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sabato 6 settembre 2014

NELLA CRISI UCRAINA NON TIFIAMO PER NESSUNO DEGLI IMPERIALISMI, di Pier Francesco Zarcone

L’attuale situazione ucraina viene in genere affrontata con atteggiamenti degni di opposte tifoserie, parteggiando acriticamente per l’una o l’altra delle parti in causa, attribuendo in modo netto ragioni e torti, ma col risultato di trascurare la complessità in gioco. I media borghesi e quelli (residuali) di certe sinistre hanno stabilito subito i ruoli, come se si trattasse del copione manicheo di un film western: per i primi, Putin e i filorussi dell’Ucraina orientale sono i cattivi, e vanno biasimati senza appello quanti osino sostenere il contrario; per i secondi, la valutazione s’inverte, e i cattivi sono Usa, Ue, Nato e il governo di Kiev con i suoi sostenitori. In questo modo sfuggono gli opposti interessi geostrategici implicati in questa crisi.
Nella nostra vicenda sono portatori di contrapposti interessi di potere sia il gruppo “occidentale” (governo di Kiev incluso, ovviamente) sia la Russia, e ciascuno di costoro va svolgendo manovre tranquillamente definibili di tipo imperialistico.

Il ruolo dell’Occidente (la Nato)
Rimangiandosi ben presto le assicurazioni (prive di qualunque garanzia) date da Washington dopo l’implosione dell’Urss circa il non aver intenzione di estendere l’area della Nato fino ai confini russi, è un dato di fatto che Usa e Nato – con la solita acquiescenza e complicità della Ue – stanno da tempo realizzando proprio questo progetto, di cui le scelte del governo di Kiev rappresentano (per ora) l’ultimo atto. Fino a ieri qualcuno aveva anche ipotizzato che un’ulteriore fase probabilmente sarebbe consistita nell’utilizzare il radicalismo islamico per destabilizzare dall’interno certe zone russe a forte presenta musulmana; ma con tutta probabilità un tale progetto (se esiste) rimarrà in qualche cassetto, vista l’aria che tira oggi con la barbarie dell’Isis in Siria e Iraq, ormai a danno pure di cittadini statunitensi (la cui vita per gli Usa gode di una preziosità non riconosciuta agli altri esseri umani).  

La rinvigorita sopravvivenza della Nato e le sue politiche dovrebbero avere ormai tolto ogni mascheratura al suo carattere strutturale di stumento dell’imperialismo statunitense, e al fatto che la perdurante e indiscussa partecipazione di tanti paesi europei oggi più che mai espone questi ultimi alle conseguenze di scelte eterodirette, come al solito prive di qualsiasi consenso democratico da parte delle popolazioni coinvolte. Tant’è che in merito alla questione ucraina la Ue si trova del tutto appiattita sulle posizioni e interessi degli Stati Uniti.
Ma porre l’accento sul carattere imperialistico, reazionario e strumentale della Nato non esaurisce certo il discorso su questa organizzazione politico-militare, giacché coinvolge il più ampio problema, per la Ue, della congruenza-convenienza del suo appiattimento sulla politica di Washington. Sappiamo benissimo che la Ue non è per nulla un’istituzione democratica, ed è anche espressione di interessi economici di vari settori del capitalismo europeo, tutt’altro che privi  di proiezioni imperialistiche. Il problema è che non si tratta per niente di interessi collimanti con quelli del capitalismo nordamericano: sotto varie angolature sono apertamente divergenti. Proprio per questo, dopo il venir meno del “pericolo sovietico”, il loro pragmatico perseguimento implicherebbe il netto distacco dalla politica di Washington, tra cui l’uscita dal cappio della Nato.   
In definitiva, se si volesse davvero costruire la tanto proclamata (a parole) unità europea, una delle sue basi dovrebbe essere la più ampia indipendenza anche e soprattutto dagli Stati Uniti e quindi dalla Nato. Tant’è vero che a Washington ci si continua a porre verso l’Europa con la disinvolta e arrogante interferenza di sempre, spesso nei termini di quella “sovranità limitata” che tanto fu deprecata a carico dell’Unione Sovietica. Come del resto avviene nel caso dell’Ucraina.

