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martedì 6 maggio 2014

QUANDO C’ERA BERLINGUER (Walter Veltroni, 2014), di Pino Bertelli

al mio babbo,
che non ha votato mai, perché diceva (a ragione) che il parlamento è un covo di serpi...
alla mia mamma,
che ha sempre votato PCI, perché pensava (sbagliando) che le serpi fossero altrove...

“Bisogna restare nella legalità! E noi ci resteremo!
A costo di dover imbracciare il mitra e inchiodare al muro tutti i nemici del popolo!”.
dal film Don Camillo (1952), di Julien Duvivier


Cronaca di un ballo mascherato e la sinistra al caviale

La macchina/cinema quando non lusinga è un delitto d’indiscrezione... dissotterra vergogne secolari, denuncia deliri, arroganze, teologie della conservazione e aderisce alla distruzione dei dogmi mercantili sui quali si fonda fin dalla nascita... infrange l’ottimismo degli agonizzanti e invalida tutti i lieto fine nell’arte del ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato. Bisogna esser fuori dalla vita vera come un angelo o come un idiota per credere che un film come Quando c’era Berlinguer possa portare un’oncia di bellezza o di giustizia là dove la politica PCI ha predicato la rassegnazione e il servaggio, e ha cancellato dall’immaginario della meglio gioventù, l’innocenza del divenire. 

Il cinema italiano si distingue nel tanfo dello stile... benevolenza, convenienza, ruffianeria... sono gli utensili espressivi meglio usati... la critica velinara (la più vigliacca e prezzolata della terra) li sostiene, li vezzeggia, li premia... piovono Oscar invece che pietre e il fascino della repellenza porta a buon fine la mistica dell’inconcepibile e della bruttura fantasmata come arte. Nulla eguaglia, non solo nel cinema, la cialtroneria del bel Paese... e sono molti i rimbecilliti del consenso che impiccano l’intelligenza agli architravi della farsa elettorale... senza sapere mai che la democrazia rappresentativa è una fogna a cielo aperto, e l’unica possibilità per un cittadino di contare non solo il giorno delle elezioni, è nel debutto di una democrazia diretta, partecipata o consiliare. Non si può assistere a tanta mediocrità politica, religiosa, sindacale, intellettuale... orchestrata da astuti burattinai ed eseguita da patetici burattini, senza una qualche forma di rivolta... basterebbe che gli uomini si rendessero contro della fame di bellezza che c’è nei loro cuori e scoppierebbe la rivoluzione nelle strade. 
Anche quando c’era Berlinguer, del quale non possiamo non riconoscere la “dirittura morale” (tutta ancora da rivedere), le prerogative del Partito Comunista Italiano non erano poi tanto diverse dalle forche sordide, ordite da quel buon padre di famiglia con la faccia da scherano che era Palmiro Togliatti. La grande illusione o la grande schifezza del PCI (franata sempre troppo tardi) poggia su antiche colpe, pugni stretti, vite agre, bandiere di rosso vestite e sporche di sangue fraterno.
La macchina/cinema quando non lusinga è un delitto d’indiscrezione... dissotterra vergogne secolari, denuncia deliri, arroganze, teologie della conservazione e aderisce alla distruzione dei dogmi mercantili sui quali si fonda fin dalla nascita... infrange l’ottimismo degli agonizzanti e invalida tutti i lieto fine nell’arte del ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato. Bisogna esser fuori dalla vita vera come un angelo o come un idiota per credere che un film come Quando c’era Berlinguer possa portare un’oncia di bellezza o di giustizia là dove la politica PCI ha predicato la rassegnazione e il servaggio, e ha cancellato dall’immaginario della meglio gioventù, l’innocenza del divenire.
Di Walter Veltroni. Pessimo romanziere, pessimo critico cinematografico, pessimo regista, abile uomo politico, aperto a tutte le ventate di consolidamento del proprio potere all’interno del partito (ormai perduto)... abile tessitore di trame politiche da rotocalco kennediano in parlamento (fin quando c’è stato)... abile parlatore nella scatola televisiva (per promuovere le sue facezie letterarie a quanto resta della classe operaia licenziata, disoccupata o in pantofole)... è uno degli orsetti lavatori (come Massimo D’Alema, Piero Fassino o la dama rossa, Anna Finocchiaro) della sinistra al caviale, tutta gente che ha dato prova di elevate qualità caricaturali all’interno della commedia infausta della sinistra, che ha spazzato via la memoria e la storia della classe operaia.  

