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giovedì 4 settembre 2014

I «DA SOLI IDEOLOGICI», di Roberto Massari

Il testo che pubblichiamo è la rielaborazione di una lettera di Massari a Pier Francesco Zarcone del gennaio 2010. [la Redazione]

Quelli che né la Quinta internazionale, né la Quarta… mai niente di collettivo
Nella recente discussione sulla Quinta internazionale (rivitalizzata nel 2010 dalla proposta di Chávez, ma da me iniziata fin dal 1983) ci sono stati commenti contrari, a favore, ironici e arricchimenti della problematica. Si sono pronunciati tra gli altri organismi come il Segretariato Unificato della Quarta o il Fmln del Salvador, e mi sembra quindi di poter dire che il tema comincia ad esser preso sul serio: spero che il futuro rafforzi tale tendenza.
Esiste però una categoria di «critici» dell'idea di Quinta internazionale composta da singoli individui, a volte dotati di una buona preparazione teorica, che non hanno mai aderito a nulla o quasi nulla nella loro vita, e comunque non ad organizzazioni internazionali, né probabilmente mai vi aderiranno. Sono quelli che io chiamo da tempo i «da soli ideologici», e a loro voglio dedicare questa mia riflessione.
Una riflessione che originariamente prese avvio dalla lettura di un articolo di Octavio Alberola1. Mi colpì in quell'occasione il modo sbrigativo con cui si liquidava quasi un secolo di lotte ed esperienze del movimento operaio, rivoluzionario o semplicemente antimperialistico, infilando nello stesso sacco Trotsky, Lenin, Castro, Chávez e addirittura il povero Chomsky.
Se mi mettessi anch'io a scrivere analisi degli errori di Lenin, Trotsky, Malatesta, Berneri, Nin, Ben Bella, Guevara, Malcolm X, Naville, Mandel, Guérin, Chomsky ecc., avrei certamente lavoro sufficiente per i prossimi dieci anni. In realtà, poiché questo lavoro critico lo faccio sistematicamente almeno dal 1968, direi che posso anche permettermi di andare avanti in maniera propositiva guardando al futuro. Lo faccio conservando molti dubbi e acquisendo prudenza. Sono però felice di non doverlo fare da solo, essendo membro attivo di una comunità politica (Utopia Rossa) che, per quanto piccola, ha una tradizione storica, un forte patrimonio teorico, una composizione internazionale.
È vero, però, che se mi fossi limitato a criticare questo o quel personaggio politico, pur dando un contributo allo studio della storia delle idee, non avrei aggiunto neanche una goccia al grande oceano dell'umanità in lotta contro la proprietà privata dei principali mezzi di produzione. E ciò per la semplice ragione che sarebbe sempre mancata la mediazione politica (il passaggio operativo) dalle armi della critica alla critica delle armi.

Pensatori «non-responsabili» di alcunché
Al singolo individuo - intellettuale o non - finisce sempre col rispondere un altro individuo, che a sua volta susciterà la reazione di altri individui e così via, in quell'incessante proliferazione di «pensatori» che non definisco «liberi», ma «ir-responsabili», cioè non-responsabili di alcunché.
Questi pensatori ir-responsabili, slegati da organismi nazionali o internazionali dotati di visibilità, e per questo estranei anche intellettualmente ai principali movimenti sociali o politici della loro o della nostra epoca, sono praticamente inattaccabili e incriticabili. Loro invece sanno sempre trovare il qualcosa che non va in un determinato movimento o in una determinata struttura politica che giustifichi il fatto che non ne abbiano mai voluto far parte e che non lo faranno nemmeno nel futuro prossimo. Nel futuro remoto sono invece ultradisponibili a far parte del grande esercito rivoluzionario «per il socialismo», «per la democrazia di massa» e altri miti. Un tempo li chiamavo «quelli del giorno del mitra»… Ora non mi pare più il caso.
Questo genere di persone ha una maestria unica nel porre enfasi sulle colpe, i limiti, gli errori ecc. della personalità politica di turno. Colpe, limiti ed errori che potrebbero anche esser veri (se il criticone ideologico ha una buona strumentazione teorica, come a volte può accadere), ma disonesto è il modo in cui vengono esposti. E la prova di questa disonestà io da tempo l'ho individuata in un fatto semplice, sul quale invito a far attenzione e a usarlo come metro di misura: il criticone «ideologico» (individuo o in gruppetto settario che sia) elenca solo colpe, limiti ed errori. Non lo senti mai, ma proprio mai, elencare aspetti positivi nella politica del determinato personaggio che bisogna demonizzare. Sembra quasi che gli eventuali aspetti positivi (che ci sono per forza, altrimenti il personaggio in questione non avrebbe un seguito di massa, a differenza del criticone) siano qualcosa di dovuto, siano dati per scontati e comunque non debbano entrare nel bilancio storico dell'esperienza cui ci si riferisce.

