L’inattualità della Società dello spettacolo, nel mondo falso in cui è
verificata
A rileggerla oggi, vien da pensare che la Società dello spettacolo di Guy Debord
sia di straordinaria inattualità: ma proprio perché, da quel lontano 1967, il
processo storico di spettacolarizzazione della società è ora giunto a
compimento.
Nel discorso contemporaneo i termini spettacolo e
spettacolarizzazione ricorrono frequentemente: ad esempio, non sono rare
espressioni come politica-spettacolo e spettacolarizzazione della politica; il
termine americanizzazione li implica entrambi, essendo erroneamente considerati
gli Stati Uniti come patria dello spettacolo (come si vedrà, invece, i partiti
operai europei hanno svolto un ruolo di primo piano nella formazione della
società dello spettacolo); è una banalità sottolineare l’importanza, ai fini
del successo, dell’immagine degli individui, sia comuni spettatori che pubblici
attori. Ed è un fatto che, quale sia il campo nel quale sono state fatte
emergere, le vedette dello spettacolo possono trascorrere tranquillamente dal
commento sportivo alla discussione di bioetica, dalla dietetica alla politica
internazionale. Altamente spettacolari sono le grandi mostre itineranti, che
rappresentano l’imbalsamazione commerciale dell’arte, e massimamente
spettacolare fu l’attacco terroristico alle torri gemelle: a dimostrare che
perfino i nostalgici dell’Umma medievale hanno fatto propria la spettacolarità
quale dimensione essenziale della politica postmoderna e postdemocratica.
Logica postmodernista nell’uso dei mezzi comunicativi - e distruttivi - e
neomedievalismo integralista possono fondersi nell’azione e nella falsa
coscienza spettacolare. La società dell’immagine e degli eventi spettacolari è
messa in scena da un insieme di apparati vastissimo e diversificato.
Dunque, riconsiderando sia la
realtà dello spettacolo della società contemporanea, sia l’enorme diffusione
della varia letteratura intorno all’immagine e allo spettacolo, ci si può
sentire autorizzati a considerare la Società
dello spettacolo come uno dei testi di maggior successo dell’ultimo mezzo
secolo: se non come copie vendute, almeno per influenza sull’intellettualità
postmoderna. Tuttavia, penso si tratti di un’influenza mediata e indiretta: in
sostanza, una banalizzazione che si limita a vedere solo la superficie dei
fenomeni della spettacolarizzazione.
L’analisi di Debord permette di dare un senso storico sia alle trasformazioni strutturali sia alle rielaborazioni ideologiche omogenee all’ordine esistente, quali si sono dispiegate tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. La Società dello spettacolo delinea le caratteristiche principali e la ragion d’essere dell’atmosfera sociale, politica, culturale e, perfino!, economica a noi contemporanea. E appare inattuale perché, portato a compimento il processo di spettacolarizzazione della società e, vivendo noi dentro questa atmosfera, è difficile distanziarsene e prenderne coscienza. Il perfezionamento postmoderno della società dello spettacolo comporta il trionfo della tesi della fine delle ideologie ma con la differenza, rispetto alle aspettative degli anni ’60, che il trionfo è tale perché è sopravvissuta un’unica visione ideologica del mondo o, meglio, abbiamo «una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta. Si tratta di una visione del mondo che si è oggettivata» (tesi 5, La società dello spettacolo, introduzione e cura di Pasquale Stanziale, Massari editore, Bolsena 2002, p. 44. D’ora in poi l’indicazione delle pagine si riferisce a questa edizione). Che è, appunto, la società dello spettacolo come fatto sociale totale e totalizzante. In tempi più recenti la tesi della fine delle ideologie è stata riproposta con l’idea della fine della storia, postulando la società capitalistica e liberaldemocratica quale l’unico orizzonte oramai disponibile all’umanità. La risposta che diede allora Debord si attaglia perfettamente all’atmosfera mentale postmoderna:
L’analisi di Debord permette di dare un senso storico sia alle trasformazioni strutturali sia alle rielaborazioni ideologiche omogenee all’ordine esistente, quali si sono dispiegate tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. La Società dello spettacolo delinea le caratteristiche principali e la ragion d’essere dell’atmosfera sociale, politica, culturale e, perfino!, economica a noi contemporanea. E appare inattuale perché, portato a compimento il processo di spettacolarizzazione della società e, vivendo noi dentro questa atmosfera, è difficile distanziarsene e prenderne coscienza. Il perfezionamento postmoderno della società dello spettacolo comporta il trionfo della tesi della fine delle ideologie ma con la differenza, rispetto alle aspettative degli anni ’60, che il trionfo è tale perché è sopravvissuta un’unica visione ideologica del mondo o, meglio, abbiamo «una Weltanschauung divenuta effettiva, materialmente tradotta. Si tratta di una visione del mondo che si è oggettivata» (tesi 5, La società dello spettacolo, introduzione e cura di Pasquale Stanziale, Massari editore, Bolsena 2002, p. 44. D’ora in poi l’indicazione delle pagine si riferisce a questa edizione). Che è, appunto, la società dello spettacolo come fatto sociale totale e totalizzante. In tempi più recenti la tesi della fine delle ideologie è stata riproposta con l’idea della fine della storia, postulando la società capitalistica e liberaldemocratica quale l’unico orizzonte oramai disponibile all’umanità. La risposta che diede allora Debord si attaglia perfettamente all’atmosfera mentale postmoderna:
«Quando l'ideologia, che è la volontà astratta dell'universale e la sua illusione, si trova legittimata
dall'astrazione universale e dall'effettiva dittatura dell'illusione nella
società moderna, essa non è più la lotta volontaristica del parcellare, ma il
suo trionfo» (tesi 213).
Non si tratta qui del «pensiero unico neoliberista». Il
pensiero dei politici e le strategie messe in atto dalle grandi società
transnazionali non si riducono ad un’unica forma: sono piuttosto elastici,
pragmatici, sono liberisti e mercantilisti secondo la convenienza e i bersagli.
Lo spettacolo può essere una intera società
perché è un periodo storico, in tutte
le sue molteplici articolazioni e divisioni, nel suo insieme e nella sua
complessità. Nel senso di Debord lo spettacolo non è il settore specifico della
cosiddetta comunicazione di massa, né il prodotto spontaneo dell’evoluzione
tecnologica, né uno stile: «lo spettacolo, compreso nella sua totalità, è nello stesso
tempo il risultato e il progetto del modo di produzione esistente (…) costituisce
il modello presente della vita
socialmente dominante»; «è il momento storico che ci contiene» (tesi 6 e 11,
pp. 44 e 46).
Tuttavia, coloro che ragionano dello spettacolo e
dell’immagine sono per lo più irretiti nel suo stesso gioco e ne sono essi stessi
agenti: si limitano a un discorso, più o meno critico, su quel che è relativo
allo spettacolo come settore specifico e come apparenza fenomenica. In tal
caso, la critica è moralistica, rimane limitata agli eccessi della
spettacolarizzazione, magari auspica un ritorno ai buoni vecchi tempi, quando
lo spettacolare era meno pervasivo,
la riscoperta degli antichi valori - come se non avessero, a loro tempo,
legittimato il medesimo ordine sociale che ora li scarta o li proclama per fini
particolari - comportamenti più sobri, ma non coglie il senso profondo della
centralità odierna dell’immagine e dello spettacolo come forma del rapporto
sociale.
Lo spettacolo come
forma totale del capitalismo avanzato, ovvero La Società dello spettacolo come critica dell’economia politica
Ponendo la società sotto l’insegna della comunicazione e
della conoscenza, i discorsi dominanti nello e sullo spettacolo allontanano
dalla coscienza i segni del dominio e dello sfruttamento, rendendo più
difficile comprenderne la portata e specialmente - al di là della dolorosa
constatazione dell’accidente empirico - le profonde ragioni sociali. Così,
nella società della conoscenza la società è mistificata. Questi discorsi
tendono infatti a far apparire le trasformazioni dei rapporti di classe e la
ristrutturazione sociale come fatti inevitabili, conseguenti dalla naturale
evoluzione tecnologica ed economica. Nel postmodernismo, inteso come
razionalizzazione ideologica della società dello spettacolo, l’ideale e il
reale, il soggetto e l’oggetto si confondono, sotto il primato dei primi
termini, nella riduzione unilaterale del mondo a complesso di simulacri, a
gioco linguistico, ad assoluta indeterminatezza che vuole apparire come
libertà, pluralismo, politeismo dei valori, tolleranza tra le diverse «tribù»
coesistenti nella società. Si tratta della forma più recente di quel che nel
linguaggio filosofico si definisce idealismo assoluto; nei termini della scuola
di Francoforte, questa è la forma più radicale di formalizzazione della ragione
soggettiva, che giunge al consapevole e felice dissolvimento non solo
dell’oggettività come altro dal soggetto (individuale e sociale), ma anche del
soggetto stesso. In definitiva, questo soggettivismo, estremo e autocontraddittorio, finisce per confermare il rozzo materialismo del primato
della tecnica, che è poi il primato dell’economico, quindi del dominio
oggettivo, impersonale e nichilistico della riproduzione del capitale, sempre
in trasformazione, sempre sé stesso. Nella messa in scena delle soggettività
spettacolari si perde il significato del giudizio fondato e condivisibile;
specialmente, cessa di avere senso l’idea di trascendere la totalità oggettiva dell’ordine sociale esistente.
