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giovedì 9 ottobre 2014

IL PARADIGMA NEL SINISTRESE, di Roberto Massari

«Ehi! Sei a bravo a fare della psicoanalisi!»
«Non è psicoanalisi, ma paradigma cognitivo-comportamentale»
Carissimo,
giorni fa avevo cominciato a scrivere un testo per ridicolizzare l’impiego così alla moda del termine «paradigma» e dell’aggettivo «paradigmatico» - che, se possibile, trovo ancor peggiore.
Mi aveva stimolato la recente lettura di alcuni libri e di articoli pubblicati in alcuni siti dove il vezzo si annida in modo particolare. Ma in realtà sono state solo gocce che hanno fatto traboccare il vaso: da un bel po’ di tempo, infatti, non ne potevo più di questa ennesima ridicolaggine, di questo ennesimo sotterfugio linguistico che ormai spadroneggia all’interno del sinistrese. La sua funzione di riempitivo conformistico e di palliativo rassicurante per un mondo di pseudointellettuali privi di una salda formazione teorica (e linguistica) è molto evidente. E l’insicurezza di chi impiega il termine è pari al tono intimidatorio con cui esso viene pronunciato o al tono di ammiccante complicità con cui viene scritto («Tu ed io sappiamo cosa intendo dire, vero?»).
Ma sbalordisce, ancora una volta, il fatto che chi si riempie la bocca col «paradigma» sembra molto fiero di farlo. A volte dà l’impressione di considerarsi il primo o uno tra gli eletti che sono in grado di ricorrervi, dimentico di tutti gli altri termini più o meno astrusi arrivati e passati di moda nel sinistrese, venerati e diffusi a man larga dai precedenti greggi di pseudointellettuali o aspiranti tali.
Probabilmente dovrò tornarvi sopra, ma per ora mi son dovuto fermare quando mi sono reso conto che rischiavo di andare oltre la presa in giro e lo sfogo (le uniche cose che in quel momento mi stavano a cuore).
In realtà, per proseguire avrei dovuto distinguere nettamente l’impiego del termine in sinistrese da parte di chi è affascinato dall’aspetto fonetico - se lo reciti ad alta voce, ti accorgi che riempie la bocca alla grande e per ben due volte, mentre ancor più impressionante foneticamente è l’esasillabo «pà-ra-dig-mà-ti-co» - rispetto a chi invece gli ha attribuito altri significati all’interno della comunità filosofico-scientifica (Thomas Kuhn in primo luogo e in epoca moderna, ma in formulazione teorica almeno del 1962 - La struttura delle rivoluzioni scientifiche - dove s’intende per paradigma «una costellazione che comprende globalmente leggi, teorie, applicazioni e strumenti e che fornisce un modello che dà origine a una particolare tradizione di ricerca scientifica dotata di una sua coerenza»).
Devo dire, però, che anche in tale comunità faticano a mettersi d’accordo sul significato da attribuirgli in campo scientifico, a seconda degli autori: prototipo? un certo tipo di modello? oggetto di confronto, riferimento o esempio? complesso di regole metodologiche? l’insieme di una tradizione disciplinare (ma in una ben determinata disciplina scientifica)? un risultato scientifico con premesse e conclusioni universalmente riconosciute sia pure in via temporanea? (di qui la frequenza con cui le singole scienze alludono al famigerato «cambio paradigmatico»); modello sperimentale condiviso e distinto dal metodo scientifico vero e proprio? e via discorrendo e… complicando molto artificialmente.
Andrebbe aggiunto, poi, un significato particolare che il paradigma ha nella linguistica.
Non potevo prendermela, quindi, con la discussione che nella comunità scientifica le idee di Kuhn hanno originato e ho preferito lasciar perdere la polemica con i lillipuziani di casa italiota. Ciò non significa, però, che l’uso del termine non continui ad essere ridicolo o indice di presunzione, giacché per la cara vecchia lingua italiana il paradigma è solo lo schema di declinazione dei nomi o di coniugazione dei verbi: è questo l’unico significato e uso linguistico che una persona normale come me è obbligata ad accettare, anche se nella mia veste di editore sono costretto a pubblicare libri che invece utilizzano abusivamente il termine, con autori che strizzano l’occhio a far intendere che loro sì sanno parlare il manzoniano latinorum...
L’impiego del termine in politica, in campo sindacale, movimentistico ecc. - ma anche marxista o vagamente sociologico - è totalmente fasullo. Nessuno sa bene di cosa sta parlando quando lo impiega in simili contesti e tra chi legge o ascolta nessuno è obbligato ad accettarne il significato che il singolo gli sta dando. Tra coloro che lo usano ci sarà pure qualcuno familiare con le teorie di Kuhn (ma ciò non lo giustifica per l’uso arbitrario o la volgarizzazione extrascientifica che ne sta facendo, fosse anche il fantasma di Kuhn in persona). Ma la verità è che i più non sanno nemmeno da dove origini il termine e chi sia stato questo Kuhn. L’hanno sentito in bocca a qualche bonzo sindacale, a capetti di gruppi politici o a intellettuali molto in - cioè buoni per tutte le stagioni - e tanto basta.
Con «globalizzazione» era accaduto qualcosa di simile e anche in quel caso si arrivò a una situazione in cui non se ne poteva proprio più. Ma la distinzione tra uso comune-volgare e uso «scientifico» era meno netta perché bene o male s’intuiva che cosa uno volesse dire (anche se per noi marxisti era solo un sinonimo - di cose dette e ridette da tutti i Padri e soprattutto dalla più celebre Madre del marxismo - colto ovviamente nel suo sviluppo… storico-dialettico. Ahi!).
Qui no. Qui c’è di mezzo il salto dalla semantica lessicale italiana (con uso certo) alle moderne teorie della scienza (paradossalmente di uso incerto), con un vuoto mentale che non viene riempito dal cicaleccio presuntuoso dei marxoidi, postmarxoidi, negriani, žižekiani, poveri diavoli ecc. La verità è che usando il termine fuori luogo si sta prendendo in giro Kuhn, la filosofia della scienza e il tentativo di intendersi tra comunità di scienziati operanti in discipline diverse: magari saranno ridicoli anche tutti costoro (non è da escludere), ma sarai d’accordo che i due campi del ridicolo sono incommensurabili, in primo luogo sul piano delle intenzioni, che ci riporta come sempre al piano etico destinato a rivelarsi fondamentale anche sul piano linguistico.
Un caro saluto àntipàradigmàtico (ottosillabico)
Roberto [Massari]
(27/9/2014)