Presunzione di parità
Al criticone «ideologico» piace porsi in genere su un terreno alla pari, del tipo: l'articolo o commento che egli scrive in Internet (possibilmente in un blog suo) equivale al discorso che ha fatto o scritto quel determinato Capo di stato, di partito, di movimento, di guerriglia ecc. La presunzione indispensabile è che i due discorsi abbiano la stessa valenza storica, onde potercisi confrontare nello spirito e nella lettera. In fondo - pensa il «da solo ideologico» - le due prese di posizione sono espresse entrambe con parole e non si vede perché trattarle differentemente: non vi sarà, quindi, un confronto di fatti con parole, ma di parole con parole.
A tali condizioni il gioco è riuscito, perché da quel momento diventa un fatto puramente linguistico dimostrare che il criticone ha ragione mentre l'avversario ha torto (magari non è vero, ma lui si darà ugualmente ragione, da solo o in gruppetto).
Si salta così un piccolo dettaglio storicamente concreto, e cioè che mentre il criticone sta parlando a titolo personale, senza responsabilità alcuna, il soggetto oggetto della critica sta parlando a nome di un movimento socio-politico di massa e lo sta facendo davanti a interlocutori mutevoli, condizionato anche dal contesto in cui si trova e dalle possibili conseguenze delle proprie parole. Come dire che queste hanno valenze particolari a seconda dei contesti socio-politici in cui vengono prodotte e in cui vanno a cadere (è l'intuizione elementare di McLuhan). E se si presentano solo i propri convincimenti (avulsi da una reciproca determinazione del contesto storico-sociale in cui l'evento s'inserisce), la procedura di confronto non può nemmeno avviarsi.
Tale procedura, totalmente impari, è del tipo: Individuo-X critica Movimento-Y (o l'esponente/leader di Movimento-Y), mentre Movimento-Y - per la sua stessa natura di movimento - non può criticare Individuo-X. Uno scambio diseguale, in termini di teoria della conoscenza: X critica Y su fatti e su dichiarazioni, mentre Y può criticare X solo su dichiarazioni.
A ciò si aggiunga che Y potrebbe non avvertire la necessità storica di criticare X. Non essendo X di alcuna rilevanza sociale o politica, Y sceglierà la via più economica (sempre in termini politico-sociali) e tenderà a non prenderlo nemmeno in considerazione. Lo «storico» affronto dell'essere ignorato, X lo sublimerà in una conferma della giustezza della propria procedura, nonché delle critiche da lui rivolte. Tutto ciò se lo dovrà dire da solo o nella cerchia degli adepti, ma per una serie di ragioni (analizzabili con gli strumenti della psicopatologia politica) a lui (X) questo riconoscimento minimo può già bastare.
Ai rivoluzionari, invece, non basta affatto perché, alla fine della tenzone, la condizione di stallo in cui versa l'umanità rimane quella di prima - anzi no, perché Y in qualcosa modifica tale condizione. Se in meglio o in peggio resta da stabilire.
Quando critichiamo Trotsky o Malatesta o Guevara, critichiamo delle grandi personalità che perlomeno soggettivamente si possono considerare rivoluzionarie (più o meno o pressappoco). Tutte e tre hanno prodotto teoria a titolo individuale (quindi storicamente sono stati anch'essi dei celebri Individui-X), ma hanno fatto parte di alcuni grandi Movimenti-Y. Sono quindi criticabili sia nella pratica che nella teoria e, finalmente, anche nel rapporto di maggiore o minore coerenza tra le due.
La critica degli Individui-X è invece un atto inutile in termini di trasformazione della realtà politica e sociale. Tali individui, infatti, non incarnano in termini storici alcun patrimonio di idee. (Se dicono di incarnarlo, noi non possiamo verificarlo e non siamo tenuti a farlo.) Non contando nella realtà come esponenti di alcuna mobilitazione sociale o politica rilevante, possono zigzagare come anguille. Possono farlo in continuazione perché nessun movimento organizzato esercita un controllo su di loro. Gli Individui-X autonomi, «ir-responsabili» nel senso che si diceva all'inizio, godono del sommo privilegio di poter cambiare idea quando e come vogliono, non dovendo dimostrare nella realtà la giustezza delle proprie dichiarazioni: oggi dicono una cosa, ma nessun Movimento-Y li può costringere a difenderla domani. Il vantaggio di essere X invece di Y è fondamentalmente questo: l'inafferrabilità del proprio patrimonio di idee, unito alla non-traducibilità di tali idee nella pratica.
L'ex «estrema sinistra» italiana rappresenta l'esempio più vasto e duraturo nel tempo di questa forma moderna di trasformismo ideologico (che, per ironia della sorte, si camuffa in genere dietro il settarismo e lo pseudorigorismo ideologico, spessissimo in un «leninismo da solo»). E ciò sia a causa della miriade di Individui-X prodotti in Italia dalla crisi storica del più importante movimento operaio organizzato «non al potere» che sia esistito al mondo; sia per l'ampiezza, profondità e lunga durata dei Movimenti-Y sorti negli anni '60 e '70 del secolo scorso.