Esso è sacralizzato dallo stesso movimento che nega il sacro come liberazione
dall’ingiustizia e come comunità di individui spiritualmente liberi.
Ciò che si realizza in questo modo è il compimento del
processo che va dalla «degradazione dell'essere
in avere», che è proprio della prima fase del capitalismo - o forse di tutti
i modi di produzione che attuano lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, tutti, in
certa misura, spettacolisti in quanto basati sulla separazione - alla conferma
dell’avere come si pone nel suo apparire,
anche illusorio o desiderante (vedi tesi 17, p. 47).
Perché il modo di produzione capitalistico assume la forma
della società dello spettacolo? Quale rapporto corre tra la forma di falsa
coscienza postmodernista e la logica sociale obiettiva del capitalismo? La
risposta di Debord è: «lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta
all'occupazione totale della vita
sociale. Non solo il rapporto con la merce è visibile, ma non si vede altro che
quello: il mondo che si vede è il suo mondo» (tesi 42, p. 58).
Nei primi due capitoli del libro lo spettacolo è proprio
delle società capitalistiche più avanzate, quelle dette dell’abbondanza o
consumistiche (dello spettacolo diffuso), nelle quali la riproduzione
della vita e la vita quotidiana dipendono pressoché integralmente dal consumo
di merci. Il modello economico implicito in Debord è quello che sarà poi detto
fordista, in cui la domanda di beni di consumo dei salariati è integrata nella
programmazione economica, privata e pubblica, ed in cui la modalità prevalente
dello sfruttamento è quella dell’estrazione di plusvalore relativo, assicurata
dalla velocità dell’innovazione del processo di lavoro e dei prodotti-merce. Il
punto di vista è macroeconomico e sintetico
«A questo punto "della seconda rivoluzione
industriale", il consumo alienato diviene per la massa un dovere
supplementare alla produzione alienata. È tutto
il lavoro venduto di una società che diviene globalmente la merce totale, il cui ciclo deve
proseguire. Per fare ciò, bisogna che questa merce totale ritorni
frammentariamente all'individuo frammentario, assolutamente separato dalle
forze produttive operanti come un insieme» (tesi 42, p. 58).
Quel che era già valido ai tempi della redazione della Società dello spettacolo è ancor più
vero oggi: non solo perché il lavoro sociale è ancor più sottoposto, in
estensione ed intensità, alla forma di merce ed alla valorizzazione del
capitale, ma perché enormemente più debole è la capacità di resistenza sociale
e politica del lavoro vivo e dell’insieme dei cittadini ai processi economici
capitalistici. Nel significato macrosociale di Debord lo spettacolo è una
modalità potenziata del feticismo della merce, quella a cui perviene il
capitalismo quando
«La soddisfazione che la merce abbondante nel suo uso non
può più dare continua ad essere cercata nel riconoscimento del suo valore in
quanto merce: è l'uso della merce che
basta a se stesso e, per il consumatore, l'effusione religiosa verso la libertà
sovrana della merce» (tesi 67, p. 71).
Nell’universale mercificazione è il desiderio del possesso della forma-merce in quanto tale che
diviene un bisogno, prevalente sul reale valore d’uso della merce stessa,
realizzando, nella pratica e nell’immaginario, quel che si può dire la caduta tendenziale del valore d'uso.
Questa è l’altra faccia dell’obsolescenza programmata delle merci e della morte
delle singole merci, assicurata dalla varietà e dal susseguirsi delle mode, la
cui sostanza invariabile è appunto la forma-merce come tale, spirito assoluto
che si manifesta attraverso particolari figure. Il consumatore vive del consumo
di illusioni e di pseudobisogni pagati a rate, fino alla bancarotta personale e
del sistema finanziario - la cui nuova architettura poggia sullo spettacolo
delle imprese startup senza profitti e sul mutuo immobiliare anche per chi non
ha lavoro. Sappiamo che gli Stati possono lasciar sommergere le famiglie ma,
senz’altro, gli è doveroso salvare le banche: lo spettacolo, con i suoi drammi
e le sue commedie, deve continuare. La società dello spettacolo è la scena
della consumazione della vita in cui regnano, in contrasto con la concretezza
dei bisogni vitali e dei valori d’uso, il valore di scambio e
l’autovalorizzazione del capitale, produttivo e monetario. Più precisamente:
merci, mercato e moneta non sono invenzioni della società capitalistica, ma è
solo in questa società che, in forza della separazione generale dei lavoratori
dai mezzi di produzione e di sussistenza, la forma-merce e la forma
dell’equivalente generale, il denaro, dominano completamente la vita: la
produzione delle merci particolari deve sempre potersi ricondursi alla loro
realizzazione nella concreta astrazione del lavoro sociale, in denaro che
genera più denaro. Giustamente, allora, lo spettacolo della forma-merce non è
che «l'altra faccia del denaro: l'equivalente generale astratto di tutte le
merci», che si afferma quando
«la totalità del mondo mercantile appare in blocco, come
un'equivalenza generale di ciò che l'insieme della società può essere e fare.
Lo spettacolo è il denaro che si guarda
soltanto, perché già in esso è compresa la totalità dell'uso che si è
scambiata contro la totalità della rappresentazione astratta. Lo spettacolo non
è solo il servitore dello pseudouso,
è già in se stesso lo pseudouso della vita» (tesi 49, p. 61).
È quindi comprensibile che, quanto più debole è la capacità
di resistere agli imperativi dello sfruttamento e della competizione
capitalistica - quanto più arretra la coscienza della necessità e della
possibilità della liberazione sociale - la forma-merce e il denaro che
valorizza sé stesso diventino feticci che dominano, realmente e idealmente, la
società. Il corso delle azioni e delle monete diviene uno spettacolo in sé
stesso, complemento delle battute e delle contro-battute delle vedette sulla
scena politica postdemocratica.
Nello spettacolo si condensa il feticismo spontaneamente
secreto dalla moderna mercificazione universale, ipostasi reale, realtà che
appare autonoma e separata dai viventi, il dominio del morto sul vivo,
dell’astrazione sul vissuto. Si deve insistere sulla realtà dell’astrazione
capitalistica. Essa è, innanzitutto, l’astrazione del lavoro come si compie nel
processo di valorizzazione del capitale. Se l’alienazione-separazione dei
lavoratori dai mezzi di produzione e di sussistenza è la necessaria premessa di
questa astrazione, e se l’alienazione dei lavoratori dal prodotto del loro
lavoro ne è la conseguenza necessaria, l’astrazione del lavoro si opera nel
processo di lavoro-valorizzazione del capitale, sotto il comando del capitale.
Il lavoro diviene astratto non solo perché indifferente al suo contenuto
concreto ma, essenzialmente, perché sottoposto
all’estrazione tendenzialmente senza limiti di valore, di ricchezza in
forma astratta, che deve realizzare il proprio valore nella vendita in cambio
di denaro. Ne La società dello spettacolo
il nesso tra astrazione reale e il darsi della società capitalistica come
spettacolo è posto così: «l'astrazione di ogni lavoro particolare e l'astrazione generale della
produzione d'insieme si traducono perfettamente nello spettacolo, il cui modo
di essere concreto è giustamente l'astrazione» (tesi 29, p. 52).
L’astrazione del lavoro si fonda sulla sussunzione reale del lavoro al capitale
e costruisce il potere del capitale; e questo stesso potere, nella circolazione
spettacolare delle merci, sussume realmente la vita dei lavoratori, che la
pagano indebitandosi col capitale monetario, dopo aver arricchito il capitale
produttivo. L’abbiamo verificato con le trasformazioni dei sistemi finanziari a
partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso e, nel modo più chiaro,
con la grande recessione iniziata nel 2007 negli Stati Uniti.
Lo spettacolo è dunque l’autoaffermazione del potere
esistente, della società come un dato apparentemente naturale e indiscutibile,
la sua trasformazione in feticcio attraverso la rappresentazione della
forma-merce che, in tal modo, consegue la sua realizzazione assoluta. Esso,
tuttavia, è pur sempre un «rapporto sociale tra persone, mediato dalle
immagini» (tesi 4, p. 44); lo spettacolo è reale ed è anche solo l’illusione
del regno del consumatore, perché il
consumo non è che il risultato di scelte a priori compiute da chi detiene i
mezzi della produzione sociale (nel senso più ampio, del monopolio del
capitale produttivo di merci materiali e immaginarie e del monopolio del
capitale monetario).
È questo che permette di concludere che «lo spettacolo è il capitale a un
tale grado di accumulazione da divenire immagine» (tesi 34, p. 54).
Il concetto del capitalismo avanzato come società dello
spettacolo supera la dicotomia di base e sovrastruttura, di realtà e ideologia,
di essere e apparire.
«Non si possono opporre astrattamente lo spettacolo e
l'attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo
spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. E nello stesso tempo
la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo,
e riprende in se stessa l'ordine spettacolare, offrendogli un'adesione
positiva. La realtà oggettiva è presente su entrambi i lati. Ogni nozione così
fissata non ha per fondo che il suo passaggio all'opposto: la realtà sorge
nello spettacolo e lo spettacolo è reale. Questa reciproca alienazione è
l'essenza e il sostegno della società esistente» (tesi 8, p. 45).
