenti. I neostalinisti più intelligenti riprendono strumentalmente parte dell’argomentazione trotskista, riducendo la spiegazione del processo interno alla rivoluzione alle circostanze obiettive, così da far virtù della (presunta) necessità). Invece non si può prescindere, né nella ricostruzione storica né nell’orientamento politico nel presente, dalla tendenza politica latente nella forma partito, che trova espressione nella sua ideologia: il leninismo esprime la separatezza in tutta la sua coerenza volontaristica (tesi 105) e la dittatura della burocrazia partitico-statale non è altro che la dittatura della «rappresentanza suprema dell’ideologia» (tesi 103, p. 95, corsivo mio). 
Si dirà che Debord liquida troppo sbrigativamente Lenin, Trotsky, l’esperienza dei primi anni della rivoluzione. È vero: la ricostruzione storica dei drammi e delle contraddizioni del bolscevismo nei primi anni della rivoluzione è solo abbozzata. Nondimeno, egli ne coglie la contraddizione fondamentale, la ragione interna del blocco della rivoluzione, del precoce esautoramento dei soviet.
La dinamica storica del partito dei rivoluzionari di professione e la costruzione del suo potere segue un percorso inverso a quello tipico della borghesia, classe per cui il potere economico precede la conquista del potere politico. Nel caso del bolscevismo, è proprio l’ideologia della rappresentanza, che si attua nella separatezza del partito e dello Stato dalla classe, che conduce al monopolio totalitario, non solo del potere politico ma anche della direzione dell’economia. Sottolineo che, per quanto Debord caratterizzi il «socialismo reale» come capitalismo di Stato, il percorso della casta burocratica è del tutto originale. Perfino prima che si istituzionalizzi il potere del partito e si cristallizzi una categoria sociale attraverso il dominio partitico-statale sulla società, è il burocratismo, cioè il funzionamento, la logica interna e l’ideologia del partito all’opposizione, ad agire nella realtà.
Diciamo, dunque, che non è possibile comprendere genesi e funzionamento dello spettacolare concentrato prescindendo dall’ideologia materializzata nel partito-Stato, a sua volta concentrata, per tutta una fase, in una vedette assoluta:  

«Essa [la dittatura dell'economia burocratica] deve accompagnarsi ad una violenza permanente. L'immagine imposta del bene, nel suo spettacolo, raccoglie la totalità di ciò che esiste ufficialmente, e si concentra normalmente su un sol uomo, che è il garante della sue coesione totalitaria. Con questa vedette assoluta devono magicamente identificarsi o scomparire. Perché si tratta del padrone del suo non-consumo e dell'immagine eroica di un certo senso accettabile per lo sfruttamento assoluto, che costituisce la realtà dell'accumulazione primitiva e accelerata dal terrore. Se ogni cinese deve imparare Mao, e così essere Mao, è perché non ha nessun altro da essere. Là dove domina lo spettacolare concentrato, domina anche la polizia» (tesi, 64, p. 70); e sul potere di Stalin: la «garanzia centrale dell'ideologia, che riconosce una partecipazione collettiva al suo “potere socialista” da parte di tutti i burocrati che essa non annienta. Se i burocrati presi nel loro complesso decidono su tutto, la coesione stessa della loro classe non può essere assicurata che attraverso la concentrazione del loro potere terroristico in una sola persona. In questa persona risiede la sola verità pratica della menzogna al potere» (tesi 107, p. 98).

La peculiarità dello spettacolo totalitario «socialista», combinazione falsa e vera di illusione e reale, è che la «classe ideologico-totalitaria al potere è il potere di un mondo rovesciato; più essa è forte, più afferma che non esiste, e la sua forza le serve prima di tutto ad affermare la sua inesistenza» (tesi 106, p. 97). Deve apparire tale perché il singolo burocrate non ha alcun titolo di proprietà sui mezzi di produzione né, quindi, possibilità di alienarli o ereditarli: e infatti, la «rivoluzione» capitalistica in Unione sovietica consisterà poi proprio nell’appropriazione e privatizzazione delle unità economiche da parte di un’ampia frazione del partito e del Komsomol (una delle alternative previste da Trotsky, errata solo nei tempi di realizzazione). Il potere politico ed economico del burocrate sovietico dipendeva dalla sua carriera nel partito e la burocrazia sovietica dirigeva l’economia solo in quanto controllava lo Stato (era proprietaria solo collettivamente, dice Debord, che però è come dire che la posizione di ogni singolo burocrate non era garantita economicamente, per le capacità di valorizzare il proprio capitale, ma dalle decisioni politiche e dai maneggi amministrativi). È per questo che «la burocrazia deve essere la classe invisibile per la coscienza, di modo che è poi tutta la vita sociale che diviene demente. L'organizzazione sociale della menzogna assoluta deriva da questa contraddizione fondamentale» (tesi 106). Questa demenzialità della casta burocratica, il cui duro e realissimo potere deve essere ideologicamente negato e, nello stesso tempo, affermato realmente attraverso la funzione dirigente del partito, sedicente rappresentante della classe operaia, è il nocciolo dello spettacolare concentrato, della condensazione del potere in un immagine menzognera eppure reale. Benché più «primitiva», nella società totalitaria «socialista» la falsa coscienza è totale, perfino più che nel capitalismo, dove i proprietari, proprio perché privati, non si sognano di negare di essere tali e quindi di dover esercitare, per questo loro legittimo diritto, il dominio diretto, esclusivo e aperto sui mezzi di produzione. Se la burocrazia perviene al potere materializzando l’ideologia e la logica separata del partito nel potere dello Stato, «la sua proprietà reale è dissimulata, ed essa non è divenuta proprietaria che per la via della falsa coscienza» (tesi 107, p. 98, corsivo mio). Se il potere assoluto rende assoluta l’ideologia, ed essa si muta

