al mio babbo,
che non ha votato mai, perché
diceva (a ragione) che il parlamento è un covo di serpi...
alla mia mamma,
che ha sempre votato PCI,
perché pensava (sbagliando) che le serpi fossero altrove...
“Bisogna restare nella
legalità! E noi ci resteremo!
A costo di dover imbracciare
il mitra e inchiodare al muro tutti i nemici del popolo!”.
dal film Don Camillo (1952), di Julien Duvivier
Cronaca di un ballo mascherato e la sinistra al caviale
La macchina/cinema quando non lusinga è un delitto
d’indiscrezione... dissotterra vergogne secolari, denuncia deliri, arroganze,
teologie della conservazione e aderisce alla distruzione dei dogmi mercantili
sui quali si fonda fin dalla nascita... infrange l’ottimismo degli agonizzanti
e invalida tutti i lieto fine
nell’arte del ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato. Bisogna esser
fuori dalla vita vera come un angelo o come un idiota per credere che un film
come Quando c’era Berlinguer possa
portare un’oncia di bellezza o di giustizia là dove la politica PCI ha
predicato la rassegnazione e il servaggio, e ha cancellato dall’immaginario
della meglio gioventù,
l’innocenza del divenire.
Il cinema italiano si distingue nel tanfo dello stile...
benevolenza, convenienza, ruffianeria... sono gli utensili espressivi meglio
usati... la critica velinara
(la più vigliacca e prezzolata della terra) li sostiene, li vezzeggia, li
premia... piovono Oscar invece che pietre e il fascino della repellenza porta a
buon fine la mistica dell’inconcepibile e della bruttura fantasmata come arte.
Nulla eguaglia, non solo nel cinema, la cialtroneria del bel Paese... e sono molti i rimbecilliti del consenso che
impiccano l’intelligenza agli architravi della farsa elettorale... senza sapere
mai che la democrazia rappresentativa è una fogna a cielo aperto, e l’unica possibilità per un cittadino di
contare non solo il giorno delle elezioni, è nel debutto di una democrazia
diretta, partecipata o consiliare. Non si può assistere a tanta mediocrità politica, religiosa,
sindacale, intellettuale... orchestrata da astuti burattinai ed eseguita da
patetici burattini, senza una qualche forma di rivolta... basterebbe che gli
uomini si rendessero contro della fame di bellezza che c’è nei loro cuori e
scoppierebbe la rivoluzione nelle strade.
Anche quando c’era Berlinguer, del quale non
possiamo non riconoscere la “dirittura morale” (tutta ancora da rivedere), le
prerogative del Partito Comunista Italiano non erano poi tanto diverse dalle forche
sordide, ordite da quel buon
padre di famiglia con la faccia da
scherano che era Palmiro Togliatti. La grande illusione o la grande schifezza del PCI (franata sempre troppo tardi) poggia su
antiche colpe, pugni stretti, vite agre, bandiere di rosso vestite e sporche di
sangue fraterno.
La macchina/cinema quando non lusinga è un delitto d’indiscrezione... dissotterra vergogne secolari, denuncia deliri, arroganze, teologie della conservazione e aderisce alla distruzione dei dogmi mercantili sui quali si fonda fin dalla nascita... infrange l’ottimismo degli agonizzanti e invalida tutti i lieto fine nell’arte del ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato. Bisogna esser fuori dalla vita vera come un angelo o come un idiota per credere che un film come Quando c’era Berlinguer possa portare un’oncia di bellezza o di giustizia là dove la politica PCI ha predicato la rassegnazione e il servaggio, e ha cancellato dall’immaginario della meglio gioventù, l’innocenza del divenire.
La macchina/cinema quando non lusinga è un delitto d’indiscrezione... dissotterra vergogne secolari, denuncia deliri, arroganze, teologie della conservazione e aderisce alla distruzione dei dogmi mercantili sui quali si fonda fin dalla nascita... infrange l’ottimismo degli agonizzanti e invalida tutti i lieto fine nell’arte del ribaltamento di prospettiva di un mondo rovesciato. Bisogna esser fuori dalla vita vera come un angelo o come un idiota per credere che un film come Quando c’era Berlinguer possa portare un’oncia di bellezza o di giustizia là dove la politica PCI ha predicato la rassegnazione e il servaggio, e ha cancellato dall’immaginario della meglio gioventù, l’innocenza del divenire.
