Prefazione alla prima edizione integrale dei Carnets di Victor Serge [Carnets (1936-1947), a cura di Claudio Albertani e Claude Rioux, Massari editore, Bolsena 2014, pp. 384, € 24,00], tradotta da Antonella Marazzi e curata per l'italiano da Roberto Massari.
Era il 17 aprile 2013… Esattamente 797 mesi da quel 17 novembre 1947 (quanti 7!) in cui Serge morì - a mio avviso, probabilmente ucciso da agenti staliniani, come egli si aspettava da tempo che prima o poi accadesse. Lo aveva scritto nei Carnets, in pagine che ora possiamo finalmente leggere. Per es. quando annota (18 gennaio 1942, qui pp. 92-3): «il mio assassinio è stato deciso a breve scadenza». O quando poco avanti, tra le probabili vie per eliminarlo, indica «soprattutto la misteriosa crisi "cardiaca"» - come poi effettivamente si verificherà. Basterebbero a) questa lucida consapevolezza, che siamo in grado ora di ricostruire giorno per giorno, anno dopo anno, e b) questa relativamente serena convivenza con la prospettiva d'essere assassinato da un nemico cinico e spietato - affiancate entrambe alla capacità di continuare ugualmente a godersi la vita, la natura, l'arte, la bellezza femminile, lo studio, la riflessione
storica, le culture precolombiane… - per giustificare la lettura attenta di questi diari.
Chi si accinge a leggere Serge per la prima volta, avrà qui l'occasione per innamorarsene perdutamente. Chi con la sua opera è già familiare, ravviverà la fiamma della passione e forse concorderà con noi, in mente et pectore, che questa nuova lettura conferma le precedenti. Essa ci consente di viaggiare in termini letterari nel mondo psicologico della figura emblematicamente più significativa prodotta dall'intero Novecento (e non solo dalla prima metà): del più lucido, più profondo e culturalmente più ricco rappresentante della specie sapiens fiorita all'ombra delle grandi passioni rivoluzionarie di quello stesso
Novecento… tutte ferocemente soffocate nel sangue, tutte inesorabilmente sconfitte. E infatti, il Kibal'čič di cui qui penetriamo l'intimità mentale, è il Serge delle grandi sconfitte storiche. Si vedano le funeste date d'inizio e fine nel frontespizio - 1936-1947 - che racchiudono anche la più bestiale carneficina della storia umana, avviata dai due grandi totalitarismi alleati (il nazista e lo stalinista), con la compiaciuta connivenza delle principali nazioni capitalistiche.
Non è più il romanziere appassionato decoratore di grandi affreschi storici, dal tessuto ruvido e policromo, intravisti o intuiti a Pietrogrado. È l'esule maturo e diffidente che da tempo ha abbandonato una
Leningrado tragicamente irriconoscibile, che emerge integro dal buio della mezzanotte nel secolo e che approda miracolosamente vivo nel «Nuovo mondo», avviandosi alla scoperta di una terra che ci s'immagina ancora non del tutto deflorata, benché lacerata dalla prima grande sconfitta rivoluzionaria del Secolo. Serge sa benissimo, e noi lo sappiamo con lui, che il Messico in realtà rappresenta soprattutto una duplice via di fuga: una fuga fisica dalla ferocia dei sicari staliniani (anche se a volte
vana, come aveva sperimentato Trotsky); una fuga mentale dall'eclissi della ragione e dell'etica euroccidentali (nell'illusione esotizzante che ci si possa purificare tramite l'immersione in una natura lussureggiante o in vasche culturali precolombiane). Non è però una fuga politica, come testimonia (per la gioia degli storici) la ricostruzione del mondo di esuli irriducibili qui magnificamente tratteggiato (e reso ancor meglio comprensibile dalle note di noi curatori).
È la più aggiornata incarnazione evolutiva di homo sapiens narodnikus che trova rifugio nella terra dell'antica «Città dei palazzi» (Tenochtitlán), ma anche di homo politicus (per giunta seditiosus) che ai principali eventi del secolo ha preso parte direttamente, sul piano personale e non solo. Per l'analisi delle motivazioni letterarie, questa sua caratteristica continua a rappresentare la differenza essenziale rispetto al resto dei grandi celebri scrittori.
Serge è un sopravvissuto alla strage
dell'intellighenzia europea - e poco importa ormai il colore politico di quella strage, viste le responsabilità storiche del primo bolscevismo che aprì la strada alla massificazione del massacro da parte di Stalin e poi di Hitler. Ed è impressionante la sequenzialità ossessiva con cui i nomi dei nugoli di conoscenti - amici o nemici di Serge, ma tutti vittime più o meno inermi dello stalinismo, del nazifascismo e dei vari servizi segreti - riaffiorano nelle pagine dei Carnets coi loro volti, le loro appartenenze politiche sbiadite dalle brume dell'oblìo, quasi degli zombies in un film di Romero.