Qui il mondo sociale non è ridotto a un gioco linguistico,
né il linguaggio di questo mondo è inteso come un mero riflesso della base
economica: nessuno dei due termini è assorbito dall’altro ma, insieme, nella
loro unità, costituiscono una contraddizione. Senza unità nella distinzione non
c’è contraddizione: e qui la distinzione si concretizza nella separazione degli
apparati e nella scissione della società, che riconducono ad una condizione di
alienazione, alla potenza del dominio.
Riformulando una frase di Eduard Bernstein, nella
riproduzione della società dello spettacolo si realizza l’inversione tra i
mezzi e il fine: «nello spettacolo, immagine dell'economia dominante, il fine
non è niente, lo sviluppo è tutto. Lo spettacolo non vuole realizzarsi che solo
in se stesso» (tesi 14, p. 47).
Per quanto pubblicata prima
della crisi del dollaro, della fine del gold
exchange standard e dei cambi fluttuanti, del dilagare delle innovazioni di
prodotto e di processo nel settore finanziario, dei cambiamenti in tutti i
campi della società prodotti dalla controffensiva capitalistica, tra la fine
degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, la linea di pensiero del libro di
Debord ha trovato conferma nella realtà.
La lettura parziale
della Società dello spettacolo e la
critica della società come totalità
Quelle esposte sono le linee
fondamentali della concezione debordiana del capitalismo avanzato come società
dello spettacolo. Esse permettono di distinguere tra chi critica lo spettacolo
in quanto forma del dominio capitalistico e chi si limita a criticare
moralisticamente gli eccessi dello spettacolo e della spettacolarizzazione,
quel riformismo «che non conosce il negativo insediato al
centro del suo mondo, non fa che insistere sulla descrizione di una sorta di
eccedenza negativa che gli sembra deplorabilmente ingombrarlo alla superficie,
come una proliferazione parassitaria irrazionale» (tesi 197, pp. 147-8).
Linee assolutamente
fondamentali, ma che sono ben lungi dall’esaurire la critica totale della società dello spettacolo
nella sua dimensione mondiale e in tutto il suo spessore storico. Come si
vedrà, ne La società dello spettacolo
c’è molto altro. Eppure, la mia impressione è che, nella maggior parte dei
casi, del testo di Debord si faccia una lettura mutilante. Si prenda, per esempio,
uno studioso interessante e raffinato come Frederic Jameson, il cui lavoro è un
riferimento importante per la riflessione marxista intorno al rapporto tra
cultura e società. Qui mi riferisco in particolare a Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo
(Garzanti, 1984) e ai saggi raccolti in The
cultural turn. Selected writings on the
postmodern, 1983-1998 (Verso, 1998). Allorché Jameson considera il
postmoderno come la forma o la logica culturale del tardo capitalismo, egli può
legittimamente richiamarsi a Ernest Mandel e a Guy Debord. Tuttavia, egli
trascura l’impulso politico e più profondo della Società dello spettacolo. Il punto è che questo libro sembra
ridursi ai primi due, importantissimi, capitoli e magari agli ultimi tre,
mentre si sorvola del tutto sui capitoli centrali dedicati a «Il proletariato
come soggetto e come rappresentazione», a «Tempo e storia e al «Tempo
spettacolare». A seconda degli interpreti, i motivi della lettura parziale
possono essere: un accademico disinteresse per la prospettiva politica; o
l’idea, che poi è la razionalizzazione del precedente, che la ricostruzione
storica e politica di quei capitoli sia qualcosa di posticcio, una divagazione
di filosofia della storia irrilevante rispetto al discorso sull’immagine e
sullo spettacolo. O, ancora, la lettura mutilante può essere il risultato della
difficoltà a comprendere la natura della burocrazia «socialista» e il suo
specifico e fondamentale apporto alla costruzione della società dello
spettacolo.
Questa tipo di lettura, che
coglie solo frammenti combinandoli con altri, è tipica della visione del mondo
postmoderna. Essa accoglie l’idea che la vita attuale sia spettacolo, il
rapporto sociale un gioco linguistico e comunicativo, la formazione di una
soggettività rivoluzionaria un mito; può anche riconoscere che la
mercificazione generale sia il vettore e l’ambiente dello spettacolo, assumendo
un atteggiamento più o meno critico o apologetico verso il mercato e
l’obsolescenza della distinzione tra l’istanza critica e pessimistica dell’alta
cultura modernista e la produzione d’intrattenimento dell’industria culturale.
Ma non può digerire la lezione di quei capitoli che costituiscono,
evidentemente, una «grande narrazione», la cui finalità è la liberazione
sociale, il cui metodo è dialettico e totalizzante. La società dello spettacolo non si può collocare nel campo dei cultural studies: il suo territorio è
quello della teoria rivoluzionaria. Il libro di Debord non è solo una
stimolante diagnosi dello spettacolo, è un manifesto politico; i capitoli sul
tempo e la storia non sono filosofia della storia ma una ricostruzione, a
grandi linee, della civiltà occidentale come storia del dominio e dello
sfruttamento, come lento e incompleto processo di presa di coscienza della
storicità. Quei capitoli sono un appello a prendere possesso della storia, a
uscire dall’isolamento e dalla passivizzazione dello spettacolo per sovvertire
l’ordine costituito del capitalismo avanzato, dell’imperialismo e delle
dittature burocratiche sedicenti socialiste. È da questo punto di vista che la
critica della rappresentanza, dei partiti operai e dei socialismi di Stato
acquista un senso e si rivela intrinsecamente connessa alla critica dello
spettacolo. Ovviamente, anche della postdemocratica spettacolarizzazione della
politica.
Ridotte all’osso, le tesi del
quarto capitolo sono le meno originali della Società dello spettacolo: rientrano nella tradizione di un
comunismo antileninista e antistalinista che risale almeno a Karl Korsch.
Tuttavia, ritengo che quei capitoli siano centrali non solo nel senso
dell’architettura formale del testo ma anche della sua architettura
concettuale: architettura e messaggio sono connessi. Dunque, ignorandoli non si
fa solo una lettura parziale, nel senso meramente quantitativo. Si perde la
qualità più profonda del messaggio politico di Debord e della logica sociale
sottesa allo spettacolo come fatto mondiale, non limitato alle sole isole più
avanzate del capitalismo. Penso anche che in quei capitoli risieda il nucleo di
riflessioni e di motivazioni che sono geneticamente all’origine delle tesi
esposte nei primi capitoli: metodologicamente, l’esposizione dei risultati
segue un ordine diverso da quello della loro genesi; in questo caso si può dire
anche che la tesi più astratta e generale di primi capitoli preceda una progressiva concretizzazione
dei concetti e della prospettiva politica. Infine, ma non meno importante dei
punti precedenti: la realtà totale della società dello spettacolo, come
prodotto del capitalismo e come suo progressivo sviluppo, deve essere spiegata
percorrendo, per così dire, due strade.
Una strada è quella
dell’astrazione della merce e dell’astrazione della forza lavoro nel processo
di valorizzazione del capitale, culminante nella società dell’abbondanza in cui
il consumo di merci pervade ogni momento della vita quotidiana, presentandosi,
infine, come l’apparenza reale e il momento della sintesi sociale spettacolare.
Questa è la strada dei primi due capitoli, che costituiscono una esplicita
critica dell’economia politica dello spettacolo del capitalismo più avanzato - necessaria anche per comprendere il
capitalismo sottosviluppato delle società dette socialiste o dello spettacolo
concentrato. Il riferimento al mondo sottosviluppato tuttavia qui è episodico,
ed è ancora assente la critica del «socialismo reale».
Ma il capitalismo non si
riduce al processo di valorizzazione né alla realizzazione del valore, a ciò
che sbrigativamente si indica come la sfera dell’economia. Sua caratteristica
strutturale è la separazione dei rapporti di potere in due autonome sfere:
quella economica, con le sue istituzioni, private e statali, e quella politica,
con l’insieme di apparati che costituiscono lo Stato. Due sfere solo
relativamente autonome, che insieme
costituiscono il dominio di classe; certo, connesse tra loro secondo rapporti
mutevoli, ma nondimeno realmente distinte. Aggiungo che neanche nei paesi
cosiddetti socialisti la sfera economica coincide totalmente con quella
politica, non solo per l’esistenza di unità economiche non statali: il sogno
della burocrazia pianificatrice è dominare totalmente l’economia, ma questa,
prima o poi, in questo o quel modo, tende a sfuggire alla volontà politica e a
trasformarsi per essa in un incubo. Comunque, per Debord la statualità è necessariamente consustanziale allo spettacolo, non
meno del feticismo della merce elevato alla ennesima potenza: «La scissione generalizzata dello spettacolo è inseparabile
dallo Stato moderno, vale a dire dalla forma generale della scissione nella
società, prodotta dalla divisione del lavoro sociale e organo del dominio di
classe» (tesi 24, p. 50).