«da una conoscenza parcellare in menzogna totalitaria, il pensiero della storia è stato così perfettamente annientato che la storia stessa, a livello della conoscenza più empirica, non può più esistere. La società burocratica totalitaria vive in un presente perpetuo, in cui tutto ciò che è avvenuto esiste soltanto per essa, come spazio accessibile alla sua polizia» (tesi 108, p. 99).
«La falsa coscienza mantiene il proprio potere assoluto solo attraverso il terrore assoluto, in cui ogni vero motivo finisce per perdersi» (tesi 107).

Neanche la destalinizzazione mutò sostanzialmente la posizione storica della burocrazia sovietica

«perché la menzogna ideologica della sua origine non può mai essere rivelata. In questo modo la burocrazia non può liberalizzarsi né culturalmente né politicamente, perché la sua esistenza come classe dipende dal suo monopolio ideologico che, con tutta la sua pesantezza, è il suo solo titolo di proprietà» (tesi 110, p. 101).

La negazione della storia, precipitata in un presente perpetuo, è il tratto più caratteristico del postmoderno. Quindi e paradossalmente, nonostante il più basso livello di sviluppo della tecnologia e dei rapporti mercantili, la realtà dei paesi «socialisti» concorre alla pari, o pare addirittura precorrerli, con i paesi capitalistici più sviluppati nella costituzione dello spettacolo mondiale, unitario e diviso. Se lo spettacolo «è il sole che non tramonta mai sull'impero della passività moderna» (tesi 13, p. 46), le società «socialiste» sono state buon esempio di questa passività. Forse non tanto durante la loro esistenza (le rivolte in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia…) ma, sicuramente, al momento della prova cruciale per l’ideologia ufficiale, nel momento del crollo: è allora che si è dimostrata la falsità dello spettacolo delle immagini dell’ideologia «socialista» e della burocrazia «comunista», da una parte, e, dall’altra parte, la reale atomizzazione sociale conseguita dalla rappresentanza separata e totalitaria. Dimostrazione definitiva della fragilità storica di queste formazioni sociali, occultata per poche generazioni dalla durezza repressiva, compimento finale della tesi per cui «ogni crollo di una figura del potere totalitario rivela la comunità illusoria che l'approvava  unanimemente e che non era che un agglomerato di solitudini senza illusioni» (tesi 70, p. 73).