I franchi tiratori ideologici
Veniamo così al problema dei franchi tiratori «ideologici» (vale a dire Individui-X che non si limitano a teorizzare sull'universo mondo, ma pretendono anche d'influire sulle sorti pratiche dei Movimenti-Y). L'Italia ne è piena, il Web straborda.
Sono intellettuali in formazione o di professione, preferibilmente in carriera universitaria, mentre tende a calare la precedente massiccia provenienza giornalistica. A volte da mesi, a volte da anni (i più recidivi da decenni) spiegano nei loro testi quanto di errato vi sia in tutto ciò che li circonda in forma organizzata e cui si guardano bene dall'aderire (e quando aderiscono possiamo esser certi che lo faranno in via temporanea, per dare visibilità alle proprie idee o nuovo slancio alle carriere).
La metafora della «torre d'avorio» - non la purezza pseudosalomonica del Cantico dei Cantici, ma lo spregio altezzoso verso chi cerca di fare politica in forma organizzata (anche se non-partitica) - riuscirebbe ancora a descrivere questi intelletti illuminati se si fosse conservato il pregio dell'avorio, cioè la capacità analitica e visionaria di alcuni grandi del passato. In realtà è rimasta solo la torre, pendente più che mai sotto il peso delle tante sciocchezze dette, delle tante idee o ideologie barattate, delle tante occasioni unitarie e collettive lasciate fuggire.
I franchi tiratori «ideologici» prendono le mosse normalmente dalla demonizzazione degli avversari impegnati organizzativamente (restando sempre inteso che questi ultimi possono aver torto o ragione, e il fatto che in genere abbiano torto costituisce certamente un vantaggio per i demolitori «ideologici»).
Adottano in genere incomprensibili linguaggi elitari (un tempo lo pseudomarxismo si prestava magnificamente alla bisogna; oggi prevale invece il sincretismo fra le varie degenerazioni linguistiche delle principali discipline umanistiche, mentre preme imperiosa alle porte la terminologia informatica e telematica).
Affermano più o meno implicitamente che prima di loro nessuno aveva capito le cose del mondo, a parte i «padri fondatori», e nemmeno tutti. Ma si dichiarano intenzionati ad operare per una ricomposizione unitaria, per l'unità di comunisti, libertari, ecologi, gruppi LGBT/GLBT ecc., purché siano loro stessi il punto di partenza: la Storia inizia dalla loro presa di coscienza.
A volte si pronunciano anche su problemi vari di tattica o strategia. Ma sempre rigorosamente da soli. Sì, da soli o al massimo in coppia. Oggigiorno, comunque, i «da soli» sono molto facilitati da Internet. Hanno i loro siti e i loro blog, nei quali scrivono periodicamente i propri commenti politici; li affidano al Web e così soddisfano le proprie coscienze per quanto riguarda l'internazionalismo e la rivoluzione mondiale. Questa può attendere, e se tarda è soprattutto perché non si dà ascolto a ciò che il «da solo ideologico» sta dicendo da mesi se non da anni.
Col tempo mi sono disegnato mentalmente una tipologia di questo genere di persone, grazie al fatto che nella mia vita politica ne ho conosciute in grandi quantità. Ma non mi azzardo a fornire i ritratti (che corrisponderebbero a nomi e cognomi ben precisi), perché ritengo che sia stato accumulato ancora troppo poco «sapere» nel campo della psicopatologia politica.