Ebbene, il quarto capitolo è
la seconda strada per pervenire al concetto di società dello spettacolo, quella
che passa attraverso la sfera politica, dialetticamente connessa alla prima. Se
lo spettacolo non pervadesse anche questa sfera e non avesse la sua origine
anche nella separatezza della statualità, non avremmo, propriamente, una società dello spettacolo. Dunque, per
afferrare la società dello spettacolo come fatto sociale totale è necessario
percorrere entrambe le vie. La ricostruzione storica non è solo storia passata: sia perché getta luce sullo
spettacolo contemporaneo; sia perché, attraverso la critica storica, si delinea
una prospettiva ideale e politica, per il presente e il futuro. È significativo
che la storia abbozzata nel quarto capitolo sia quella di un fallimento, del
fallimento dei partiti di matrice operaia e socialista del XX secolo: si tratta
dell’altro lato della formazione e dello sviluppo dello spettacolo attraverso
il successo mondiale del capitalismo.
Quanto ai capitoli su tempo e
storia, anch’essi sono indispensabili, sia per il «pensiero pratico» della
sovversione dell’ordine esistente, sia per comprendere formazione e significato
storico della società dello spettacolo.
Nel primo capitolo, «lo spettacolo non è niente altro che
il senso della pratica totale di una
formazione economico-sociale, del suo impiego
del tempo» (tesi 11, p. 46) e «la principale
produzione della società attuale» (tesi 15, p. 47). L’impiego del tempo rimanda allo sfruttamento del
tempo del lavoro salariato e alle condizioni che lo consentono. Non si tratta
però solo di questo: l’impiego del tempo comprende non solo la produzione ma
anche il consumo, la riproduzione del rapporto sociale di produzione, il
dominio e lo sfruttamento, quindi la totalità della vita sociale, il vissuto
alienato degli individui. Comprende la produzione e riproduzione, nella psiche
degli individui e nelle istituzioni, di questa determinata totalità sociale
spettacolista.Una delle definizioni sintetiche di quest’ultima è: «Lo spettacolo come organizzazione sociale presente
della paralisi della storia e della memoria, dell'abbandono della storia che si
erige sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo» (tesi 158, p. 129). L’estrema falsa coscienza del tempo, che è tale perché
ne cancella pure il problema, è il tratto singolo che racchiude o condensa in
sé tutti gli altri tratti del postmodernismo come atmosfera culturale
dell’epoca. La falsa coscienza estrema è anche quanto contraddistingue la
burocrazia partitica, statale e sindacale detta socialista e i suoi illusi
seguaci.
Nella Società dello
spettacolo Debord sviluppa un discorso proprio centrato sul farsi della
storia, sul suo movimento inconscio da cui emergono le diverse e incompiute
forme della coscienza storica. È intorno alla conquista della coscienza storica
nella lotta che la Società dello spettacolo va oltre
l’analisi e la diagnosi impassibile del processo di spettacolarizzazione, per
entrare nella dimensione politica della prassi, come critica del socialismo,
nelle sue varianti socialdemocratica e bolscevica, e come indicazione di una
prospettiva alternativa.
Per
Debord si tratta della lotta tra il tempo reificato e il tempo vissuto, tra la
temporalità del potere e quella delle grandi masse in movimento. La formazione
della coscienza storica richiede la ricomposizione coerente di teoria e
pratica: e questa può darsi solo nella lotta per l’auto-organizzazione in forma
consiliare del movimento rivoluzionario.
La definizione più sintetica
dell’umano in Debord è: l’uomo è identico
al tempo (tesi 125, p. 111). Questa eguaglianza comporta una negazione,
quella dell’Essere con la maiuscola, dell’ipostatizzazione dell’essere come
dato naturale e statico e, inversamente, l’inseparabilità di quel che è umano
dal divenire. Rigetta l’ontologia filosofica, anche di matrice marxista,
cercando le ragioni storiche della liberazione. Noto infatti che, nella sua
astrattezza, questa definizione dell’umano è coerente con l’enfasi sul concetto
di dialettica come storia e come negazione: «e il pensiero della storia,
la dialettica, il pensiero che non si arresta più alla ricerca del senso
dell’essere, ma si eleva alla conoscenza della dissoluzione di tutto ciò che è,
e nel movimento dissolve ogni divisione» (tesi 75, p. 76).
Se l’umano è la sua propria
storia - e se la piena coscienza di questo viene a coincidere con la coscienza
rivoluzionaria che abbatte ogni divisione, separazione, alienazione all’interno
della società - la società dello spettacolo è, al contrario, la negazione della
coscienza storica, l’annullamento dell’azione in contemplazione, «come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del
non-vivente» (tesi 2, p. 43), oppure «lo spettacolo è la conservazione dell'incoscienza nel
cambiamento pratico delle condizioni d'esistenza» (tesi 25, p. 51).
La coscienza storica di massa della necessità e della
possibilità della rivoluzione, la riconquista della vita, sono l’unica antitesi
all’alienazione della rappresentanza e della società dello spettacolo, diffuso
o concentrato che sia, capitalistico o socialistico.
Debord e Marx
Solo il «pensiero pratico»,
l’azione della classe rivoluzionaria che investe tutti i rapporti di potere,
esprimendo così la coscienza della «totalità del mondo», può costituirsi come
pensiero della storia, che è poi la dialettica: il progetto della rivoluzione è
il tempo che esiste per l’uomo, di
una vita storica generalizzata. Il fine utopico da realizzare è
«il progetto di un deperimento
della misura sociale del tempo, a profitto di un modello ludico di tempo
irreversibile degli individui e dei gruppi, modello nel quale sono
simultaneamente presenti dei tempi
indipendenti federati. È il programma di una realizzazione totale,
nell’elemento del tempo, del comunismo che sopprime “tutto ciò che esiste
indipendentemente dagli individui”» (tesi 163, p. 131).
Il progetto rivoluzionario
implica quindi un nuovo corso della civiltà, una trasformazione che non è solo
istituzionale e dell’uso e del funzionamento delle tecniche, ma anche della
psiche. A questo mi pare alludere il tempo ludico, qualcosa che può ricordare
la tesi di Marcuse in Eros e civiltà:
la trasformazione del contenuto del principio di realtà e la rideterminazione
della ragione non più nei termini economici del principio di prestazione ma in
direzione dell’Eros: cioè della soddisfazione dei bisogni umani invece che
della riproduzione del dominio. Anche la storia universale ha un proprio
inconscio.
Prassi e coscienza stanno qui
per il vissuto reale degli individui nella loro lotta come classe, collettività
o comunità, antitesi dell’alienazione della vita nello spettacolo. Ciò che
Debord bersaglia è l’alienazione del vissuto individuale e collettivo, che nel
succedersi delle epoche assume diverse forme e figure. Nei termini più generali
della visione della storia, ma anche più specifici dal punto di vista della
prassi politica, direi che quel che Debord combatte è l’idea che la vicenda
storica sia determinata da una forza separata e autonoma rispetto ai rapporti
umani, per quanto questi si siano sempre dati come rapporti di potere. Nel caso
dei partiti del movimento operaio questa separatezza, «l’ultima visione
metafisica incosciente dell’epoca», è quella che assume come oggetto della
storia la «progressione produttiva» (tesi 74, p. 75), la sostituzione del
processo hegeliano dello Spirito «con lo sviluppo materialistico delle forze
produttive» (tesi 80, p. 78) o, più generalmente, «la contemplazione del movimento dell’economia». Benché non se ne
faccia parola, considerando gli anni in cui venne formulata, la posizione
anti-scientistica e anti-contemplativa di Debord suona come una critica
implicita dello strutturalismo marxista alla Althusser: l’enfasi è sulla lotta,
sui rapporti di forza tra le classi sociali invece che sulle «leggi»
dell’economia, i cui parametri sono continuamente sconvolti dalla storia reale
(si veda l’attacco esplicito allo strutturalismo nelle tesi 196, 201, 202).
Anche la posizione di Debord è antistoricista, ma nel senso con cui Marx
affermò che la Storia, come idea ipostatizzata, non fa nulla, perché la «storia non può essere che il vivente producente se stesso, che si fa
signore e padrone del suo mondo che è la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco» (tesi 74, p. 76).
Qui è netta l’opposizione alla riduzione delle contraddizioni, delle lotte e
del vissuto degli individui all’attesa della maturazione del contrasto tra
rapporti di proprietà e forze di produzione, come nella formula
marx-strutturalista. Quest’ultima può ben dirsi astratta perché riduce gli
individui e le classi a portatori passivi di un ruolo, separando la coscienza e
la pratica, la soggettività politica dall’oggettività dell’istanza
dell’economico. Una dicotomia che darà origine a tanto post-marxismo (e
postmodernismo) senza Marx, una volta che si sia preso atto della flessibilità
e della resistenza del sistema.