Di Walter Veltroni. Pessimo romanziere, pessimo
critico cinematografico, pessimo regista, abile uomo politico, aperto a tutte
le ventate di consolidamento del proprio potere all’interno del partito (ormai
perduto)... abile tessitore di trame politiche da rotocalco kennediano in
parlamento (fin quando c’è stato)... abile parlatore nella scatola televisiva
(per promuovere le sue facezie letterarie a quanto resta della classe operaia
licenziata, disoccupata o in pantofole)... è uno degli orsetti lavatori (come
Massimo D’Alema, Piero Fassino o la dama rossa, Anna Finocchiaro) della sinistra al caviale, tutta gente che ha dato prova di elevate qualità
caricaturali all’interno della commedia infausta della sinistra, che ha
spazzato via la memoria e la storia della classe operaia.
[Sulle rovine del PCI ora impazzano le sceneggiate
televisive di un buffone di corte fiorentino, assurto a segretario di un
partito colluso con la destra e affari sporchi, e primo ministro di un paese
che continua a restare catto-fascista. Non è grazie alla politica
istituzionale, ma grazie alla sofferenza e solo grazie ad essa, che la facciamo
finita una volta e per sempre di una cosca di privilegiati, affamati di potere,
che si agitano come ratti su cumuli di spazzatura. Solo ciò che invita al
collasso della burocrazia del malsano, merita di essere ascoltato. Quando
abbiamo visto che i democratici di sinistra erano totalmente ignoranti sia di Nietzsche sia
della sitcom animata dei
Simpson, gli abbiamo preferito di gran lunga la frequentazione di illetterati,
sognatori, passatori di confine, sensibili sia all’uno o all’altra].
Quando c’era Berlinguer è un florilegio di vecchie facce della politica e
il percorso storico di uno dei più amati leader della sinistra italiana (e da
oppositori con inclinazione all’intrigo, come Giorgio Almirante). Le immagini
di repertorio sono intrecciate (un po’ alla buona o, meglio, senza la
profondità tecnica necessaria per un documentario) a quadretti pubblici, non
sempre amabili (mettere in bocca a Pasolini le parole del poeta rivolte al
popolo comunista e non ai suoi dirigenti è davvero infausto). La “rettitudine”
politica di Berlinguer c’è tutta (ma forse era solo la versione “ufficiale”
dell’uomo probo che, come sappiamo dalla storia, è sempre alleato con i
dominatori), l’attenzione alle qualità personali/familiari un po’ meno. Le interviste
di chi lo ha conosciuto e ha lavorato con lui sono ben oliate... le adunate di
massa rasentano il folclore, ma la partecipazione popolare dei suoi funerali,
commuove (meno ampollosa di quella filmata e ripresa in film e cinegiornali di
Palmiro Togliatti, 1964). Anche i politici piangono... alcuni sembrano anche
veri. Aldo Tortorella lascia in sorte ai piccoli palafrenieri di Berlinguer
queste parole: “Dopo la sua morte nominammo un segretario provvisorio, e
avevamo sperato che sareste stati voi a proseguire il cammino di Enrico”. Non è
stato così. Il crollo di un’idea di (euro)comunismo se ne è andata con il
sorriso di Berlinguer e l’etica di appartenenza agli esclusi di ogni epoca.
La voce fuori campo
di Veltroni accompagna il documentario e non manca di celebrare se stesso in
reperti filmici sovrapposti alla storia “austera” (o tramesca) di Berlinguer. Il bacino delle testimonianze è
vasto... parlano la figlia Bianca, il capo della scorta, operai, Napolitano (al
tempo avversario acerrimo della linea politica di Berlinguer, che non trattiene
l’emozione), Eugenio Scalfari (che ha sostenuto in televisione che i partigiani
sono stati dei “ruba galline o poco più”) Giampaolo Pansa (il voltagabbana),
Emanuele Macaluso, Claudio Signorile, Pietro Ingrao (straziante), Roberto
Benigni, Jovanotti (che non ha mai né conosciuto Berlinguer né partecipato alle
lotte politiche del PCI), Alberto Franceschini (fondatore delle Brigate Rosse)
e tanti altri testimoni di un tempo e di un partito che è stato un punto di
riferimento importante per schiere di uomini e donne che credevano nel sol
dell’avvenire. Berlinguer sfila
in molte tribune elettorali (il suo antifascismo è “magistrale”, netto, deciso,
certo furbo)... nel 60° anniversario della rivoluzione d’Ottobre sostiene a
Mosca il valore universale della democrazia e la gremita platea dei compagni sovietici gli risponde con sette
secondi di applausi. C’è anche l’incidente di macchina in Bulgaria...