Ho dato grande rilievo al fatto che è solo sul fondamento del potere politico ed ideologico che la burocrazia «socialista» può sfruttare il lavoro salariato e dominare, per quel che le riesce, i rapporti socioeconomici nell’ambito del proprio Stato. Un’analisi precisa del funzionamento dei rapporti di produzione dell’Urss e dei paesi «socialisti» può dimostrarne la peculiare irrazionalità dal punto di vista capitalistico, oltre che socialistico, le ragioni intrinseche dei limiti alla crescita della produttività (dello sfruttamento attraverso la generalizzazione dell’estrazione di plusvalore relativo), le enormi dimensioni dello spreco materiale ed energetico, oltre che di fatica umana, il ruolo del lavoro schiavistico dei prigionieri del gulag e dei campi di «rieducazione».
Si possono considerare le strozzature e la particolarità dei ritmi economici «socialisti», nei quali l’inerzia si alternava alla corsa forsennata per raggiungere gli obiettivi, e le rivalità e le complicità tra i direttori delle imprese, alle spalle delle direzioni centrali: un insieme di fenomeni che si spiega con la forma peculiare che assumono la competizione e la divisione sociale del lavoro in un processo di pianificazione burocratica, in cui il lavoro rimane solo indirettamente sociale proprio perché sottoposto al dispotismo statale. Tutto ciò si può compendiare nel concetto che un’economia di tipo sovietico non è in grado di innescare in modo sistematico un processo di autovalorizzazione del capitale, al contrario del capitalismo, in cui anche le crisi sono occasione di ristrutturazione e di rilancio su nuove basi dell’accumulazione (certamente, anche con il sostegno dello Stato). Si può dire la stessa cosa in termini diversi considerando gli effetti: la direzione burocratica dell’economia può dar luogo a una crescita estensiva, che è anche un cambiamento qualitativo, ma non a uno sviluppo intensivo, continuativo e generale delle forze di produzione; può promuovere l’industrializzazione su base nazionale, ma non è in grado di socializzare il lavoro su scala internazionale, di realizzare qualcosa che possa, a giusto titolo, dirsi divisione socialista del lavoro continentale o inter-continentale; può essere efficace nel raggiungere determinati obiettivi (per lo più strategico-militari) ma non efficiente: gli obiettivi sono raggiunti a qualsiasi prezzo. Neanche i capitalisti si fanno scrupoli, se non nella misura richiesta dalla partecipazione alle regole dello spettacolo: ma, sicuramente, i prezzi hanno per essi un significato reale e non sono disposti a conseguire i loro obiettivi pagando prezzi monetari qualsiasi. Per queste ragioni il sistema burocratico non ha la forza dinamica per imporre i propri standard sul mercato mondiale.
Tuttavia, per quanto in modo diverso da quello capitalistico, anche nei paesi «socialisti» lo sfruttamento avviene in forma moderna, cioè come sfruttamento del lavoro salariato (combinato con altre forme, apparentemente arcaiche di lavoro forzato). Anzi, in questi paesi il potere burocratico ha imposto la generalizzazione del lavoro salariato (in misura forse anche superiore a quella dei paesi a capitalismo avanzato) a partire da una sorta di accumulazione primitiva del capitale rapidissima e feroce. A conti fatti, la «missione storica» dei socialismi di Stato può dunque riassumersi, socioeconomicamente, nella formazione di una massa di salariati al lavoro su una base materiale enormemente più avanzata di quella pre-rivoluzionaria; politicamente, nel blocco e nella deformazione dei processi rivoluzionari mondiali, ai quali ha fornito un modello, un esempio. Si tratta, però, di esempio niente affatto internazionalistico, perché «l'illusione di una qualsiasi variante di socialismo statale e burocratico viene coscientemente manipolata come la semplice ideologia dello sviluppo economico dalle classi dirigenti locali» (tesi 113, p. 104). La rilevanza internazionale del modello statalista-burocratico è tale perché si tratta di un modello di sviluppo nazionale e nazionalistico, confinato nell’ambito territoriale-statale di paesi capitalisticamente sottosviluppati e spesso ex coloniali, che hanno rotto politicamente con l’imperialismo o con il singolo ex Stato imperialista che li dominava. Per la stessa ragione si tratta di uno pseudomodello: concretamente, lo sviluppo nazionale avviene per linee diverse e che per lo più confermano (con qualche importante eccezione) il paese in questione nella posizione, se non proprio nella stessa specializzazione produttiva, che già aveva nella divisione internazionale del lavoro, nella gerarchia dell’economia mondiale. Socialmente, quel che spesso avviene non è neanche l’effettiva distruzione della borghesia, tutt’altro: a seconda dei paesi, il potere si combina tra burocrazia statale e borghesia interna, quando addirittura non è la stessa burocrazia a porre le basi per la formazione della borghesia interna o a trasformarsi in essa. In ultimo, questa è la ragione per cui le caste o le classi dominanti dei paesi in questione «finiscono per levare a quest'ultimo sottoprodotto del socialismo ideologico ogni serietà che non sia poliziesca» (si veda la tesi 113); ed è pure la ragione della rottura dell’alleanza o della collaborazione con quello che era il paese esemplare, del conflitto anche armato tra paesi «fratelli» (tra Cina e Unione Sovietica, tra Cina e Vietnam), della disgregazione del sedicente «mondo socialista» (si veda la tesi 111).
Le prospettive di sopravvivenza della burocrazia erano e sono confinate nell’ambito dello statalismo e del nazionalismo; l’«internazionalismo proletario», che viaggia sui carri armati e con gli «aiuti» retribuiti dall’osservanza politico-ideologica, mira a conservare la sfera d’influenza della burocrazia dello Stato più forte, possibilmente in pacifica coesistenza con l’imperialismo, ma non ha la stessa flessibile capacità dell’esportazione di capitale e di merci (che certo richiede anche azioni politiche) di scavalcare i confini nazionali e di trasformare dall’interno i rapporti sociali. Di petto al capitalismo, il socialismo di Stato non era e non è un’alternativa storico-mondiale: la sua vitalità era ed è circoscritta a quella del parassita nei confronti delle rivoluzioni, dei conflitti infra-capitalistici (l’Urss nella Seconda guerra mondiale), dell’espansione delle società transnazionali e dei mercati del capitalismo avanzato (la Cina contemporanea).
Se l’Unione Sovietica o la Cina non erano paesi capitalistici, c’è però un senso profondo nella tesi di Debord per cui

