“Che cos'è la proprietà? La proprietà è un
furto; non perché sia frutto di appropriazione violenta, bensì chi la detiene, ne
fa uso a proprio vantaggio e a danno della collettività... Il governo dell'uomo
da parte dell'uomo, sotto qualsivoglia nome si mascheri, è oppressione; la più
alta perfezione della società si trova nell'unione dell'ordine e dell'anarchia...
La distinzione tra banchiere e usuraio è
puramente nominale...
Noi non vogliamo alcuna partecipazione dello Stato nelle
miniere, nei canali, nelle ferrovie….
Tutto deve essere affidato ad associazioni di
lavoratori democraticamente organizzate,
le quali operino non sotto la costituzione e la
vigilanza dello Stato, ma basandosi sulla propria responsabilità”.
Pierre-Joseph Proudhon (1840).
I. La fogna di Wall Street e i barbari della Borsa
Parte prima. Rapinare una banca non è meno immorale di fondarla,
diceva. La fogna bancaria di Wall Street (la più potente mafia della terra) e i
barbari della Borsa (colpevoli di saccheggiare, profanare, violentare l’intera
umanità...), sono oggetto di un film piuttosto convenzionale, The Wolf of Wall Street (2014) di Martin Scorsese. Va detto. La
critica italiana (come sappiamo la più servizievole del “tappeto rosso”
(abatini che hanno molto studiato e poco compreso del cinema e delle sue false
meraviglie), quasi all’unisono ha chiosato al “capolavoro”... le stellette sono
state copiose, Scorsese e Leonardo DiCaprio eletti a depositari dell’arte
cinematografica di quella “fabbrica per salsicce” (Erich von Stroheim) che è Hollywood.
E pensare che ci sono stati dei geni dello schermo
del disinganno (Robert J. Flaherty, Erich von Stroheim, Orson Wells o John
Cassavetes) che per aver minato alla radici la macchina/cinema, hanno pagato
con l’ostracismo, l’esilio o il discredito la loro insolenza poetica... gli
accademici poi li hanno imbalsamati nei libri di storia del cinema e lì sono
morti.
Un’annotazione a margine. I venditori e dispensatori di celebrazioni
televisive da esaltati o esteti smarriti della società dello spettacolo... sono gli stessi adulatori di un film italiano
(La grande bellezza) che ha fatto
incetta di premi internazionali (Oscar e Golden Globe 2014, BAFTA, European
Film Awards, cinque Nastri d’Argento)... il pubblico lo ha premiato con
un’affluenza d’altri tempi... giornalisti, presentatori, politici, perfino il
primo ministro (con la faccia un po’ tonta da imbonitore da sagra toscana) di
questa italietta catto-totalitaria (inclusa la sinistra al caviale), hanno gridato all’evento artistico e
rinascita del cinema italiano. Vero niente. Tutta questa allegra brigata di
estimatori di La grande bellezza,
sembrano non sapere che ogni apologia non è che l’assassinio del vero, del
giusto, del bello, per eccessivo uso dell’entusiasmo. È impossibile conciliare
l’onnipotenza del mercato (non solo cinematografico) con la libertà, il
rispetto, la solidarietà degli ultimi, degli esclusi, degli offesi...
l’ossessione del successo impera e quando ogni opera d’arte è esclusivo
possedimento delle banche, della politica o dei mercati, c’è un po’ più dolore
nel mondo.
Noi confermiamo qui ciò che avevamo affermato all’uscita del film di
Paolo Sorrentino: “La grande bellezza
figura la fisionomia di un fallimento, quello della pretenziosità sulla quale
il regista ha fondato il culto di se stesso, più ancora è un casellario di
nozioni cinematografiche dove si santificano i funerali del cinema che vale e
tutto si degrada in ripetizioni inutili, in un cattivo edonismo che è il
pretesto per giustificare scenari o esercizi di stile dove la bellezza e la
giustizia sono calpestate nel fervore di diventare santi, martiri o eroi di un
mondo di celluloide (o digitale) che non merita essere difeso, ma aiutato a
crollare”. A un certo grado di distacco e di frequentazione di sale cinematografiche,
come di taverne di porto, lo spettacolo (di ogni genere comunicazionale) non ha
più corso... rompere le apparenze significa rigettare l’idolatria e le
illusioni che ne derivano. È per questo che preferiamo stare in compagnia di
qualsiasi illetterato o ubriaco di sogni, che frequentare la “crema
intellettuale” delle terrazze Martini di Milano o dei salotti-bene di Roma.