Berlinguer si era “scontrato” con i capi filosovietici bulgari riguardo
all’invasione della Cecoslovacchia (che tuttavia il PCI non condannò mai fino
in fondo)... al ritorno in Italia un camion militare investe l’auto sulla quale
viaggiava, l’autista muore e l’interprete è ferito gravemente... Berlinguer
resta illeso... si parla di attentato.
Dopo l’assassinio
di Allende in Cile (con l’orchestrazione militare della CIA), Berlinguer
propone alla DC il “compromesso storico”... Andreotti presiede il governo di
unità nazionale (monocolore DC)... le BR rapiscono Aldo Moro (in un bagno di
sangue) e poi viene ucciso. I servizi segreti (deviati?) sono coinvolti in una
vicenda tutta ancora da svelare (ma Veltroni non lo dice). Con la morte di Moro
termina la politica del “compromesso storico”. Il corpo di Moro è lasciato
nella Renault rossa in via Caetani, a due passi dalle Botteghe Oscure, sede
storica del PCI. Berlinguer cambia politica. Sbanda verso i socialisti di
Bettino Craxi. Al congresso del PSI lo investono di fischi e Craxi li approva
aggrappato al microfono. La direzione del PCI mette in minoranza la scelta
politica del segretario... in attesa dei risultati elettorali Berlinguer
intensifica i comizi... a Padova ha un malore, le parole gli escono confuse, lo
portano in albergo ed entra in coma, muore quattro giorni dopo, a 62 anni.
L’addio commosso di centinaia di migliaia di persone a Berlinguer avviene in
piazza San Giovanni, a Roma, correva l’anno 1984. L’Unità riesce persino a fare una buona prima pagina, con
Berlinguer che indossa una giacca incerata bianca da marinaio e scrive ADDIO
stampato in rosso. La frase di Natalia Ginzburg è di rito: “Ognuno ha avuto con
Berlinguer un suo rapporto personale anche se l’ha visto una sola volta”. È
l’inizio della fine del PCI.
L’incipit di Quando c’era Berlinguer è spiazzante. Studenti e professori non sanno
nulla di uno degli uomini più importanti della storia politica italiana...
rispondono all’intervistatore: “Berlinguer chi?”; “È quello che ha inventato la
bomba?”; “No, le sue canzoni di sinistra non mi piacciono”... le immagini di
Berlinguer giovane, la sconfitta a Torino nell’autunno 1980, quando la Fiat
(insieme ai sindacati e a quarantamila comparse di cera) ammutolisce gli
operai... la cacciata del segretario della Cgil Luciano Lama dall’università di
Roma, quando Fabrizio De André cantava: “Capelli corti generale ci parlò
all’Università/dei fratelli tute blu che seppellirono le asce/ ma non fumammo
con lui non era venuto in pace/ e a un dio fatti il culo non credere mai”... sono
contagiose... quasi liriche. I poeti maledetti, lo sappiamo, sono sempre in anticipo sulla
storia, come Pier Paolo Pasolini insegna, e sono loro, sulle cime della
disperazione, a mostrare che dietro le buone intenzioni si cela un pagliaccio o
un tiranno. Al di là delle belle parole e delle verità irrespirabili della
politica, il sale della miseria resta.