L’Ucraina: ex anticamera geopolitica della Federazione Russa


In quell’anticamera geopolitica della Federazione Russa che era un tempo l’Ucraina, l’azione statunitense ha aiutato la presa del potere da parte di gruppi politici (con inerenti collegamenti economici) senz’altro definibili di destra. Al loro interno vi sono anche componenti di destra radicale, che fanno leva su malumori reali e sul malessere di una fragile compagine statale nata più da velleità nazionalistiche (a giudizio di chi scrive) che non da esigenze storiche geopolitiche. In casi del genere – quando cioè si accorpano “diavolo e acqua santa” – la precaria costruzione regge (por la razón o la fuerza) solo se inserita in una più ampia e solida compagine multinazionale, operante come realtà centripeta; quando essa però crolla, allora le forze centrifughe riprendono ad agire, e con maggior vigore se alimentate dall’esterno.
Staccatasi dalla defunta Urss, l’Ucraina – dopo una non-metabolizzata storia di separazione delle regioni che la componevano (non importa che sia trascorso solo quasi un secolo) e dei conflitti tra le potenze che in precedenza le inglobavano – si è trovata nel mezzo di due nuove contrapposizioni; cioè fra l’espansionismo occidentale verso Est e il rinnovato espansionismo (verso Ovest, verso il Vicino e Medio Oriente e verso l’Asia) della Russia putiniana, intenzionata a recuperare i disastri dell’epoca di Eltsin. Le classi politiche dell’Ucraina in teoria avrebbero dovuto impegnarsi davvero nel difendere un’indipendenza resa fragile dalla sua collocazione geopolitica, dalla situazione internazionale e dalle differenze interne sfruttabili da Ovest come da Est. Stando così le cose, sarebbe stato più che opportuno evitare con accuratezza le scelte di campo, optare per una serie di accordi internazionali che ponessero il paese in una sorta di “finlandizzazione” e cercare di ricavarne il massimo dei vantaggi sia pure ricorrendo a equilibrismi, quand’anche non sempre facili.
Questo non è accaduto, anzi. La malaccorta mossa dell’ex presidente Janukovyč, consistente nell’aprire il paese alla Ue senza previ accordi con la Russia per rassicurarla, e il successivo rimangiarsi l’iniziativa dopo l’alto là di Putin, hanno innescato una crisi profonda. Questa è stata abilmente sfruttata dall’imperialismo occidentale con la strumentalizzazione delle destre locali e facendo apparire il nuovo rapporto con la Ue come la panacea di tutti i mali del paese, come se l’Europa capitalistica fosse il regno di bengodi.      
Successivamente il nuovo governo di Kiev, assumendo una posizione nettamente anti-russa, ha compiuto le scelte programmate dai suoi mèntori esterni, ed ha cercato subito rifugio tra le accoglienti braccia dell’Occidente. Una scelta autocratica che non poteva non suscitare le prevedibilissime reazioni (ovviamente strumentalizzate e foraggiate da Mosca) nell’Ucraina orientale, storicamente legata alla Russia per lingua, religione e cultura, spaccando così la precaria unità dell’Ucraina indipendente. Era ovvio che la parte russofona e/o filorussa del paese si sarebbe ribellata; e altrettanto ovvio era che Mosca si sarebbe subito inserita nella crisi, essendo evidente la minaccia inerente alle scelte di Kiev - in tal modo, comportandosi né piú e né meno come gli Stati Uniti in America latina (talché l’indignazione subito espressa da Washington è solo un’ennesima manifestazione di ipocrisia).