Debord scrive: «La critica dell’economia
politica è il primo atto di questa fine
della preistoria: - e subito precisa -
“Di tutti gli strumenti della produzione, il più grande potere
produttivo è la classe rivoluzionaria stessa”» (tesi 80, p. 79). Con ciò si
ricorda un concetto fondamentale del pensiero marxiano, che è tale anche per
intendere la critica dello spettacolo come critica dell’economia politica del
capitalismo contemporaneo. La critica dell’economia politica non è una diversa
o alternativa teoria economica, con le sue leggi invarianti storicamente
specificate, ma la penetrazione e lo svelamento delle contraddizioni dei
rapporti di produzione esistenti, la loro determinazione come rapporti sociali,
tra esseri umani, quindi rapporti di potere e di lotta; implica l’indicazione
delle condizioni sociali di possibilità e anche di dissoluzione pratica di
questi stessi rapporti sociali, il loro divenire storico. Una storia che, come
storia cosciente, non può che essere opera di un soggetto rivoluzionario: una
storia che ha come finalità la fine dei rapporti sociali mercantili e della
stessa economia politica. Il lavoro vivo,
oggetto di sfruttamento e strumento della valorizzazione del capitale, deve
riconquistare la vita individuale e il tempo storico nella loro totalità.
Nel prefigurare la fine rivoluzionaria dell’economia
politica, Debord concordava con quanto insegnava Rosa Luxemburg nella scuola di
partito poco prima l’esplodere del conflitto mondiale, ripreso nella sua Introduzione all’economia politica: una
convergenza significativa, visto che Rosa dovette fare i conti molto
praticamente e precocemente con la logica che caratterizzò i partiti operai del
‘900.
La critica del
«marxismo ortodosso», della rappresentanza partitica e dell’assimilazione della
rivoluzione proletaria a quella borghese
A questo punto la riflessione di Debord si fa più
originale, perché nella ricostruzione storica salda la forma organizzativa, il partito,
all’ideologia, il marxismo «ortodosso», e al contenuto
politico, la rappresentanza nello e dello Stato: il riferimento iniziale è alla
II Internazionale e in particolare al suo gioiello, il Partito
socialdemocratico tedesco. L’ideologia kautskiana del Spd è «scientifica» nel
senso in cui lo è l’economia politica, «che identifica ogni sua verità con il
processo obiettivo nell'economia»; la forma organizzativa è adeguata
all’ideologia in quanto è «al servizio dei professori
che educavano la classe operaia», iniettandogli dall’esterno dosi di «illusione rivoluzionaria, secondo una
pratica manifestamente riformista» (tesi 96, p. 90), orientata al successo
elettorale e, in definitiva, all’integrazione nello Stato capitalista.
Il contenuto politico è dunque gradualista, perché «ora si
scopre che, secondo la scienza delle rivoluzioni, la coscienza arriva sempre troppo presto e dovrà essere insegnata»
(tesi 84, p. 81): troppo presto, si intende, rispetto al maturare delle
condizioni obiettive quali sono definite dalle leggi dell’economia secondo il
«marxismo ortodosso». E questo è l’atteggiamento politico contemplativo nel senso di Debord. La connessione tra la
burocratizzazione dei partiti operai, la loro forma d’organizzazione e il
contenuto della loro politica, da una parte, e lo spettacolo, dall’altra, è
costituito dal concetto di rappresentanza
socialista, intrinseco alla funzione anti-rivoluzionaria dei partiti, non a
caso da Debord riferita a Ebert, al suo odio militante per la rivoluzione e
alla nozione che «socialismo vuol dire lavorare molto» (tesi 97, p. 92). È la
rappresentanza che implica la separazione tra partito e auto-organizzazione
operaia, tra pratica riformista e ideologia rivoluzionaria, illusoria; è la
rappresentanza che separa il fine e i mezzi, come è intrinseco allo spettacolo:
«il fine non è
niente, lo sviluppo è tutto» (tesi 14), scrive Debord, parafrasando Bernstein;
oppure, ricordando Hilferding, la forma del partito operaio e la sua ideologia
contemplativa separano l’obiettività della lotta tra le classi, che esprime le
contraddizioni del capitalismo, dalla soggettività, riducendo la lotta per il
socialismo a scelta etica puramente individuale (tesi 95, p. 90), cioè
infondata.
Debord inverte i
rapporti di causa ed effetto: direi, invece, che è la pratica della rappresentanza che spiega l’ideologia contemplativa,
legittimazione di un partito che si concepisce come istituzione educativa della
classe nell’attesa della maturità dei tempi e, intanto, orientato
all’allargamento del consenso elettorale. È questa stessa pratica, quindi, che
legittima ideologicamente l’assimilazione della rivoluzione proletaria al
modello della rivoluzione borghese: una forma di falsa coscienza storica che,
da errore, per quanto possa farsi risalire a Marx, diviene potere
antirivoluzionario (tesi 84: «L'aspetto
deterministico-scientifico del pensiero di Marx costituì la breccia attraverso
la quale penetrò il processo di ideologizzazione,
quando egli era vivo, e ancor di più nell'eredità teorica lasciata al movimento
operaio»; tesi 85: «i limiti della teoria di Marx sono naturalmente i limiti
della lotta rivoluzionaria del proletariato della sua epoca»; tesi 89: se Marx
«si era aspettato troppo dalla previsione scientifica, al punto di creare la
base intellettuale delle illusioni dell'economicismo, si sa anche che non vi
soccombette personalmente»).
A proposito della
confusione tra i modelli della rivoluzione borghese e proletaria, ammesso che
essi esistano, Debord continua la polemica contro lo scientismo (contro la
falsa coscienza storica) con delle osservazioni interessanti e tra loro
concatenate. Nel criticare «l'immagine lineare dello sviluppo dei modi di
produzione», egli contesta anche la nozione che la successione dei modi di produzione
consegua dalla vittoria della classe rivoluzionaria: al contrario, «la borghesia è la sola classe
rivoluzionaria che sia mai stata vincitrice» (tesi 87,
p. 83). Sarebbe da chiarire in che senso e in che momento la borghesia sia mai
stata classe rivoluzionaria; ma la conseguenza interessante che può trarsi da
questa annotazione, adombrata dallo stesso Debord, è che il conflitto tra le
classi può anche risolversi catastroficamente, con la rovina generale; subito
segue l’osservazione che la borghesia è «la sola classe per la quale lo
sviluppo dell'economia sia stato causa e conseguenza del dominio da essa
conquistato sulla società». Direi che per economia qui deve intendersi, più
precisamente e in modo più ristretto, l’economia mercantile: l’osservazione è
importante sia perché rimanda a un’interpretazione dei paesi detti socialisti e
a un’idea dell’economia mondiale; sia perché implica la posizione
antigradualista e antieconomicista per cui la rivoluzione non può attendere la
maturazione delle forze di produzione e il pieno sviluppo dei rapporti
capitalistici.
Unilinearismo ed economicismo sono ideologicamente
funzionali e conseguenti dall’adozione del modello giacobino di rivoluzione, in
cui è fondante l’idea della rappresentanza: della nazione, del popolo, del
proletariato. La rappresentanza, in quanto separazione dell’organizzazione
partitica e delle istituzioni statali dal rappresentato, comporta la preminenza
dei rappresentanti sui rappresentati, la gerarchia, l’utilizzo del potere sopra
quel che si intende rappresentare. Ovvero: la rappresentanza è inseparabile
dalla supremazia del potere statuale sopra il rappresentato, il proletariato,
il popolo atomizzato dei cittadini-elettori.
Secondo Debord, Marx aveva sottovalutato il ruolo dello
Stato ma «d'altra parte Marx aveva potuto descrivere, nel bonapartismo,
l'abbozzo della burocrazia statale moderna, fusione di Stato e di capitale». In
quegli stessi anni Nicos Poulantzas considerava il bonapartismo come tratto
costitutivo dello Stato capitalistico, per la sua pretesa di porsi quale
arbitro al di sopra delle classi, garante dell’interesse della nazione; e se
consideriamo che Luigi Bonaparte venne eletto e poi confermato plebiscitariamente
come rappresentante del popolo, si intende perché Debord scriva che così «la
borghesia rinuncia ad ogni vita storica, che non sia la sua riduzione alla
storia economica delle cose, e accetta di “essere condannata allo stesso nulla
politico delle altre classi”». Con il bonapartismo «sono già poste le basi
socio-politiche dello spettacolo moderno» (tesi 87, p. 83). Si può concludere
che la spettacolarità è connaturata allo
Stato capitalistico in quanto forma concentrata della rappresentanza popolare.
Riprendendo la metafora delle vie, questo può dirsi il percorso
borghese, dall’alto, alla fondazione delle basi politiche della società dello spettacolo. L’attenzione di Debord si
concentra però sull’altra via, che potremmo dire dal basso, quella che è
propria dei partiti che pretendono la rappresentanza della classe dominata, del
proletariato.
La critica del
bolscevismo e dello spettacolo concentrato
Un fenomeno sociale come il processo di spettacolarizzazione non può
essere datato in modo preciso. Eppure, se proprio si volesse e con precauzione,
si potrebbe indicare una data precisa: il 1918. Quello fu l’anno in cui, in
Germania, «la socialdemocrazia ha combattuto vittoriosamente per il vecchio mondo», contribuendo a
reprimere la rivoluzione, ma fu anche l’anno di una rivoluzione riuscita in
Russia; o, perlomeno, mentre in Germania il Spd si consacrava come partito
dello Stato capitalistico nel sangue dei rivoluzionari, in Russia prendeva il
potere il partito dei rivoluzionari di professione, quello della «professione
che non vuole patteggiare con nessuna professione dirigente della società
capitalistica» e che, perciò, «diviene dunque la professione della direzione assoluta della società» (tesi 98, p. 92).