Caro Roberto,
quando ero all’università in effetti mi son dovuto sorbire enormi clisteri di epistemologia, complessità, postmoderno, catastrofismi ecc. Non so adesso, ma allora l’epistemologia imperava come mai prima: tentativo di rimediare al crollo della fede, penso. Sono perfettamente d’accordo con te. Tra l’altro, in un saggio di non ricordo chi, c’è un elenco di diverse modalità d’impiego del termine «paradigma» da parte dello stesso Kuhn.
Non mi pare d’aver mai impiegato il termine anche perché, quali che ne siano i meriti relativamente al falsificazionismo di Popper, non mi ha convinto. Se proprio dovessi, userei il concetto di «programma di lavoro» di Imre Lakatos, che trovo più consapevolmente elastico e aderente alla realtà della ricerca scientifica. E non solo scientifica.
Se proprio si volesse adottare un termine di paragone a portata di mano, quel che facciamo come Utopia Rossa potrebbe descriversi in termini lakatosiani: un gruppo di «teorie» di origine differente che però condivide un nucleo comune da sviluppare. E sarebbe un programma di ricerca progressivo, perché rende conto di un maggior numero di anomalie.
Però mi viene da sorridere o ridere.
Comunque, per rafforzare la tua critica: chi parla positivamente di un «nuovo paradigma» forse non si rende conto di quel che implica. Il paradigma di Kuhn è proprio della «scienza normale» dopo la «rivoluzione scientifica». Il lavoro della scienza normale sulla base di un paradigma implica una buona dose di normalizzazione, dogmatismo, fideismo. Ci si affida al paradigma, insomma, fino al seguente sconquasso. Anche ammettendo che nelle scienze sociali o in politica esistano i paradigmi nel senso più rigoroso (di sicuro più paradigmi in concorrenza, non uno), allora bisognerebbe combattere la mentalità che porta alla fideistica ed entusiastica adesione a un paradigma.
Esiste un paradigma marxiano o marxista? Non direi. E con Henri Lefebvre me la sento di dire che nell’ismo di marxismo c’è già il dogmatismo.
Potrei dirti qualcosa di più, ma sono ancora fuori casa e non ho accesso ai libri pertinenti. Ci vediamo presto,
Michele [Nobile]

(28.9.2014)

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