L’autodeterminazione del popolo ucraino è mancata
fosse la posizione del complesso della popolazione circa tale scelta di Kiev non è dato saperlo, giacché i nuovi governanti hanno operato senza aver consultato il proprio popolo, con ciò qualificandosi vieppiù come strumenti dei programmi statunitensi, con la Ue passivamente e prontamente accodatasi. Già le cose avrebbero avuto una maggiore dignità se sul versante occidentale ci fosse stata solo la Ue, con gli Stati Uniti del tutto estranei. Ma è irrealistico solo ipotizzarlo.   
L’autodeterminazione del popolo ucraino è mancata. C’è da chiedersi, tuttavia, cosa sarebbe accaduto se si fosse potuta esprimere liberamente. Una crisi ci sarebbe stata comunque; e non è detto che le armi sarebbero rimaste in silenzio, giacché nemmeno un referendum sulla scelta di campo sarebbe rimasto immune dalle ingerenze sia occidentali sia di Mosca, facilitate dal grado di divaricazione interno dell’Ucraina.
Il concetto di autodeterminazione ha un suo oggettivo fascino sentimentale, ma i problemi emergono quando lo si voglia concretizzare. Innanzi tutto in politica internazionale il rispetto per le autodeterminazioni non è mai assoluto, scattando la mistificazione ideologica sulla “intangibilità dei confini”; ma d’altro canto essa pure non è assoluta: tutto dipende dagli interessi delle grandi potenze in ordine alle singole richieste di autodeterminazione; si pensi alla posizione negativa della Ue circa l’ipotesi di indipendenza della Scozia e della Catalogna, a fronte del plauso e dell’appoggio concreto a quelle di Slovenia, Croazia, Bosnia e Montenegro.    

Il ruolo russo
Una delle costanti della politica estera zarista prima, sovietica poi, e oggi della Federazione Russa consiste nella sindrome da accerchiamento. Lo scopo fondamentale dell’area di egemonia politico-territoriale conseguita da Stalin nell’Europa orientale con la Seconda guerra mondiale era proprio di allontanare il più possibile i paesi potenzialmente nemici dai confini dell’Unione Sovietica. Con il crollo dell’Urss, invece, Mosca si è trovata l’Occidente (tutt’altro che amico) molto vicino ai propri confini, a parte il velo costituito da Bielorussia e Ucraina, ma col rischio non teorico del fagocitamento almeno di quest’ultima da parte del campo avverso.
Putin ha notoriamente avviato un progetto di recupero della politica di grande potenza da parte della Russia che si inquadra in un vero e proprio progetto imperiale di cui abbiamo già trattato in un precedente articolo (Putin e il fascino dell’idea imperiale. Utopia Rossa del 12 marzo 2013). Inevitabile che Mosca considerasse la caduta di Janukovyč come una minaccia, e il successivo abbraccio di Kiev con l’attuale Ue (e con gli Usa) una pura e semplice anticamera dell’estensione della Nato sino ai confini della Federazione Russa.
Un’altra costante della politica estera moscovita in caso di minaccia va trovata nella reazione a dir poco “disinvolta” riguardo al diritto internazionale, come del resto è tipico delle grandi potenze. All’ingerenza di Washington e dei suoi sodali europei Mosca ha risposto giocando la disponibile carta dell’attivazione delle popolazioni filorusse dell’Ucraina orientale, oltre a riprendersi la Crimea inopinatamente regalata da Chruščëv alla Republica Socialista Sovietica d’Ucraina.    
La reazione russa può indignare, ma è la pura e semplice trasposizione in àmbito politico del principio della fisica in base al quale a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Non è la prima volta che Putin opera nel senso di favorire o appoggiare la costituzione di piccole entità secessionistiche perché fungano da mini-tampone dei confini russi in punti strategicamente delicati; ora accade nell’Ucraina orientale grazie alla popolazione russofona. Dal proprio punto di vista Putin si muove per contenere i danni di una minaccia in itinere; nessun dubbio sul trattarsi di attività formalmente aggressiva nei confronti dello Stato ucraino, solo che nell’ottica di Putin essa ha un carattere difensivo, tanto più che la non improbabile adesione ucraina alla Nato potrebbe comportare, stante la dipendenza del governo di Kiev dagli Usa, anche la partecipazione ucraina al progetto di Scudo Spaziale Europeo. E non è escluso – a seconda di come andranno a finire le cose – che Putin, sempre nella stessa ottica, possa puntare a riprendere alla Russia anche lo strategico porto di Odessa.