[Sulle rovine del PCI ora impazzano le sceneggiate televisive di un buffone di corte fiorentino, assurto a segretario di un partito colluso con la destra e affari sporchi, e primo ministro di un paese che continua a restare catto-fascista. Non è grazie alla politica istituzionale, ma grazie alla sofferenza e solo grazie ad essa, che la facciamo finita una volta e per sempre di una cosca di privilegiati, affamati di potere, che si agitano come ratti su cumuli di spazzatura. Solo ciò che invita al collasso della burocrazia del malsano, merita di essere ascoltato. Quando abbiamo visto che i democratici di sinistra erano totalmente ignoranti sia di Nietzsche sia della sitcom animata dei Simpson, gli abbiamo preferito di gran lunga la frequentazione di illetterati, sognatori, passatori di confine, sensibili sia all’uno o all’altra].
Quando c’era Berlinguer è un florilegio di vecchie facce della politica e il percorso storico di uno dei più amati leader della sinistra italiana (e da oppositori con inclinazione all’intrigo, come Giorgio Almirante). Le immagini di repertorio sono intrecciate (un po’ alla buona o, meglio, senza la profondità tecnica necessaria per un documentario) a quadretti pubblici, non sempre amabili (mettere in bocca a Pasolini le parole del poeta rivolte al popolo comunista e non ai suoi dirigenti è davvero infausto). La “rettitudine” politica di Berlinguer c’è tutta (ma forse era solo la versione “ufficiale” dell’uomo probo che, come sappiamo dalla storia, è sempre alleato con i dominatori), l’attenzione alle qualità personali/familiari un po’ meno. Le interviste di chi lo ha conosciuto e ha lavorato con lui sono ben oliate... le adunate di massa rasentano il folclore, ma la partecipazione popolare dei suoi funerali, commuove (meno ampollosa di quella filmata e ripresa in film e cinegiornali di Palmiro Togliatti, 1964). Anche i politici piangono... alcuni sembrano anche veri. Aldo Tortorella lascia in sorte ai piccoli palafrenieri di Berlinguer queste parole: “Dopo la sua morte nominammo un segretario provvisorio, e avevamo sperato che sareste stati voi a proseguire il cammino di Enrico”. Non è stato così. Il crollo di un’idea di (euro)comunismo se ne è andata con il sorriso di Berlinguer e l’etica di appartenenza agli esclusi di ogni epoca.
La voce fuori campo di Veltroni accompagna il documentario e non manca di celebrare se stesso in reperti filmici sovrapposti alla storia “austera” (o tramesca) di Berlinguer. Il bacino delle testimonianze è vasto... parlano la figlia Bianca, il capo della scorta, operai, Napolitano (al tempo avversario acerrimo della linea politica di Berlinguer, che non trattiene l’emozione), Eugenio Scalfari (che ha sostenuto in televisione che i partigiani sono stati dei ruba galline o poco più) Giampaolo Pansa (il voltagabbana), Emanuele Macaluso, Claudio Signorile, Pietro Ingrao (straziante), Roberto Benigni, Jovanotti (che non ha mai né conosciuto Berlinguer né partecipato alle lotte politiche del PCI), Alberto Franceschini (fondatore delle Brigate Rosse) e tanti altri testimoni di un tempo e di un partito che è stato un punto di riferimento importante per schiere di uomini e donne che credevano nel sol dell’avvenire. Berlinguer sfila in molte tribune elettorali (il suo antifascismo è “magistrale”, netto, deciso, certo furbo)... nel 60° anniversario della rivoluzione d’Ottobre sostiene a Mosca il valore universale della democrazia e la gremita platea dei compagni sovietici gli risponde con sette secondi di applausi. C’è anche l’incidente di macchina in Bulgaria... Berlinguer si era “scontrato” con i capi filosovietici bulgari riguardo all’invasione della Cecoslovacchia (che tuttavia il PCI non condannò mai fino in fondo)... al ritorno in Italia un camion militare investe l’auto sulla quale viaggiava, l’autista muore e l’interprete è ferito gravemente... Berlinguer resta illeso... si parla di attentato.