Due movimenti opposti, dunque, ma secondo Debord convergenti. Il
partito della rappresentanza operaia in Germania è «l'organizzazione
spettacolare della difesa dell'ordine esistente, il regno sociale delle
apparenze in cui nessuna “questione centrale” può più essere posta “apertamente
e onestamente”», in cui, cioè, non è possibile porre in modo chiaro
l’alternativa capitalismo o socialismo (tesi 101, p. 92). E questa falsificazione della
verità storica non è forse un momento fondativo dello spettacolo moderno, a cui
si attaglia la tesi che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso»
(tesi 9, p. 45)?
L’altro movimento, quello a oriente, non è però meno importante: sarà
pure «un primitivismo locale dello spettacolo», ma il suo «ruolo è tuttavia essenziale nello sviluppo dello
spettacolo mondiale» (tesi 105, p. 97, corsivo mio).
Cosa hanno in comune la socialdemocrazia e il bolscevismo? La forma
organizzativa: il partito leninista che dirige le masse dall’esterno non è che
l’adattamento della concezione del partito di Kautsky alle condizioni
autocratiche del sottosviluppato capitalismo russo, che non poteva giovarsi
delle possibilità d’integrazione sociale e politica dell’occidente europeo. Ma
questa forma è anche un contenuto. Se per Rousseau l’idea di una democrazia rappresentativa
costituiva un ossimoro, per Debord il partito come forma della rappresentanza
operaia si contrappone alla classe: la rappresentanza ideologicamente
rivoluzionaria del proletariato, «era divenuta contemporaneamente il fattore
principale e il risultato centrale della falsificazione generale della società»
(tesi 101, p. 93) oltre che
«il partito dei proprietari del proletariato» (tesi 102, p. 94).
Per Debord l’Unione Sovietica (e la Cina di Mao e le altre
formazioni dette socialiste) non è un nuovo modo di produzione diretto da una
nuova classe dominante, come aveva scritto Bruno Rizzi ne La burocratizzazione del mondo (1939), né una società che, in
qualche modo, potesse dirsi ibrida. Si tratta, invece, di un capitalismo di
Stato in cui la burocrazia è una «classe dominante di sostituzione», espressione del sottosviluppo economico (tesi 104, pp. 95-6).
A mio parere, se presa alla lettera la caratterizzazione
dell’Urss come capitalismo di Stato è fuorviante, sia per comprendere il
funzionamento interno di quella particolare formazione sociale, sia per la
messa in guardia dai «pericoli professionali del potere». Tuttavia, Debord è
sicuramente vaccinato dall’ultimo rischio, come si vede nella critica rigorosa
della separazione e della rappresentanza, dal rigetto del professionismo
politico, dal modo in cui pone il rapporto tra pratica rivoluzionaria e
autorganizzazione. Quanto al capitalismo di Stato, nella Società dello spettacolo esso non è usato al modo di un’arma
ideologica di una burocrazia (quella cinese) contro un’altra, e non solo perché
il giudizio accomuna tutte le
burocrazie al potere. Posta nel suo contesto, la caratterizzazione di Debord
svolge un’altra funzione e serve a evidenziare fenomeni che la trascendono.
Anzi, l’analisi di Debord è tanto più interessante quando si sviluppa in modo
da sottolineare le «considerevoli particolarità nelle modalità della produzione
e del potere», al punto che «queste diverse opposizioni possono darsi, nello
spettacolo, secondo criteri del tutto differenti, come forme di società
assolutamente distinte» (tesi 56, p. 65).
Questo è il motivo per cui la ricostruzione storica del quarto capitolo
è preceduta dalla trattazione della «unità e divisione nell'apparenza»: qui
l’unità è quella dell’economia mondiale capitalistica; la divisione è quella
delle «false lotte spettacolari delle forme rivali del potere separato», ovvero
tra il sedicente mondo libero e il presunto socialismo. Insieme, è questo che costituisce lo spettacolo come fatto
planetario e la «divisione mondiale di
compiti spettacolari» (tesi 57, p. 66). A conferma che la società dello spettacolo è non solo un’epoca storica ma anche un
fatto sociale totale nel senso più forte, cioè di dimensioni mondiali, che
abbraccia due sistemi sociali (o un solo modo di produzione differenziato,
secondo Debord). Direi che, molto prima che entrasse nell’uso attuale, qui c’è
già la visione del globale, non come mero fatto culturale conseguente dalla
istantaneità della comunicazione mediatica ma, innanzitutto, come fatto
politico e socioeconomico mondiale. Se le lotte spettacolari sono false in
quanto riproduzione del potere separato, esse sono, tuttavia,
«nello stesso tempo reali, in quanto traducono lo sviluppo ineguale e
conflittuale del sistema, gli interessi relativamente contraddittori delle
classi o dei segmenti delle classi che riconoscono il sistema, e definiscono la
propria partecipazione al suo potere» (tesi 56).
Nell’uso critico e liberatorio del concetto di società
dello spettacolo la dimensione microsociale è compresa attraverso quella
macrosociale, l’analisi della fisiologia socioeconomica è vista attraverso il
fatto fondamentale, che è poi quello politicamente discriminante, del dominio
di classe sulla società. Su scala mondiale, è il concetto di sviluppo ineguale
e combinato che può definire la divisione del lavoro nella riproduzione
unitaria del falso spettacolare; in esso i capitalismi più avanzati dominano
l’economia mondiale non solo attraverso i meccanismi economici nel senso più
ristretto ma proprio «in quanto società
dello spettacolo» (tesi 57). La tesi è ampiamente
dimostrata dall’irresistibile attrazione che il capitalismo esercita sui popoli
«socialisti», non appena si apre un varco, per mare o per terra: attrazione
illusoria, ma per fondate ragioni. Come la rivoluzione, per affermarsi lo spettacolo non attende che siano maturate
tutte le condizioni materiali, le forze di produzione e i rapporti di
proprietà: il processo storico della spettacolarizzazione del mondo è
inestricabilmente legato a quello del capitalismo ma non si riduce ad esso.
In cosa consiste propriamente l’aspetto spettacolare di
questa unità nella divisione dello spettacolo mondiale?
Anche per la scala mondiale è utile procedere seguendo due
strade, illuminare l’oggetto da due punti di vista, senza dimenticare che si
tratta della stessa meta e dello stesso oggetto.
La formazione dell’opposizione spettacolare,
pseudonegazione dello spettacolo, è innanzitutto il risultato di un progetto
politico, orientato sul modello giacobino e statuale.
Che la rappresentanza sia una rappresentazione ideologica
non è da intendersi come un’evanescente idea limitata alla sola coscienza; è
invece qualcosa che di concreto, l’anima di una forma organizzativa e di un
funzionamento dell’organizzazione, di un apparato che agisce e trasforma la
realtà. Questa è la grande forza storica della forma partito e, nello stesso
tempo, la ragione del rovesciarsi del mezzo organizzativo in separata finalità
di potere, che mira a riprodursi e a espandersi come apparato. Il partito può
quindi intendersi come ideologia materializzata, come «spirito oggettivo»:
«L'ideologia è la base del
pensiero di una società di classe, nel corso conflittuale della storia. I fatti
ideologici non sono mai stati delle semplici chimere, ma la coscienza deformata
delle realtà e, in quanto tali, dei fattori reali esercitanti di ritorno una
reale azione deformante: a maggior ragione la materializzazione dell'ideologia - originata dal successo concreto
della produzione economica divenuta autonoma, nella forma dello spettacolo -
confonde praticamente con la realtà sociale un'ideologia che ha potuto
ritagliare tutto il reale sul proprio modello» (tesi 212, p. 155).
Qui salta la dicotomia tradizionale del marxismo ortodosso
tra base e sovrastruttura; e se l’ideologia è «la coscienza deformata delle
realtà», essa non è mero riflesso passivo della realtà della società di classe
ma qualcosa che le dà forma.
La repressione della rivoluzione tedesca e il sottosviluppo
capitalistico dell’impero zarista sono certamente, con altri elementi
indipendenti dalla volontà dei bolscevichi, fattori che rientrano nella
spiegazione della deformazione del processo rivoluzionario in Russia. Tuttavia,
si tratta di circostanze aggravanti, non univocamente determinanti: altrimenti
la pressione esterna diviene giustificazione ideologica del dato di fatto
storico, sua assunzione come inevitabile necessità, accecamento nei confronti
della storia e del futuro di altre esperienze di rottura con l’imperialismo e
legittimazione delle caste dirigenti. I neostalinisti più intelligenti
riprendono strumentalmente parte dell’argomentazione trotskista, riducendo la
spiegazione del processo interno alla rivoluzione alle circostanze obiettive,
così da far virtù della (presunta) necessità). Invece non si può prescindere,
né nella ricostruzione storica né nell’orientamento politico nel presente,
dalla tendenza politica latente nella forma partito, che trova espressione
nella sua ideologia: il leninismo esprime la separatezza in tutta la sua
coerenza volontaristica (tesi 105) e la dittatura della burocrazia
partitico-statale non è altro che la dittatura della «rappresentanza suprema dell’ideologia» (tesi 103, p. 95, corsivo
mio).