In attesa di diagnosi più accurate…
In attesa che studiosi del settore più capaci di me aiutino a tracciare questi ritratti psicologici, qualcosina posso anticiparla in campo ideologico. Il «da solo» prevalente fino a pochi anni fa era in genere un irriducibile leninista o trotskista o bordighista (soprattutto in Italia) o trotsko-bordighista o anarchico-individualista (un tempo anche situazionista). Oppure un ex di queste e di altre correnti storiche dell'anticapitalismo.
Stiamo parlando di una persona che, acquisendo in blocco un determinato pacchetto ideologico (pacchetto la cui validità sarebbe tutta da dimostrare sul piano della storia delle idee, ma il bello delle ideologie preconfezionate è proprio che puoi saltare la fase elaborativa), pensa di disporre di un metro di misura universale per valutare ciò che accade nel mondo: volta a volta si confronta l'evento e si stabilisce in che misura corrisponda ai dettami del leninismo, del trotskismo, del machnovismo, del marxismo-leninismo o del situazionismo, del lacanismo, di un sincretismo di ismi ecc. Se corrisponde, va bene. Altrimenti, come diceva Totò in Miseria e nobiltà, desisti…
Questo genere di «da soli ideologici» è destinato a crescere e diffondersi nella nostra epoca di grande solitudine umana e di grande sopraffazione tecnologica. E la crescita avverrà in rapporto inversamente proporzionale ai processi di riunificazione del movimento rivoluzionario (che tuttavia, come ognuno può vedere, sta andando a ramengo in senso storico e non più solo organizzativo). Inoltre, mescolandosi col delirio di onnipotenza che infonde lo strumento Internet, può produrre degli autentici mostri della ragione.
È inutile dire che per questo genere di Individui-X il problema delle alternative pratiche (quelle storicamente esistite o percorribili) neanche si pone. In Bolivia Guevara sbagliò: punto e basta. In Venezuela Chávez ha sbagliato: punto e basta. Negli Usa gli Wobblies sbagliarono: punto e basta. In Italia Carlo Rosselli e i suoi eredi hanno sbagliato: punto e basta. Addirittura me la son dovuta prendere con chi dice che Giuseppe Garibaldi a Bronte e a Teano sbagliò: punto e basta. Nel dopoguerra la Quarta internazionale era sbagliata: punto e basta - anzi, bene ha fatto chi non vi ha mai aderito.
E se provi a chiedere a cosa si sarebbe dovuto aderire negli anni '50, '60 e primissimi '70, verrai considerato un marziano o un povero ingenuo: cos'è questo bisogno di aderire per forza alle organizzazioni esistenti? si sta così bene da soli! non si sbaglia mai, nessuno ti può incolpare di nulla e se la crescita del movimento rivoluzionario è andata alla rovescia non sarà certo per qualche adesione in più o in meno alle correnti rivoluzionarie organizzate «realmente esistenti»!

L'idea della Quinta internazionale
E gli stessi atteggiamenti psicologici (non oso chiamarli argomenti teorici) li ritrovo oggi contro l'idea di Quinta internazionale, brutta o bella che sia. Il «da solo ideologico» fornirà l'elenco puntiglioso delle ragioni per le quali non si deve aderire ai progetti che via via possono delinearsi (del resto è anche troppo facile dimostrare volta a volta la caducità o l'incompletezza di simili progetti); ma costoro non avrebbero aderito nemmeno alla Prima internazionale, che di progetti neanche ne aveva e viveva nella confusione ideologica più totale: una sana confusione ideologica, come ho cominciato a capire solo dagli anni '80 in poi.
Mai e poi mai il «da solo ideologico» concluderà il proprio discorso dicendoci che cosa a suo avviso esiste oggi al mondo che sia realmente alternativo e a cui egli pensa di aderire - visto che non lo avrà già fatto, altrimenti non starebbe lì a criticare i tentativi concreti degli altri.
Ma il fatto è che un contributo lui ritiene d'averlo già dato con parole scritte o profferite - come Zarathustra disceso dal monte. Pretendere che indichi anche un'alternativa praticabile e realmente esistente è impensabile. Come affrontare concretamente i problemi del tibetano, dell'operaio cinese, dei meninos de rua, del partigiano ceceno, della donna islamica, del gay iraniano o il buco nell'ozono, la deforestazione amazzonica, l'invadenza della società dello spettacolo e della gerarchia cattolica ecc. non è affar suo. Lui non può confondersi con chi annaspa alla ricerca di una dimensione internazionale in cui collocare queste e le tante altre lotte nel mondo. Lui ha il suo modellino. E se l'umanità non lo capisce, peggio per lei. Lui ha il suo blog in cui scrivere e l'umanità sbaglia a non leggere i suoi interventi nel blog, sul Web ecc.…