Dopo l’assassinio di Allende in Cile (con l’orchestrazione militare della CIA), Berlinguer propone alla DC il “compromesso storico”... Andreotti presiede il governo di unità nazionale (monocolore DC)... le BR rapiscono Aldo Moro (in un bagno di sangue) e poi viene ucciso. I servizi segreti (deviati?) sono coinvolti in una vicenda tutta ancora da svelare (ma Veltroni non lo dice). Con la morte di Moro termina la politica del “compromesso storico”. Il corpo di Moro è lasciato nella Renault rossa in via Caetani, a due passi dalle Botteghe Oscure, sede storica del PCI. Berlinguer cambia politica. Sbanda verso i socialisti di Bettino Craxi. Al congresso del PSI lo investono di fischi e Craxi li approva aggrappato al microfono. La direzione del PCI mette in minoranza la scelta politica del segretario... in attesa dei risultati elettorali Berlinguer intensifica i comizi... a Padova ha un malore, le parole gli escono confuse, lo portano in albergo ed entra in coma, muore quattro giorni dopo, a 62 anni. L’addio commosso di centinaia di migliaia di persone a Berlinguer avviene in piazza San Giovanni, a Roma, correva l’anno 1984. L’Unità riesce persino a fare una buona prima pagina, con Berlinguer che indossa una giacca incerata bianca da marinaio e scrive ADDIO stampato in rosso. La frase di Natalia Ginzburg è di rito: “Ognuno ha avuto con Berlinguer un suo rapporto personale anche se l’ha visto una sola volta”. È l’inizio della fine del PCI. 

L’incipit di Quando c’era Berlinguer è spiazzante. Studenti e professori non sanno nulla di uno degli uomini più importanti della storia politica italiana... rispondono all’intervistatore: “Berlinguer chi?”; “È quello che ha inventato la bomba?”; “No, le sue canzoni di sinistra non mi piacciono”... le immagini di Berlinguer giovane, la sconfitta a Torino nell’autunno 1980, quando la Fiat (insieme ai sindacati e a quarantamila comparse di cera) ammutolisce gli operai... la cacciata del segretario della Cgil Luciano Lama dall’università di Roma, quando Fabrizio De André cantava: “Capelli corti generale ci parlò all’Università/dei fratelli tute blu che seppellirono le asce/ ma non fumammo con lui non era venuto in pace/ e a un dio fatti il culo non credere mai”... sono contagiose... quasi liriche. I poeti maledetti, lo sappiamo, sono sempre in anticipo sulla storia, come Pier Paolo Pasolini insegna, e sono loro, sulle cime della disperazione, a mostrare che dietro le buone intenzioni si cela un pagliaccio o un tiranno. Al di là delle belle parole e delle verità irrespirabili della politica, il sale della miseria resta. 
Il regista (è un prestito generoso) di Quando c’era Berlinguer non si sottrae a dipingere l’uomo più “schivo” e di “parche parole” della sinistra italiana (che tuttavia sapeva bene timonare i suoi bravacci contro i dissidi generazionali dentro e fuori il PCI) come una superstar mediatica... ne elenca i trionfi, le innovazioni, perfino il ribellismo giovanile (che c’è stato e pagato con cento giorni di prigione per aver manifestato in Sardegna in difesa del pane!)... uomo di “coraggio” che si differenzia dal PCUS (ormai in caduta libera dell’impalcatura ideologica, che priva i foraggiamenti economici al partito dei lavoratori) e protagonista di successi elettorali mai più raggiunti dal PCI. Veltroni ammucchia dolore, lacrime e speranze in una poetica della compiacenza e non si fa mancare ingolfamenti e cadute di stile. Come quando vecchie pagine de l’Unità svolazzano nel vento in una piazza deserta e si sciolgono in immagini di antiche vittorie, campi assolati e musiche struggenti, o la barca di Berlinguer che naviga solitaria nei mari di Sardegna... il sentimentalismo si spreca e dietro ogni spezzone di film compare l’ombra imbarazzante di Veltroni. Toni Servillo dà la voce a Berlinguer e Sergio Rubini a Pier Paolo Pasolini (sempre rispolverato in occasioni di pubblico delirio da quanti non l’hanno letto o capito)... il filmino in Super8 girato da Veltroni quando militava nella Fgci, il giovane Giuliano Ferrara alza il pugno chiuso, Benigni che prende in braccio Berlinguer (e fa pena)... testimonianze del costume televisivo (Maurizio Ferrini, Gigi Proietti), Marcello Mastroianni al picchetto di onore ai funerali di Berlinguer, la citazione di Giorgio Gaber, “Qualcuno era comunista”, e il mito è servito. Il “dolce Enrico” entrava nei cuori di tutti “perché era una brava persona” (e sembrava anche vero). Se gli angeli si mettessero a filmare come Veltroni, sarebbero, tranne quelli ribelli, risibili. La purezza è difficile da sostenere con le chiacchiere, perché è incompatibile con la storia che ne consegue. Ogni verità che si rifugia nella prolissità senza stupore sfiora il cretinismo mai il genio, ed è il metodo più efficace per fagocitare l’ingiustizia che copre.