Ciascuno è figlio delle proprie affermazioni, e come gli affamatori di
Wall Street si vestono Armani, così sognano (in tanti). I cinematografari
(politici, preti, imprenditori e forse anche la classe operaia allo sbando
sindacale) sanno bene che lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un
rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini: “Lo spettacolo è il
discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo
elogiativo. È l’autoritratto del potere all’epoca della gestione totalitaria
delle condizioni di esistenza” (Guy Debord)[1]... e persino i criminali dei
regimi “comunisti” (Russia, Cina, ecc.) sanno che lo spettacolo è il Capitale a
un tal grado di accumulazione, manipolazione, ingerenza o domesticazione dei
popoli assoggettati, da divenire immagine. Milioni di persone sono state
gettate nella miseria dalle banche e una cosca di bastardi si è ancora più
arricchita... la giustizia sociale è calpestata ovunque e solo la lotta
profonda, radicale, a volto scoperto delle giovani generazioni può rovesciare
la disuguaglianza planetaria e stabilire i principi fondamentali dei diritti
umani, libertà e uguaglianza necessari per la conquista di una democrazia
partecipata, consiliare o diretta.
The Wolf of Wall Street
è un’operazione commerciale da 100 milioni di dollari... al 2 marzo 2014 il
film ha incassato nel mondo circa 340 milioni di dollari... le riprese sono
iniziate l’8 agosto 2012 e terminate nel gennaio 2013... le ambientazioni si
sono svolte negli Stati Uniti (New York, New Jersey, White Plains, Closter, alcune
scene sono state girate in Italia, tra Portofino e le Cinque Terre)... la
vicenda è quella ispirata al biografia di Jordan Belfort (Il lupo di Wall Street)[2], uno dei
più spudorati caimani della finanza internazionale. Belfort è nato nel Bronx
(1962), in una famiglia ebraica. Si laurea in biologia all’American University
di Washington e inizia la sua ascesa a Wall Street presso la banca americana
L.F. Rothschild, fino al crollo finanziario del 1987 (denominato il lunedì nero).
Nel
1990 fonda una società di brokeraggio (la Stratton Oakmont) che vende per
telefono azioni (penny stock) di
piccole società destinate all’insuccesso... inganna i piccoli investitori e si
appropria di montagne di denaro... arriva ad impiegare fino a 1000 agenti di
borsa e fatturare oltre un miliardo di dollari... conduce una vita da star...
compra Ferrari, elicotteri, puttane d’alto bordo... l’infatuazione per le
droghe lo porta sull’orlo della follia... nel 1998 il FBI lo incrimina per frode
e riciclaggio di denaro... collabora con i federali, trascorre 22 mesi in
prigione ed è costretto a rimborsare le 1513 persone che ha truffato (per un
totale di 11 milioni di dollari), anche le sue proprietà (per un valore di 10
milioni dollari) sono confiscate.... quando esce dal carcere si esibisce sui
palcoscenici statunitensi come motivatore sacerdotale per fare soldi[3]. Il lupo
di Wall Street non è mai stato lupo, lo ha potuto sembrare, perché il balzo
nell’estasi del potere è possibile là dove l’ottimismo dei vinti non chiede
conto — con ogni mezzo necessario — ai giannizzeri della finanza delle loro
ladrerie.
I
guasti della crisi sociale, crisi ecologica, crisi democratica... sono una conseguenza
di decenni di liberismo studiato da una minoranza di arricchiti a spese
dell’impoverimento dell’intero pianeta. La paralisi indotta della politica è
assicurata... sono i tecnocrati e il mercato che fanno le leggi e non ci sono
né destre né sinistre che tengono... non si è mai avuta così tanta produttività
e nemmeno così tanta disoccupazione... la delocalizzazione priva molti paesi di
regole sociali, etiche e ambientali e occorre fermare la speculazione delle
banche (e il servaggio della politica) prima che questi criminali impuniti
possano ancora produrre guerre, diseguaglianze e povertà. Il lavoro non è una
merce e non potrà mai esservi felicità là dove non si sviluppa un’economia
sociale e solidale. “L’economia sociale e solidale mira a produrre e
distribuire più equamente la ricchezza, a stimolare un progetto economico che
sia più rispettoso delle persone, dell’ambiente e del territorio. È un’economia
che unisce anziché dividere, che ha già dato prova di efficienza e che può
svilupparsi in tutti i campi” (Pierre
Larrouturou)[4]. La
disperazione, l’opportunismo e il volto umano della globalizzazione che
fuoriescono dai mercati finanziari sono protagonisti di un’indecenza inaudita
(che va disvelata, svergognata, aggredita), figurano il trionfo dell’avidità e
contengono lo spettacolo di una civiltà senza domani.