Si dirà che Debord liquida troppo sbrigativamente Lenin,
Trotsky, l’esperienza dei primi anni della rivoluzione. È vero: la
ricostruzione storica dei drammi e delle contraddizioni del bolscevismo nei
primi anni della rivoluzione è solo abbozzata. Nondimeno, egli ne coglie la
contraddizione fondamentale, la ragione interna del blocco della rivoluzione,
del precoce esautoramento dei soviet.
La dinamica storica del partito dei rivoluzionari di
professione e la costruzione del suo potere segue un percorso inverso a quello
tipico della borghesia, classe per cui il potere economico precede la conquista
del potere politico. Nel caso del bolscevismo, è proprio l’ideologia della
rappresentanza, che si attua nella separatezza del partito e dello Stato dalla
classe, che conduce al monopolio totalitario, non solo del potere politico ma
anche della direzione dell’economia. Sottolineo che, per quanto Debord
caratterizzi il «socialismo reale» come capitalismo di Stato, il percorso della
casta burocratica è del tutto originale. Perfino prima che si istituzionalizzi il potere del partito e si
cristallizzi una categoria sociale attraverso il dominio partitico-statale
sulla società, è il burocratismo, cioè il funzionamento, la logica interna e
l’ideologia del partito all’opposizione,
ad agire nella realtà.
Diciamo, dunque, che non è possibile comprendere genesi e
funzionamento dello spettacolare concentrato prescindendo dall’ideologia materializzata nel
partito-Stato, a sua volta concentrata, per tutta una fase, in una vedette assoluta:
«Essa [la dittatura dell'economia burocratica] deve
accompagnarsi ad una violenza permanente. L'immagine imposta del bene, nel suo
spettacolo, raccoglie la totalità di ciò che esiste ufficialmente, e si
concentra normalmente su un sol uomo, che è il garante della sue coesione
totalitaria. Con questa vedette assoluta devono magicamente identificarsi o
scomparire. Perché si tratta del padrone del suo non-consumo e dell'immagine
eroica di un certo senso accettabile per lo sfruttamento assoluto, che
costituisce la realtà dell'accumulazione primitiva e accelerata dal terrore. Se
ogni cinese deve imparare Mao, e così essere Mao, è perché non ha nessun altro da essere. Là dove domina lo spettacolare
concentrato, domina anche la polizia» (tesi, 64, p. 70); e sul potere di
Stalin: la «garanzia centrale dell'ideologia,
che riconosce una partecipazione collettiva al suo “potere socialista” da parte
di tutti i burocrati che essa non
annienta. Se i burocrati presi nel loro complesso decidono su tutto, la
coesione stessa della loro classe non può essere assicurata che attraverso la
concentrazione del loro potere terroristico in una sola persona. In questa
persona risiede la sola verità pratica della menzogna al potere» (tesi 107, p. 98).
La peculiarità dello spettacolo totalitario «socialista»,
combinazione falsa e vera di illusione e reale, è che la «classe
ideologico-totalitaria al potere è il potere di un mondo rovesciato; più essa è
forte, più afferma che non esiste, e la sua forza le serve prima di tutto ad
affermare la sua inesistenza» (tesi 106, p. 97). Deve apparire tale perché il singolo burocrate non ha alcun titolo
di proprietà sui mezzi di produzione né, quindi, possibilità di alienarli o
ereditarli: e infatti, la «rivoluzione» capitalistica in Unione sovietica
consisterà poi proprio nell’appropriazione e privatizzazione delle unità
economiche da parte di un’ampia frazione del partito e del Komsomol (una delle
alternative previste da Trotsky, errata solo nei tempi di realizzazione). Il
potere politico ed economico del burocrate sovietico dipendeva dalla sua
carriera nel partito e la burocrazia sovietica dirigeva l’economia solo in
quanto controllava lo Stato (era proprietaria solo collettivamente, dice
Debord, che però è come dire che la posizione di ogni singolo burocrate non era garantita economicamente, per le capacità
di valorizzare il proprio capitale, ma dalle decisioni politiche e dai maneggi
amministrativi). È per questo che «la burocrazia deve essere la classe invisibile per la coscienza, di
modo che è poi tutta la vita sociale che diviene demente. L'organizzazione
sociale della menzogna assoluta deriva da questa contraddizione fondamentale»
(tesi 106). Questa demenzialità della casta burocratica, il cui duro e
realissimo potere deve essere ideologicamente negato e, nello stesso tempo,
affermato realmente attraverso la funzione dirigente del partito, sedicente
rappresentante della classe operaia, è il nocciolo dello spettacolare
concentrato, della condensazione del potere in un immagine menzognera eppure
reale. Benché più «primitiva», nella
società totalitaria «socialista» la falsa coscienza è totale, perfino più che
nel capitalismo, dove i proprietari, proprio perché privati, non si sognano di negare di essere tali e quindi di dover
esercitare, per questo loro legittimo diritto, il dominio diretto, esclusivo e
aperto sui mezzi di produzione. Se la burocrazia perviene al potere
materializzando l’ideologia e la logica separata del partito nel potere dello
Stato, «la sua proprietà reale è dissimulata, ed essa non è divenuta proprietaria che per la via della falsa coscienza»
(tesi 107, p. 98, corsivo mio). Se il potere assoluto rende assoluta
l’ideologia, ed essa si muta
«da una conoscenza parcellare in menzogna totalitaria, il
pensiero della storia è stato così perfettamente annientato che la storia
stessa, a livello della conoscenza più empirica, non può più esistere. La
società burocratica totalitaria vive in un presente perpetuo, in cui tutto
ciò che è avvenuto esiste soltanto per essa, come spazio accessibile alla sua
polizia» (tesi 108, p. 99).
«La falsa coscienza mantiene il proprio potere assoluto
solo attraverso il terrore assoluto, in cui ogni vero motivo finisce per
perdersi» (tesi 107).
Neanche la destalinizzazione mutò sostanzialmente la
posizione storica della burocrazia sovietica
«perché la menzogna
ideologica della sua origine non può mai essere rivelata. In questo modo la
burocrazia non può liberalizzarsi né culturalmente né politicamente, perché la
sua esistenza come classe dipende dal suo monopolio ideologico che, con tutta
la sua pesantezza, è il suo solo titolo di proprietà» (tesi 110, p. 101).
La negazione della storia, precipitata in un presente perpetuo, è il
tratto più caratteristico del postmoderno. Quindi e paradossalmente, nonostante
il più basso livello di sviluppo della tecnologia e dei rapporti mercantili, la
realtà dei paesi «socialisti» concorre alla pari, o pare addirittura
precorrerli, con i paesi capitalistici più sviluppati nella costituzione dello
spettacolo mondiale, unitario e diviso. Se lo spettacolo «è il sole che non tramonta mai
sull'impero della passività moderna» (tesi 13, p. 46), le società «socialiste»
sono state buon esempio di questa passività. Forse non tanto durante la loro
esistenza (le rivolte in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia…) ma, sicuramente,
al momento della prova cruciale per l’ideologia ufficiale, nel momento del
crollo: è allora che si è dimostrata la falsità dello spettacolo delle immagini
dell’ideologia «socialista» e della burocrazia «comunista», da una parte, e,
dall’altra parte, la reale atomizzazione
sociale conseguita dalla rappresentanza separata e totalitaria.
Dimostrazione definitiva della fragilità storica di queste formazioni sociali,
occultata per poche generazioni dalla durezza repressiva, compimento finale
della tesi per cui «ogni crollo di una figura del potere
totalitario rivela la comunità illusoria
che l'approvava unanimemente e che non
era che un agglomerato di solitudini senza illusioni» (tesi 70, p. 73).
Ho dato grande rilievo al fatto che è solo sul fondamento
del potere politico ed ideologico che la burocrazia «socialista» può sfruttare
il lavoro salariato e dominare, per quel che le riesce, i rapporti
socioeconomici nell’ambito del proprio Stato. Un’analisi precisa del
funzionamento dei rapporti di produzione dell’Urss e dei paesi «socialisti» può
dimostrarne la peculiare irrazionalità dal punto di vista capitalistico, oltre
che socialistico, le ragioni intrinseche dei limiti alla crescita della
produttività (dello sfruttamento attraverso la generalizzazione dell’estrazione
di plusvalore relativo), le enormi dimensioni dello spreco materiale ed
energetico, oltre che di fatica umana, il ruolo del lavoro schiavistico dei
prigionieri del gulag e dei campi di «rieducazione».