«Questa industrializzazione dell'epoca staliniana rivela la realtà ultima della burocrazia: essa è la continuazione del potere dell'economia, il salvataggio dell'essenziale della società mercantile che mantiene il lavoro-merce. È la prova offerta dall'economia indipendente, che domina la società al punto di ricreare per i propri fini il dominio di classe che le è necessario: il che equivale a dire che la borghesia ha creato una potenza autonoma la quale, fintanto che sussiste questa autonomia, può arrivare al punto di fare a meno di una borghesia» (tesi 104, p. 96). 

Credo che questa sia la tesi più inquietante di tutto il libro: quella dell’economia come potenza autonoma, nel senso di un dominio di classe che continua il movimento inconscio della storia e produce falsa coscienza storica su scala planetaria, lo spettacolo mondiale.
La verità di questa tesi è che le formazioni sociali non capitalistiche non solo sono parte di un’economia mondiale la cui dinamica storica è complessivamente dominata dal capitalismo ma che, tanto più quanto sono internamente controllate da una casta totalitaria, nazionalista e passivizzante, sono condannate a cedere alla pressione del capitalismo, dello spettacolo in forma diffusa, più efficiente, brillante, attraente, coerente, vitale, espansiva. Così si possono spiegare, da una parte e a negativo, il fallimento delle riforme economiche e l’implosione interna dell’Unione sovietica, detonata ma non causata (se non, appunto, come ultimo anello causale) dalla politica di Gorbaciov; e dall’altra parte e, per così dire, a positivo, la più accorta alleanza della burocrazia cinese col capitale transnazionale, combinazione del peggio di due mondi.
Che l’economia mondiale possa «arrivare al punto di fare a meno di una borghesia» è possibilità che, invece, mi pare invalidata dalla transizione alla rovescia nell’Europa centrale e orientale e in Cina. È discutibile, però, quanto le classi capitalistiche oggi dominanti, lì come nel resto del mondo, rispondano ai requisiti ideologici e morali della vecchia borghesia. Piuttosto, è la mercificazione universale, sottesa al meccanismo dell’accumulazione di capitale ed elevatasi a spettacolo mondiale, che svolge la funzione che prima era dell’ideologia nel senso più tradizionale di riferimento a valori etici, distinti dall’utilitarismo economico e dal calcolo dei costi e dei benefici individuali. Sotto l’apparenza del pluralismo, del multiculturalismo e del politeismo dei valori, la nostra è una società fondamentalmente monoteistica che venera lo spettacolo, la nostra forma di sintesi sociale, ad un tempo reale e immaginaria come il denaro. Tutto ciò che in questa società è integrato o vuole integrarsi, dalle chiese religiose ai partiti che si vogliono alternativi, finisce col divenire parte, sia pure minore ed effimera, dello spettacolo. Con ciò contribuendo a neutralizzare la presa di coscienza storica e l’unica azione che può sottrarre il tempo vissuto a quello dello spettacolo, del dominio, dello sfruttamento: la rivoluzione.
In conclusione: è attraverso la riflessione sul fallimento della rappresentanza partitica e dello statalismo che Debord formula l’obiettivo della lotta contro lo spettacolo in tutte le sue forme: la socializzazione della politica e dell’economia nell’organizzazione dei consigli dei lavoratori. Egli esprime anche dei semplici criteri di definizione dell’organizzazione dei rivoluzionari: che essa sappia già, prima del potere dei Consigli, «che non rappresenta la classe. Essa deve soltanto riconoscersi come divisione radicale dal mondo della separazione», cioè dal mondo dello spettacolo con cui non perviene ad alcun compromesso; «l'organizzazione rivoluzionaria non può riprodurre in se stessa le condizioni di scissione e di gerarchia che sono quelle della società dominante. Essa deve lottare in permanenza contro la sua deformazione nello spettacolo dominante»; e poi, «nel momento rivoluzionario del dissolvimento della divisione sociale, questa organizzazione deve riconoscere il proprio dissolvimento in quanto organizzazione separata» (tesi 119-121).
A queste condizioni possiamo tentare di ricostituire la coerenza tra i mezzi ed il fine già nella società dello spettacolo.

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