Il
successo al cinema, come nella vita, è sempre sospetto... i parassiti dell’arte
di comunicare e i politici (o i prelati) dell’ordine costituito non lasciano
niente all’improvvisazione o all’ispirazione... solo i poeti del colpo di mano si salvano dal nulla...
non c’è pensiero vivo, autentico o fecondo che ha inciso sul reale senza prima
avere gettato alle ortiche la memoria storica che aveva assimilato... è la coscienza
resistenziale che interviene nei nostri atti pubblici e privati, e la coscienza
è una perpetua messa in discussione della vita autentica che respinge ogni
fatalità. L’essenza dell’uomo è la verità, l’essenza della verità è la rivolta
libertaria.
II. The Wolf of Wall Street
Parte seconda. The Wolf of Wall
Street è una commedia, che molti hanno confuso con una brillante analisi
antropologica sull’avidità del sistema bancario che domina il mondo... vero
nulla. Martin Scorsese (regista ampiamente sopravvalutato sin dagli esordi,
autore, dicono, di almeno tre capolavori: Taxi
Driver, 1976; Toro scatenato,
1980; Quei bravi ragazzi, 1990; e
forse Toro scatenato è davvero un
grande film), architetta The Wolf of Wall
Street su diversi piani... contamina la commedia con elementi del musical,
più ancora, infilza nel film lunghe
sequenze d’impianto attoriale tipiche dell’imbonitore televisivo... DiCaprio,
risulta a tratti quasi ridicolo e gli attori di contorno non lo sono di meno...
il cammeo di Matthew
McConaughey (premiato giustamente con l’Oscar come migliore attore per il film Dallas buyers club, 2014) è addirittura così forzato da
scadere nella macchietta di costume. Non c’è storia che non sia scritta da
uomini che la storia non ha fatto fuori.
Il film. Alla fine degli anni ’80, Jordan Belfort è un broker
(procacciatore d’affari), in seguito ad un crollo finanziario della Borsa,
viene licenziato e passa dalla banca L.F. Rothschild a un call center... di lì a poco, insieme a un amico (Donnie Azorf) e
una banda di spacciatori di droga... fonda l’agenzia di brokeraggio Stratton
Oakmont... si specializzano in truffe bancarie, in poco tempo si arricchiscono
e sono oggetto dell’attenzione dei media (la rivista Forbes pubblica un articolo contro Jordan, ma al contempo lo
investe di sensazionalismo). Jordan diventa cocainomane, morfinomane,
megalomane, onanista... costruisce il suo regno sull’estorsione, l’imbroglio,
la contraffazione... in una sola operazione finanziaria condotta a spese di un
grande produttore di scarpe, guadagna 22 milioni di dollari e trasferisce il
ricavato delle sue rapine in conti truccati svizzeri (a nome della zia Emma).
Un’inchiesta del FBI spedisce in galera il banchiere svizzero (che lo
proteggeva) e Jordan... per salvarsi il culo da venti anni di reclusione Jordan
denuncia i suoi collaboratori... ottiene una pena di 36 mesi e quando esce diventa
uomo-spettacolo sulle strategie di vendita. Fine di un’inizio. L’oracolo continua.
L’esuberanza di Belfort (DiCaprio) è forgiata sul compiacimento... la
macchina da presa di Scorsese lo incastona in modo quasi febbrile nel suo
esibizionismo ed è funzionale al film quanto all’immaginario reverenziale che
molti hanno verso quel covo di serpi che è Wall Street. I comportamenti
ossessivi, vagamente impudici, anche grotteschi del personaggio, tuttavia lo
spostano verso la simpatia del pubblico... c’è perfino un miracolo... quando
una tempesta investe il suo yacht e lui e la sua adorata famiglia sopravvivono
a un’onda alta quanto la muraglia cinese. Molte sequenze sono fuori misura...
il cinismo e il profitto personale fuoriesce dallo schermo in maniera
accattivante... anche le sequenze dove Belfort è offuscato dalla droga sono
simpatiche (girate con la leggerezza della commedia giovanilistica)... il nudo
piacevole (DiCaprio però non ha nemmeno un bel culo), donne e uomini si
lasciano tentare da fantasie erotiche estreme, ma ogni cosa è di un finto
patinato che oscilla tra le pagine di Play Boy e le aberrazioni sessuali della
santa romana chiesa.