Grazie alla scarnificazione sintattica del linguaggio narrativo (voluta, ma facilitata dalla forma diaristica) abbiamo in
queste pagine l'autoritratto del Serge più umano. Il «compagno» Serge diventa il «cittadino» Victor che si arricchisce spiritualmente nel descrivere a se stesso il corso della mutazione: un'esperienza per lui nuova, vista la rapidità con cui s'era svolto il passaggio dal radicalismo giovanile al comunismo libertario. L'emblema si fa carne e ossa, e lo fa ricorrendo al più antico strumento letterario concesso al povero ominide postcavernicolo quando intende dialogare stabilmente con se stesso: la forma di diario.
Ho sempre invidiato gli scrittori capaci di trasferire su anonimi taccuini le parti più intime dei propri pensieri, senza
secondi fini, cioè senza pensare - se non inconsciamente - a una loro futura pubblicazione. Penso agli scrittori perché, rispetto al diarista ordinario o casalingo, essi pagano il prezzo di dover «sacrificare» una parte del proprio tempo che potrebbero invece dedicare alla scrittura di lavori destinati alla pubblicazione o almeno a un'ampia diffusione: nel tenere un diario personale, essi tolgono tempo e materia all'elaborazione di proprie opere, cioè alla ragione stessa della loro esistenza spirituale. (Va però aggiunto che, rispetto al diarista ordinario, essi hanno il vantaggio di saper scrivere con un certo stile, di usufruire di un certo patrimonio linguistico e culturale. Tutto ciò lo si vedrà benissimo in questi Carnets.)
A tale riguardo andrei al di là di questa breve nota, se mi avventurassi nell'elencazione dei meriti estetico-formali che si ritrovano nel tipo di scrittura adottata da Serge nei Carnets. Dirò solo che a me è parsa stupenda, imprevedibile, fresca e molto più incisiva rispetto ai suoi romanzi. Ma qui mi fermo, e lascio che il lettore se la goda e decida per conto proprio.
Non posso nemmeno dilungarmi su un confronto (che però si dovrà fare, con calma), tra i taccuini di Serge e il diario ultimo di Pierre Naville (Ricordi e pensieri. L'ultimo quaderno. 1988-1993), scoperto dieci anni dopo la sua morte e che ho avuto l'onore di pubblicare nel 2010 insieme a Maurice Nadeau. In entrambi si vola molto alto e non a caso Naville (ricordato nei Carnets) ha condiviso con Serge esperienze politiche e formazione ideologica.
Torniamo dunque a quel 17 aprile del 2013… Non era una notte buia e tempestosa, bensì una deliziosa giornata primaverile nel
quartiere di Coyoacán, dov'ero ospite dell'amico Claudio Albertani (presente nel catalogo della Massari editore e co-curatore di questi Carnets). Basti dire che la sera prima avevamo cenato con Esteban Volkov (el Nieto [nipote] di Trotsky) e che al mattino avevo compiuto il secondo pellegrinaggio della mia vita nell'indimenticabile casa fortilizio della calle Viena, attuale Casa-Museo del «Vecchio». Insomma, mi si passi il termine, per uno come me equivale a dire che ero in grazia di Dio…
Claudio mi parlò di questa sua coedizione dei Carnets e mi donò copia del librone. Ma rimasi un po' freddino. Anni prima, infatti, avevo letto l'unica edizione disponibile dei Carnets (Actes Sud, Arles 1985), contenente poco più di un terzo dei materiali qui raccolti, niente note né indice dei nomi né indicazione del curatore. Furono forse la discontinuità di quella narrazione o la sua scarsa leggibilità: resta il fatto che il testo mi aveva lasciato abbastanza indifferente. Aggiungo che per chissà quale meandro della ragione (o sragione) editoriale, vi era stata posta una lunga prefazione di Régis Debray: sì,
proprio lo stesso Debray che nel 1967, nel suo testo universalmente più noto (Rivoluzione nella rivoluzione?), aveva inserito attacchi diffamatori irreali e non-documentati contro il trotskismo (latinoamericano), allo scopo di far piacere a chi gli aveva commissionato quel tragico libretto. Non risulta che l'ex allievo di Althusser abbia mai ritrattato quell'attacco e anche ciò spiega il mio disagio.
Di quell'edizione parlano i curatori. Dirò solo che il libro cominciai a leggerlo all'aeroporto di Città del Messico, proseguii nel volo transoceanico e non lo lasciai sino alla fine. Ero sinceramente affascinato! Capii di avere tra le mani un capolavoro letterario del Novecento, degno seguito delle già meravigliose Memorie di un rivoluzionario da me curate. Non avrei avuto pace finché non lo avessi pubblicato a mia volta. Ora sono in pace, fino alla prossima…
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