Quando c’era Berlinguer è un documentario agiografico mal fatto... il montaggio di Gabriele Gallo, che in un film come questo doveva essere sovrano, è di derivazione televisiva, scorcia dove non deve e allunga le ripetizioni audiovisuali che andavano snellite... le musiche di Danilo Rea sono smielate addosso a sequenze che sfociano nel patetico, la canzone di Gino Paoli è piuttosto manierata e non raggiunge l’obiettivo del sentimentalismo da telegiornale... le inquadrature di Veltroni (non solo degli intervistati ma anche le scenette costruite a corredo del film) sono poco più che amatoriali e si vede che il regista è pronto a passare alla realizzazione di una soap-opera per i mercati-tv e i corsi di genuflessione sindacale... al tempo in cui gli operai invece di occupare le fabbriche dalle quali sono espulsi in massa, richiedono la benedizione del Papa, un film come questo bene si attesta alla politica di monopolio che mortifica l’uso pubblico della ragione. Da dimenticare.
Va detto. Alla prima di Quando c’era Berlinguer, all’Auditorium Parco della Musica a Roma, c’erano tutti i “sepolcri imbiancati” della “sinistra” italiana (il presidente Napolitano, Pietro Grasso, Dario Franceschini, Ignazio Marino, Andrea Orlando, Maria Elena Boschi, Graziano Delrio, Enrico Letta, Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Guglielmo Epifani, Susanna Camusso, Piero Fassino, Cecile Kyenge, Emanuele Macaluso, Achille Occhetto, Fausto Bertinotti, Nichi Vendola... la cornice autoriale si completava con la presenza dei registi Giuseppe Tornatore, Paolo Sorrentino, Ettore Scola, Francesco Rosi, Liliana Cavani, il direttore della fotografia Vittorio Storaro... gli attori Isabella Ferrari, Gigi Proietti, Sergio Castellitto, Mara Venier... e, tanto per non farsi mancare niente di tanta crema intellettuale, hanno portato il loro contributo all’evento pescecani del calibro di Gianni Letta, Gianfranco Fini, Gaetano Quagliarello, Giuliano Amato, Fedele Confalonieri... un parterre de roi come raramente si è visto per la presentazione di un film... quando si sono accese le luci in sala, l’ovazione è stata a scena aperta. La nostalgia dell’effimero è sempre canaglia.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 18 volte aprile-5 volte maggio 2014

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