Tra i produttori si leggono Scorsese e DiCaprio... che bene sanno come
confezionare un film a misura di un pubblico planetario avvezzo alla mediocrità
spettacolare della “scatola delle illusioni”. La sceneggiatura (tratta
dall’autobiografia di Belfort) di Terence Winther, affastella luoghi comuni e
inclinazioni al fotoromanzo televisivo. La fotografia di Rodrigo Prieto è tutta
giocata sulla fascinazione del formato
anamorfico[5] che,
specie in esterni, configura al film una sorta epopeica della ricezione, ma
nella sostanza risulta manichea o falsa. La musica di Howard Shore è spalmata
quasi in ogni sequenza e fa da supporto estetizzante ad un montaggio (Thelma
Schoonmaker) quasi da film western, che nulla c’entra o poco con la mancata
drammaticità del film. La catenaria di attori... DiCaprio, Margot Robbie, Jonah
Hill e tutti i comprimari... sfoderano una sequela di vezzi, mossette, eruzioni
verbali che lasciano nello spettatore attento alla struttura filmica, qualcosa
che ha a che fare più con la chiaccihera psicoanalitica (alla Woody Allen, per
intenderci), che con un dramma sociale. La macchina da presa di Scorsese è abile...
si muove addosso agli attori quasi a sorreggerli e incastona inquadrature deliranti
(le feste, gli amici che si drogano, la moglie di Belfort) a godute visioni di
New York... da dimenticare. Meglio andare a fare l’amore su una spiaggia o scolarsi
qualche bicchiere di vino buono con un amico, in un’osteria di periferia.
The Wolf of Wall Street, più di ogni cosa, afferma la tolleranza
del potere (anche se sembra denunciare il contrario), la possibilità che tutti
possono diventare lupi (o leoni, questo era il marchio della società di
Belfort), e c’è una benevolenza del sistema bancario che se da un lato stritola
chi non è all’altezza di efferate violenze, dall’altro lascia sempre un posto
aperto a nuovi complici dell’autocrazia finanziaria. Un po’ di galera,
un’autobiografia di successo e un ruolo di intrattenitore mediatico non si
possono negare a nessuno, se poi questi è stato un famelico affamatore di
migliaia di persone e ha fatto qualche mese di galera, la pena è saldata e
l’ingiustizia cancellata. Bagatelle per un massacro, diceva... ma è un motto di
spirito... la politica della restaurazione è la condizione necessaria per la
sopravvivenza della civiltà dello
spettacolo... la soggezione, la sua sostanza... essere compresi è una vera
sfortuna per un autore di talento come Scorsese... saper vedere dentro un film,
nella politica o nelle religioni significa cessare di essere ingannati... ogni
persona, come ogni epoca, possiede una verità solo grazie alle proprie esagerazioni,
alla capacità intima di devalorizzare i falsi idoli e detronizzare il tanfo dei
despoti. Fare della decadenza dell’ammirazione e del culto della merce l’arte
del dissidio, e dare vita al disfacimento del cinema al di sopra del cinema. La
maggior parte della finanza, della cultura, della politica è riconducibile a un
crimine di leso linguaggio, a un crimine contro l’umanità.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 11 volte marzo 2014
[1] Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi,
1979
[2] Jordan Belfort, Il lupo di Wall Street, Rizzoli, 2008
[4] Pierre Larrouturou, Svegliatevi! Perché l’austerità non può
essere la risposta alla crisi, Edizioni Piemme, 2012)
[5] Formato anamorfico è un termine che può essere utilizzato sia per
la tecnica cinematografia di affabulazione di una immagine in formato widescreen (schermo largo) su una
pellicola da 35 millimetri o altri dispositivi di registrazione visiva, con una
visione originaria non widescreen,
sia a un formato di proiezione cinematografica in cui l'immagine originale
richiede una lente anamorfica per
ricreare le proporzioni originali. Non deve essere confuso con il widescreen anarmorfico, che è un sistema
elettronico di codifica video che utilizza dei principi simili al formato anamorfico ma utilizzando una
differente metodologia. La parola anamorfismo
deriva dal greco e significa forma
ricostruita.
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