Quali previsioni possibili?
A motivo della complessità e della pericolosità della situazione sarebbe consigliabile non sbilanciarsi. Tuttavia cinque ipotesi alternative possono essere abbozzate.
Uno scenario di tipo balcanico è già in essere, e non è detto che la recente tregua d’armi regga; d’altro canto le tregue sarebbero per definizione temporanee; usiamo il condizionale poiché a volte durano assai, con la conseguenza però di realizzare situazioni di stallo che non sono né pace né guerra e fanno rimanere tutto irrisolto.
Sulla sostanza della questione non pare che dal fronte diplomatico, almeno in prospettiva, ci sia molto da aspettarsi (e su di esso si basa la seconda ipotesi teorica): infatti Usa e Ue puntano chiaramente a mantenere in sella la nuova dirigenza di Kiev, e questo non fa prevedere che essa (ultranazionalista, con la presenza di fazioni di estrema destra e ultradipendente dagli Usa) traghetti l’Ucraina su una posizione di equidistanza fra l’Occidente e Mosca tale da salvaguardare unità e indipendenza del paese. L’interesse di Putin è di segno del tutto contrario. A Kiev, comunque, non sembra esserci un’aria propizia alla concessione delle necessarie solide garanzie sia alle popolazioni dell’Ucraina orientale sia alla Russia. Tanto più che a tale fine sarebbe necessario mettere previamente in condizioni di non nuocere davvero l’estremismo destrorso, pilastro dell’attuale governo.
L’ulteriore ipotesi sarebbe l’attribuzione di una forte autonomia alle regioni orientali; a parte il valere per essa dell’ultima considerazione dianzi fatta, in questo modo resterebbe irrisolta la questione di fondo della collocazione politica e strategica dell’Ucraina, che interessa sia Mosca sia l’Occidente. Comunque non va del tutto esclusa.
Al momento attuale, poi, scarsa concretizzabilità presenta (a prescindere dalla sua ragionevolezza) la separazione morbida alla maniera cecoslovacca del 1993; ma quand’anche Kiev la accettasse in linea di principio, sorgerebbe subito un problema suscettibile di generare nuovi contrasti, forse non meno virulenti: come tracciare una linea di frontiera accettabile dalle parti. Tuttavia, non sembra proprio che Usa e Ue gradirebbero la divisione dell’Ucraina; forse per la Russia si tratterebbe del male minore qualora l’attuale governo ucraino (cioè la classe politica che l’appoggia) mantenesse il potere. Non è necessario entrare nella testa di Putin per capire che per lui un’Ucraina unita e non ostile sarebbe di gran lunga preferibile, per una serie di motivi politici, economici e militari.
Per finire, è sempre incombente il cosiddetto scenario georgiano, vale a dire la diretta partecipazione russa al conflitto, previo riconoscimento dell’indipendenza dell’Ucraina orientale da parte di Mosca. Tuttavia anche questa ipotesi lasca perplessi poiché la rilevanza dell’Ucraina è ben maggiore di quella della piccola Georgia e un intervento militare russo diretto provocherebbe reazioni che è meglio non immaginare, quand’anche in teoria la presenza di truppe russe nella regione contesa – certamente su “spontanea” richiesta di un governo secessionista in precedenza riconosciuto da  Mosca – metterebbe Putin, estremo azzardo a parte, in una posizione di evidente vantaggio per poi negoziare.
Staremo a vedere. Intanto l’Ucraina è in fase di guerra civile e resta un paese economicamente disastratissimo e molto vicino alla bancarotta, con classi politiche deboli, corrotte e in vario modo eterodipendenti. Non vi è veramente ragione per schierarsi da una parte o l’altra dei contendenti, entrambi avversari decisi del diritto all’autodeterminazione del popolo ucraino: un diritto calpestato nel corso di una lunga tradizione storica.

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