Erdoğan, il neo-ottomano
In un primo momento Ankara si era rifiutata di partecipare
alla coalizione di Obama, pur fornendo assistenza logistica e uso delle basi
aeree. In seguito, dietro pressioni statunitensi, il governo turco (cioè Erdoğan)
si è fatto autorizzare dal Parlamento per l’utilizzo, se necessario, di truppe
in Iraq e Siria. Cosa sgraditissima sia alle opposizioni turche (di recente in
un’intervista al quotidiano Hürriyet
il leader del partito kemalista, Kiliçdaroğlu, si è espresso in tal senso) sia
ai governi di Damasco e di Teheran, trattandosi di aggressione, per mancanza di
accordi con Siria e Iraq. Quindi, un governo che finora ha fornito ai jihadisti
supporto logistico, rifornimenti, assistenza sanitaria sul suolo turco e che
consente loro di contrabbandare attraverso la Turchia petrolio siriano a prezzi
stracciati (dai 25 ai 60 $ al barile, invece dei circa 100 del prezzo di
mercato), è sembrato scendere sul piede di guerra contro i suoi stessi
assistiti. Paradossi orientali? Non è detto.
L’intervento turco finora si è limitato alla passiva esibizione di carri armati e di circa 10.000 soldati alla frontiera con la
Siria, nonché all’attivissima repressione dei curdi desiderosi di unirsi ai peshmerga che resistono a Kobane, poco aiutati dalla stessa coalizione contro l’Isis - malamente combinata da Obama (con Arabia Saudita ed Emirati Arabi anch’essi noti foraggiatori dei jihadisti che Washington dice di combattere).
Ankara non vuole, ma se volesse dare una mano ai difensori
di Kobane, potrebbe farlo senza che un solo soldato turco calchi il suolo
siriano. Dal momento che questa città è praticamente sul confine, si potrebbero
martellare con l’artiglieria le postazioni dell’Isis. Ma aiutare dei curdi non
rientra nei progetti di Erdoğan.
Se la posizione della Turchia nella coalizione
internazionale è più che mai ambigua, invece chiarissimi sono i giochi
strategici. Innanzitutto, in ordine alla fase attuale, si potrebbe sospettare che
il recente lapsus (?) di Obama sull’esigenza di abbandonare ormai l’assetto
dato al Vicino Oriente dai patti anglo-francesi del 1916 abbia accentuato gli
appetiti neo-ottomani del Presidente turco. Ma figuriamoci se Washington
darebbe una mano!
Traduciamo: Erdoğan - già distintosi nell’eliminazione di numerosi
cardini della costruzione repubblicana di Kemal Atatürk, tra cui quelli
importantissimi di non immischiarsi nelle questioni politiche dei paesi vicini
e di contentarsi (sia pure masticando amaro) degli attuali confini della
Turchia - con tutta probabilità nutre l’intenzione di sfruttare il presente
caos nella regione (attivato da altri islamisti da cui è ideologicamente meno
lontano di quanto appaia) per espandere il territorio turco a spese di Siria e
Iraq.
Riguardo al primo di questi due paesi, sullo sfondo c’è
sempre la questione dell’ex sangiaccato di Alessandretta (Iskandarun), dopo la
fine dell’Impero ottomano assegnato alla Siria e non alla Turchia; per l’Iraq
ricordiamo che Ankara non ha mai metabolizzato la perdita di Mosul (zona
petrolifera), oggi - coincidenza? - nelle mani dell’Isis.
Rispetto alla Siria, l’avvento al potere di Erdoğan ha
sensibilmente mutato lo stato dei rapporti fra Ankara e Damasco, nel senso di
un sensibile peggioramento. Già verso la fine dello scorso secolo c’era stato
un rischio di guerra fra Turchia e Siria a causa del rifugio dato da Damasco al
leader del Pkk curdo di Turchia, Abdallah Öcalan. Iniziata poi la crisi siriana, con Erdoğan al potere
dal 2003, Ankara si è subito impegnata a fianco dei ribelli anti-Assad,
jihadisti inclusi; e non solo contro il regime di Damasco, ma anche contro i
Curdi siriani.