Una postilla per il localismo anarchico
Esiste una sorta di condiscendenza abituale per la quale si trova giustificato che un anarchico stia da solo o in un piccolo gruppo. A mio avviso è una forma di pregiudizio antilibertario (quasi «razzista»), inficiato storicamente dalle pagine drammatiche dell'individualismo anarchico, della propaganda del fatto, dei «banditi tragici» ecc., e per nulla corrispondente alla reale grande storia dell'anarchia.
Gli anarchici più autorevoli, quelli tosti e con possente formazione teorica, sono stati tutti membri dell'Associazione internazionale dei lavoratori. E quando ci fu la scissione/scioglimento voluta da Marx, continuarono nell'Internazionale di Saint-Imier. Lì sono stati attivi tutti i grandi teorici dell'autogestione che ammiro e sui quali ho scritto varie cose nel passato.
Consapevoli del fallimento dell'Internazionale antiautoritaria, le principali forze libertarie di fine '800 tentarono per quasi un decennio di farsi ammettere nella Seconda internazionale (sì, proprio in quella federazione di opportunisti fautori del socialismo di Stato di cui fu pioniere Lassalle, a sua volta formatosi nella Prima internazionale). Senza riuscirvi ovviamente. E sappiamo che fino al 1907 il movimento anarchico brancolò nel tentativo di ritrovare una propria dimensione organizzativa internazionale. E con questo si arriva al Congresso di Amsterdam, con tutto ciò che segue.
Ora mi si deve dire da dove nasca la giustificazione storica per l'intellettuale anarchico che oggigiorno (a differenza di Bakunin, Kropotkin, Reclus, Malatesta ecc.) se ne sta da solo o in un gruppetto locale, affiliato magari formalmente alla Fai, ma in pratica impegnato solo nella politica intorno al proprio campanile. Mi si dica che cosa ciò abbia a che vedere col grande insegnamento dell'Anarchia, che a livello di massa fu tradotto in pratica nella breve ma significativa esperienza delle collettività catalane alle quali P.F. Zarcone ha dedicato uno splendido libro.

Concludendo: una speranza
Non ho intenzione di prendere sul serio le critiche che verranno rivolte al nostro interessamento per la costruzione della Quinta internazionale da parte di «da soli ideologici» che non indichino un'alternativa politica oggi realmente esistente, e non presente solo nella fantasia. L'elenco degli errori possibili me lo so fare anche da solo. A me serve sapere se a questo disastroso stato di cose «realmente esistente» nel mondo si può reagire in forma organizzata, collettiva e internazionale oppure no. Chi pensa di no e lo spiega con critiche puramente negative, se ne stia a casa a fare il «da solo ideologico» o l'ennesimo gruppetto ideologizzato e autoreferenziale. La storia e la lotta di classe andranno avanti comunque.
È ovvio che Utopia Rossa, se non vuole ridursi a cenacolo di «ir-responsabili» pensatori, dev'essere parte della lotta di classe, senza perdere di vista l'importanza prioritaria della dimensione teorica. Il progetto storico della Quinta internazionale forse non lo porteremo a compimento, ma la storia esige che ci si ponga perlomeno il problema. Falliremo? è probabile, nell'arco della nostra generazione. Ma varrà la pena di aver tentato e di averlo fatto collettivamente.

luglio 2014


1 Octavio Alberola, «Los anarquistas y las luchas sociales», in Cuba libertaria, n. 14, febbraio 2010.

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