Il regista (è un prestito generoso) di Quando
c’era Berlinguer non si sottrae a
dipingere l’uomo più “schivo” e di “parche parole” della sinistra italiana (che
tuttavia sapeva bene timonare i
suoi bravacci contro i dissidi generazionali dentro e fuori il PCI) come una
superstar mediatica... ne elenca i trionfi, le innovazioni, perfino il
ribellismo giovanile (che c’è stato e pagato con cento giorni di prigione per
aver manifestato in Sardegna in difesa del pane!)... uomo di “coraggio” che si
differenzia dal PCUS (ormai in caduta libera dell’impalcatura ideologica, che
priva i foraggiamenti economici al partito dei lavoratori) e protagonista di successi elettorali mai più
raggiunti dal PCI. Veltroni ammucchia dolore, lacrime e speranze in una poetica
della compiacenza e non si fa mancare ingolfamenti e cadute di stile. Come quando
vecchie pagine de l’Unità
svolazzano nel vento in una piazza deserta e si sciolgono in immagini di
antiche vittorie, campi assolati e musiche struggenti, o la barca di Berlinguer
che naviga solitaria nei mari di Sardegna... il sentimentalismo si spreca e
dietro ogni spezzone di film compare l’ombra imbarazzante di Veltroni. Toni
Servillo dà la voce a Berlinguer e Sergio Rubini a Pier Paolo Pasolini (sempre
rispolverato in occasioni di pubblico delirio da quanti non l’hanno letto o
capito)... il filmino in Super8 girato da Veltroni quando militava nella Fgci,
il giovane Giuliano Ferrara alza il pugno chiuso, Benigni che prende in braccio
Berlinguer (e fa pena)... testimonianze del costume televisivo (Maurizio
Ferrini, Gigi Proietti), Marcello Mastroianni al picchetto di onore ai funerali
di Berlinguer, la citazione di Giorgio Gaber, “Qualcuno era comunista”, e il
mito è servito. Il “dolce Enrico” entrava nei cuori di tutti “perché era una
brava persona” (e sembrava anche vero). Se gli angeli si mettessero a filmare
come Veltroni, sarebbero, tranne quelli ribelli, risibili. La purezza è difficile da sostenere con le chiacchiere, perché è incompatibile con la storia che ne consegue.
Ogni verità che si rifugia nella prolissità senza stupore sfiora il cretinismo
mai il genio, ed è il metodo più efficace per fagocitare l’ingiustizia che copre.
Quando c’era Berlinguer è un documentario agiografico mal fatto... il
montaggio di Gabriele Gallo, che in un film come questo doveva essere sovrano,
è di derivazione televisiva, scorcia dove non deve e allunga le ripetizioni
audiovisuali che andavano snellite... le musiche di Danilo Rea sono smielate
addosso a sequenze che sfociano nel patetico, la canzone di Gino Paoli è
piuttosto manierata e non raggiunge l’obiettivo del sentimentalismo da
telegiornale... le inquadrature di Veltroni (non solo degli intervistati ma
anche le scenette costruite a corredo del film) sono poco più che amatoriali e
si vede che il regista è pronto a passare alla realizzazione di una soap-opera per i mercati-tv e i corsi di genuflessione
sindacale... al tempo in cui gli operai invece di occupare le fabbriche dalle
quali sono espulsi in massa, richiedono la benedizione del Papa, un film come
questo bene si attesta alla politica di monopolio che mortifica l’uso pubblico
della ragione. Da dimenticare.
Va detto. Alla prima di Quando c’era
Berlinguer, all’Auditorium Parco
della Musica a Roma, c’erano tutti i “sepolcri imbiancati” della “sinistra”
italiana (il presidente Napolitano, Pietro Grasso, Dario Franceschini, Ignazio
Marino, Andrea Orlando, Maria Elena Boschi, Graziano Delrio, Enrico Letta,
Pierluigi Bersani, Rosy Bindi, Guglielmo Epifani, Susanna Camusso, Piero
Fassino, Cecile Kyenge, Emanuele Macaluso, Achille Occhetto, Fausto Bertinotti,
Nichi Vendola... la cornice autoriale si completava con la presenza dei registi
Giuseppe Tornatore, Paolo Sorrentino, Ettore Scola, Francesco Rosi, Liliana
Cavani, il direttore della fotografia Vittorio Storaro... gli attori Isabella
Ferrari, Gigi Proietti, Sergio Castellitto, Mara Venier... e, tanto per non
farsi mancare niente di tanta crema intellettuale, hanno portato il loro contributo
all’evento pescecani del calibro di Gianni Letta, Gianfranco Fini, Gaetano
Quagliarello, Giuliano Amato, Fedele Confalonieri... un parterre de roi come raramente si è visto per la presentazione di un film... quando si sono accese le luci in sala, l’ovazione è stata a scena aperta. La nostalgia dell’effimero è sempre canaglia.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 18 volte aprile-5 volte maggio 2014
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