“Tra dieci anni ti chiederanno cosa facevi il 14 febbraio 2004…”. Ebbene, quel giorno tragico che Marco Pantani moriva, io tagliavo il traguardo della gran fondo di sci della Val Casies, dopo 42 km di dura fatica. Alla notizia mi prese un'irrefrenabile sconforto. Mi nascosi sotto la doccia e piansi.
“NON SO SE CI SARÀ UN ALTRO GIORNO”, disse sconsolato Marco all'amico che lo rincuorava. Ora, a distanza di 10 anni, molte cose si sono dette e scritte (tante e diverse tra loro), ma quel 14 febbraio è ancora avvolto da dubbi, perplessità, piccole schegge di verità, nessuna bastante a spiegare il peso della croce che Marco Pantani si è portato appresso e placare l'ansia di chi “porta la sua lanterna nel buio della vita”.
L'ultima fuga della carriera, della vita. Un scatto irresistibile, come ai bei tempi, da lasciare tutti indietro, lontani. Marco Pantani è morto in una solitudine disumana. Non faceva niente, non incontrava nessuno, non gli interessava vivere perché lui era già morto nel giugno del 1999, a Madonna di Campiglio, quando la sua corsa infinita si è fermata tra due carabinieri.
«Nella galleria delle morti scandalose, l'idroscalo di Ostia e il residence «Le Rose», stanno sullo stesso piano: la solitudine e l'odio uccidono i geni, gli eroi, che stanno, nella storia larga della poesia, anche fuori della disciplina stretta (come ci ha insegnato, più di tutti, il poeta Roberto Roversi, col suo Nuvolari). Gridi-nomi della poesia e del ciclismo o automobilismo, del tempo moderno e di ogni tempo, che senza di loro non avrebbe nulla di veramente autentico da mostrare al proprio attivo, ma, allo stesso tempo, figure di un nero particolarmente scandaloso, costernante, sinistro, lugubre, e subito rimosso, in forma di accusa di droga o di sesso. E come l'assassinio sembra un suicidio, per Pasolini, così il suicidio pare un omicidio, per Pantani». Così scriveva il poeta Gianni D'Elia su l'Unità il 31 marzo 2004.
Siamo riusciti, “noi”, in poco tempo, a trasformare chi in vita ci ha fatto ricchi di sport (fino ad esaltarne le gesta), in un poveretto, un drogato, un semplice ricordo, morto.
Chi ci ha fatto volare, gioire, piangere, ridere… non lo ha fatto solo per sé ma anche per noi, perché noi volevamo essere lui. Così disinteressatamente che nessuno sa che rischia di essere “l'altro” delle migliaia di morti lungo le strade di un agonizzante traffico automobilistico (altrimenti eviterebbe di prendere l'auto). Ci siamo disfatti dell'atleta prima, dell'uomo poi, e del cadavere - un imbarazzante ingombro - seppellendolo con la nostra sporca coscienza. In quella bara non c'era solo Pantani ma tutto il ciclismo, noi stessi che lo abbiamo coccolato. Per questo doveva essere normale chiudere un giro, un tour, non un minuto ma un anno, per pensare a chi siamo diventati, a cosa è diventato il ciclismo! Chi ha fatto spettacolo di sé per un tozzo di pane e non ha chiesto altro, chi è rimasto se stesso sconosciuto, ma chi invece, per tanta gloria e soldi, è diventato “prodotto di consumo”, non lo ha fatto senza di noi, ma con noi e per noi.
È la macchina del profitto, inesorabilmente, a travolgere le passioni, ridurle a pura superficialità e cinismo. Quando qualcosa si inceppa, a fornire alibi che guariscono l'ambiente dai virus del doping e del sospetto si trovano “capri espiatori”, vittime occasionali a suffragio… Saranno “loro” e non “altri” a pagare. “Loro”, che non potranno far altro che subire e abbandonare perché non c'è lotta che vinca e guarisca il male del sospetto. Quando “l'aurea” viene tolta (e non interessa come te la sei guadagnata), viene tolta la fiducia riposta e con essa la carica vitale per continuare…, della riscossa e della vita, dei consiglieri e degli amici, te ne cominci a fregare.
E non c'è spiegazione più penosa, vergognosa, umiliante di tutte le spiegazioni scientifico-specialistico-sportive che scaricano sulla debolezza/fragilità del “vivente” la responsabilità della sua caduta. Come se la colpa fosse là, nella struttura di un uomo, di un campione sputtanato, umiliato, reso zimbello e non nelle “faide” dell'ambiente ciclistico fatto di interessi, di omertà, di discriminazioni, di personaggi prezzolati. Tanta irresponsabilità mista a cinismo e falsità e una sottile falsa retorica che si nasconde dietro chi non vuol vedere questa morte come una sconfitta per lo sport. La struttura di Marco Pantani era forgiata di fatica e sudore da sostenerlo dovunque giravano le ruote della bicicletta, ma niente poteva contro un ambiente ipocrita che ormai lo respingeva. Non lo hanno ammazzato gli incidenti, la sfortuna, le intemperie o le discese ardite, ma la gloria, la noia o le leggi dello Stato che fondano il “diritto di esserci” nella perseveranza della loro interpretazione, presa a giustizia, che il più delle volte è l'esercizio del rendere visibile il “mestiere”, non la giustizia. Perché è (poco) probabile che ci sia stato uno ieri “pulito” nello sport, ma è (quasi) sicuro che oggi nessuno - e a tutti i livelli del professionismo - pratica lo sport senza l'aiuto della farmacologia più o meno dopata.
Probabilmente anche Pantani, mentre veniva suicidato, sentiva su di sé l'angoscia di questo mondo sconvolto; non solo da guerre, fame, miseria, ingiustizie, ma anche dall'impossibilità di risanarlo, da riempirlo di sdegno e indifferenza e sentirsi così impotente e solo, pur nella grandezza di cosa era stato, da desiderare il silenzio totale, il buio, e chiudersi dentro per ritrovarsi in un altro mondo e ricominciare da capo.
Con grande nostalgia, Pirata.
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