Si possono considerare le strozzature e la particolarità
dei ritmi economici «socialisti», nei quali l’inerzia si alternava alla corsa
forsennata per raggiungere gli obiettivi, e le rivalità e le complicità tra i
direttori delle imprese, alle spalle delle direzioni centrali: un insieme di
fenomeni che si spiega con la forma peculiare che assumono la competizione e la
divisione sociale del lavoro in un processo di pianificazione burocratica, in cui il lavoro rimane solo indirettamente
sociale proprio perché sottoposto al dispotismo statale. Tutto ciò si può
compendiare nel concetto che un’economia di tipo sovietico non è in grado di
innescare in modo sistematico un processo di autovalorizzazione del capitale,
al contrario del capitalismo, in cui anche le crisi sono occasione di
ristrutturazione e di rilancio su nuove basi dell’accumulazione (certamente,
anche con il sostegno dello Stato). Si può dire la stessa cosa in termini
diversi considerando gli effetti: la direzione burocratica dell’economia può
dar luogo a una crescita estensiva, che è anche un cambiamento qualitativo, ma
non a uno sviluppo intensivo, continuativo e generale delle forze di
produzione; può promuovere l’industrializzazione su base nazionale, ma non è in
grado di socializzare il lavoro su scala internazionale, di realizzare qualcosa
che possa, a giusto titolo, dirsi divisione socialista del lavoro continentale
o inter-continentale; può essere efficace nel raggiungere determinati obiettivi
(per lo più strategico-militari) ma non efficiente: gli obiettivi sono
raggiunti a qualsiasi prezzo. Neanche
i capitalisti si fanno scrupoli, se non nella misura richiesta dalla
partecipazione alle regole dello spettacolo: ma, sicuramente, i prezzi hanno
per essi un significato reale e non sono disposti a conseguire i loro obiettivi
pagando prezzi monetari qualsiasi.
Per queste ragioni il sistema burocratico non ha la forza dinamica per imporre
i propri standard sul mercato mondiale.
Tuttavia, per quanto
in modo diverso da quello capitalistico, anche nei paesi «socialisti» lo
sfruttamento avviene in forma moderna, cioè come sfruttamento del lavoro
salariato (combinato con altre forme, apparentemente arcaiche di lavoro
forzato). Anzi, in questi paesi il potere burocratico ha imposto la
generalizzazione del lavoro salariato (in misura forse anche superiore a quella
dei paesi a capitalismo avanzato) a partire da una sorta di accumulazione
primitiva del capitale rapidissima e feroce. A conti fatti, la «missione
storica» dei socialismi di Stato può dunque riassumersi, socioeconomicamente,
nella formazione di una massa di salariati al lavoro su una base materiale
enormemente più avanzata di quella pre-rivoluzionaria; politicamente, nel
blocco e nella deformazione dei processi rivoluzionari mondiali, ai quali ha
fornito un modello, un esempio. Si tratta, però, di esempio niente affatto
internazionalistico, perché «l'illusione di una qualsiasi variante di
socialismo statale e burocratico viene coscientemente manipolata come la semplice ideologia dello sviluppo
economico dalle classi dirigenti locali» (tesi 113, p. 104). La rilevanza
internazionale del modello statalista-burocratico è tale perché si tratta di un
modello di sviluppo nazionale e nazionalistico, confinato nell’ambito
territoriale-statale di paesi capitalisticamente sottosviluppati e spesso ex
coloniali, che hanno rotto politicamente con l’imperialismo o con il singolo ex
Stato imperialista che li dominava. Per la stessa ragione si tratta di uno
pseudomodello: concretamente, lo sviluppo nazionale avviene per linee diverse e
che per lo più confermano (con qualche importante eccezione) il paese in
questione nella posizione, se non proprio nella stessa specializzazione
produttiva, che già aveva nella divisione internazionale del lavoro, nella
gerarchia dell’economia mondiale. Socialmente, quel che spesso avviene non è
neanche l’effettiva distruzione della borghesia, tutt’altro: a seconda dei
paesi, il potere si combina tra burocrazia statale e borghesia interna, quando
addirittura non è la stessa burocrazia a porre le basi per la formazione della
borghesia interna o a trasformarsi in essa. In ultimo, questa è la ragione per
cui le caste o le classi dominanti dei paesi in questione «finiscono per levare
a quest'ultimo sottoprodotto del socialismo ideologico ogni serietà che non sia
poliziesca» (si veda la tesi 113); ed è pure la ragione della rottura
dell’alleanza o della collaborazione con quello che era il paese esemplare, del
conflitto anche armato tra paesi «fratelli» (tra Cina e Unione Sovietica, tra
Cina e Vietnam), della disgregazione del sedicente «mondo socialista» (si veda
la tesi 111).
Le prospettive di sopravvivenza della burocrazia erano e
sono confinate nell’ambito dello statalismo e del nazionalismo;
l’«internazionalismo proletario», che viaggia sui carri armati e con gli
«aiuti» retribuiti dall’osservanza politico-ideologica, mira a conservare la
sfera d’influenza della burocrazia dello Stato più forte, possibilmente in
pacifica coesistenza con l’imperialismo, ma non ha la stessa flessibile
capacità dell’esportazione di capitale e di merci (che certo richiede anche
azioni politiche) di scavalcare i confini nazionali e di trasformare
dall’interno i rapporti sociali. Di petto al capitalismo, il socialismo di
Stato non era e non è un’alternativa storico-mondiale: la sua vitalità era ed è
circoscritta a quella del parassita nei confronti delle rivoluzioni, dei
conflitti infra-capitalistici (l’Urss nella Seconda guerra mondiale),
dell’espansione delle società transnazionali e dei mercati del capitalismo
avanzato (la Cina contemporanea).
Se l’Unione Sovietica o la Cina non erano paesi
capitalistici, c’è però un senso profondo nella tesi di Debord per cui
«Questa industrializzazione dell'epoca staliniana
rivela la realtà ultima della burocrazia:
essa è la continuazione del potere dell'economia, il salvataggio
dell'essenziale della società mercantile che mantiene il lavoro-merce. È
la prova offerta dall'economia indipendente, che domina la società al punto di
ricreare per i propri fini il dominio di classe che le è necessario: il che
equivale a dire che la borghesia ha creato una potenza autonoma la quale,
fintanto che sussiste questa autonomia, può arrivare al punto di fare a
meno di una borghesia» (tesi 104, p. 96).
Credo che questa sia la tesi più inquietante di tutto il
libro: quella dell’economia come potenza autonoma, nel senso di un dominio di
classe che continua il movimento inconscio della storia e produce falsa
coscienza storica su scala planetaria, lo spettacolo mondiale.
La verità di questa tesi è che le formazioni sociali non
capitalistiche non solo sono parte di un’economia mondiale la cui dinamica
storica è complessivamente dominata dal capitalismo ma che, tanto più quanto
sono internamente controllate da una casta totalitaria, nazionalista e
passivizzante, sono condannate a cedere alla pressione del capitalismo, dello
spettacolo in forma diffusa, più efficiente, brillante, attraente, coerente,
vitale, espansiva. Così si possono spiegare, da una parte e a negativo, il
fallimento delle riforme economiche e l’implosione interna dell’Unione sovietica,
detonata ma non causata (se non, appunto, come ultimo anello causale) dalla
politica di Gorbaciov; e dall’altra parte e, per così dire, a positivo, la più
accorta alleanza della burocrazia cinese col capitale transnazionale,
combinazione del peggio di due mondi.
Che l’economia mondiale possa «arrivare al punto di
fare a meno di una borghesia» è possibilità che, invece, mi pare invalidata
dalla transizione alla rovescia nell’Europa centrale e orientale e in Cina. È
discutibile, però, quanto le classi capitalistiche oggi dominanti, lì come nel
resto del mondo, rispondano ai requisiti ideologici e morali della vecchia
borghesia. Piuttosto, è la mercificazione universale, sottesa al meccanismo
dell’accumulazione di capitale ed elevatasi a spettacolo mondiale, che svolge
la funzione che prima era dell’ideologia nel senso più tradizionale di
riferimento a valori etici, distinti dall’utilitarismo economico e dal calcolo
dei costi e dei benefici individuali. Sotto l’apparenza del pluralismo, del
multiculturalismo e del politeismo dei valori, la nostra è una società
fondamentalmente monoteistica che venera lo spettacolo, la nostra forma di
sintesi sociale, ad un tempo reale e immaginaria come il denaro. Tutto ciò che
in questa società è integrato o vuole integrarsi, dalle chiese religiose ai
partiti che si vogliono alternativi, finisce col divenire parte, sia pure
minore ed effimera, dello spettacolo. Con ciò contribuendo a neutralizzare la
presa di coscienza storica e l’unica azione che può sottrarre il tempo vissuto
a quello dello spettacolo, del dominio, dello sfruttamento: la rivoluzione.
In conclusione: è attraverso la riflessione sul fallimento
della rappresentanza partitica e dello statalismo che Debord formula
l’obiettivo della lotta contro lo spettacolo in tutte le sue forme: la
socializzazione della politica e dell’economia nell’organizzazione dei consigli
dei lavoratori. Egli esprime anche dei semplici criteri di definizione
dell’organizzazione dei rivoluzionari: che essa sappia già, prima del potere
dei Consigli, «che non rappresenta la
classe. Essa deve soltanto riconoscersi come divisione radicale dal mondo della separazione», cioè dal
mondo dello spettacolo con cui non perviene ad alcun compromesso;
«l'organizzazione rivoluzionaria non può riprodurre in se stessa le condizioni
di scissione e di gerarchia che sono quelle della società dominante. Essa deve
lottare in permanenza contro la sua deformazione nello spettacolo dominante»; e
poi, «nel momento rivoluzionario del dissolvimento della divisione sociale,
questa organizzazione deve riconoscere il proprio dissolvimento in quanto
organizzazione separata» (tesi 119-121).
A queste condizioni possiamo tentare di ricostituire la
coerenza tra i mezzi ed il fine già nella società dello spettacolo.
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