Infatti, nel corso della guerra in Siria, i Curdi della
parte settentrionale del paese (quella oggi sotto attacco dell’Isis) sembrano riusciti
a ritagliarsi un’autonomia di fatto. Cosicché Erdoğan, pur avendo in precedenza
pragmaticamente utilizzato l’autonomia del Kurdistan iracheno a vantaggio
dell’economia turca, si è trovato nella spiacevole situazione di dover
fronteggiare la virtuale possibilità di uno stretto collegamento fra Kurdistan
siriano e Kurdistan iracheno, che ovviamente incrementerebbe le velleità della
mai sopita guerriglia del Pkk nel Kurdistan turco. Non c’è quindi da stupirsi
dell’inerzia alla frontiera con Kobane: di fatto l’Isis sta facendo della
pulizia etnica a vantaggio di Erdoğan e dei nazionalisti turchi.
Tornando alla Siria, è significativo che Erdoğan, dopo aver detto di voler fare parte della coalizione di Obama, abbia escogitato la
condizione dell’estensione delle operazioni militari anche contro Assad, il
cui esercito sta collezionando successi sul campo di battaglia. Inutile
sottolineare che se a Washington si accettasse ciò, si colpirebbe in modo
mortale il vero baluardo militare (ma anche politico, visto il consenso
popolare che ancora ha Assad) contro il jihadismo in Siria. Ma le
implicazioni sarebbero ancora più ampie.
Le interazioni implicate dal progetto di Erdoğan
L’ambigua partecipazione turca alla coalizione anti-Isis è stata vivamente sollecitata da Washington, dove ancora una volta non si è capita (o addirittura non si conosce) la persistente complessità storica di Vicino e Medio Oriente. A causa di essa, la scelta delle alleanze operative non va effettuata in base al solo criterio della forza militare del partner che si voglia coinvolgere in un’azione (e la Turchia è militarmente di tutto rispetto), ma anche e soprattutto al criterio dei disastri politici provocabili da questo partner a motivo delle sue ambizioni e dei timori o sospetti suscitabili nel resto dell’area. Disastri politici poi facilmente coniugabili con disastri militari.
Il neo-ottomanismo di Erdoğan punta palesemente a fare della
Turchia il faro di riferimento del mondo islamico sunnita. Ambizione che
Atatürk avrebbe condannato senza appello, ma che per un leader islamista trova
giustificazione nell’essere oggi la Turchia nell’area - a motivo dei differenti, ma gravi, problemi di
Siria ed Egitto - la sola effettiva potenza regionale sunnita. L’altra potenza
regionale, l’Iran, è sciita, quindi ha un’area di riferimento esterno limitata.
Ma anche Erdoğan ha le sue confusioni: è infatti erroneo
pensare che potere militare ed economico portino con sé consenso politico,
tanto più se l’identità etnica riferibile a un passato in fondo non
lontanissimo insieme a certe scelte ideologiche inducono - quanto meno - alla
diffidenza.
Non è detto per niente che i paesi di lingua araba - per
quanto sunniti, ma presso i quali nella memoria storia popolare ancora pesa il
ricordo del dispotismo ottomano (che non era di matrice araba) siano disposti ad accettare oggi l’egemonia turca.
Questo vale dal Marocco all’Egitto e dal Levante all’Iraq.
Vi è poi un altro fattore: i palesi legami fra Erdoğan e la Fratellanza
Musulmana, la quale non riscuote simpatie presso nessun governo arabo (forse
Tunisia a parte) ed è nemica, ricambiata, delle monarchie arabe (del Golfo,
della Giordania e dell’Arabia Saudita, tanto che di recente è stata espulsa
anche dal Qatar su pressioni saudite). La ragionevolezza derivante dalla
conoscenza del mondo islamico (che però a Washington è pressoché inesistente) avrebbe
consigliato e consiglierebbe di non coinvolgere il governo islamista di Ankara
contro l’Isis; tanto più che alle virtuali complicazioni testé accennate - con
le quali sarebbero gli Usa a dover fare i conti - può aggiungersi la
sostanziale inaffidabilità attuale del partner turco, troppo propenso ad andare
per i fatti propri.
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