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venerdì 7 febbraio 2014

CINEMA, RETE E NUOVE FORME DI LOTTE SOCIALI, di Pino Bertelli

“È deplorevole per l’educazione della gioventù che i ricordi sulla guerra
siano sempre scritti da gente che la guerra non ha ammazzato”.
Lousi Scutenaire

Ouverture. Nell’epoca della Rete (il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia mai conosciuto) non è più possibile sostenere la menzogna né impedire la libera circolazione delle idee e il disvelamento dei soprusi. L’agorà virtuale induce a un’espansione dei diritti alla sfera pubblica e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione affidano il compito di costruire dal basso nuove forme di democrazia partecipata. Le rivolte popolari, in ogni parte del mondo, annunciano la caduta di regimi secolari e richiedono il diritto di far circolare — liberamente — attraverso la Rete pensieri, scritti, immagini... creare occasioni di redistribuzione dei saperi per non cedere alla passività e alla sottomissione. “La rivoluzione dell’eguaglianza, mai davvero compiuta, l’eredità difficile, la promessa inadempiuta del secolo breve, è oggi accompagnata dalla rivoluzione della dignità. Insieme hanno dato vita a una nuova antropologia, che mette al centro l’autodeterminazione delle persone, la costruzione delle identità individuali e collettive, i nuovi modi d’intendere i legami sociali e le responsabilità pubbliche” (Stefano Rodotà)[1]. Tutto vero. La fame di democrazia ha spinto persone di ogni estrazione sociale a protestare per il rispetto dei diritti più elementari dell’uomo e cambiato la consapevolezza di molti con la compassione, il sacrificio, il coraggio e la gentilezza, anche... gettato le basi per la rivoluzione dei beni comuni.


I. Sul cinema dei diritti umani di Napoli

«E' davvero sorprendente, e tuttavia così comune che c’è più da dispiacersi che da stupirsi nel  vedere milioni e milioni di uomini servire miserevolmente, col collo sotto il giogo, non costretti da una forza più grande, ma perché sembra siano ammaliati e affascinati dal nome solo di uno, di cui non dovrebbero temere la potenza, visto che è solo, né amare le qualità, visto che nei loro confronti è inumano e selvaggio...
Questo tiranno solo, non c’è bisogno di combatterlo, non occorre sconfiggerlo, è di per sé già sconfitto, basta che il paese non acconsenta alla propria schiavitù. Non bisogna togliergli niente, ma non concedergli nulla... Vi sono tre tipi di tiranni: gli uni ottengono il regno attraverso l’elezione del popolo, gli altri con la forza delle armi, e gli altri ancora per successione ereditaria...
Oggi non fanno molto meglio quelli che compiono ogni genere di malefatta, anche importante, facendola precedere da qualche grazioso discorso sul bene pubblico e sull’utilità comune...
Siate decisi a non servire più, ed eccovi liberi».
Étienne de La Boétie (1530-1563)


Il Festival del cinema dei diritti umani di Napoli da anni è un rizomario di culture e politiche che portano alla luce della verità, della giustizia e della bellezza, voci, corpi, volti delle periferie invisibili del mondo. È un Festival senza “tappeto rosso”, senza divi né imbonitori della ragione unica... che sparge nelle strade di Napoli la gioia autentica e le lacrime secolari dell’oppressione a ricordo che un’umanità più giusta e più umana è possibile... è un vento di libertà che soffia ai quattro angoli della terra e mostra che una cultura, una politica, una religione, una nazione, un popolo... muoiono quando tollerano le verità che li escludono.
La scabbia del cinema mercantile resta fuori da questo Festival del disinganno che rifiuta la cultura dell’ostaggio mercantista e fa di Napoli la città del sole o dei destini incrociati dove lo stupore e la meraviglia s’incontrano e figurano l’eccellenza di una situazione culturale separata dalla spettacolarità dei poteri dominanti. Il disordine delle passioni coincide con l’ordine delle idee in libertà che mettono fine alla secolarizzazione del dolore, mostrano di avere l’orgoglio di non comandare mai, di non disporre di niente e di nessuno, senza subalterni e senza padroni, né dare né ricevere ordini, amare il diverso da sé e fare della “scatola delle illusioni” la più bella storia della nostra vita. Un Festival del cinema dell’uomo per l’uomo che si apre a scenari della conoscenza e senza il terrore di diventare santi, martiri o eroi (che sono gli idoli degli idioti della cultura/politica imperante) irrompe al fondo della vita quotidiana degli ultimi, degli esclusi, dei “quasi adatti” e sviscera il fuoco autoritario che li brucia e quello libertario che li resuscita a nuova vita.
La macchina/cinema, va detto, disciplina la domesticazione sociale, persevera entusiasmi beoti, alleva sentimentalismi ridicoli e nel cimitero della benevolenza — di festival in festival o feste del cinema — dissemina una nidiata di carogne che risplendono moribonde nello spettacolo che danno di sé... la produzione predominate del cinema (anche quella dei più dotati) partecipa alla desertificazione delle idee, dei sogni, delle utopie per incensare le riserve mercantili dei privilegiati e costruire opere che vanno bene tanto ai padroni del consenso (non solo elettorale) e ai manganelli delle polizie... in una società fondata sulla miseria, i prodotti più miserabili hanno la fatale prerogativa di servire all’uso di una minoranza (détournando il cattivo edonismo di Marx) e congelare la trasformazione rivoluzionaria del mondo.
Nel Festival del cinema dei diritti umani circolano opere inospitali al mercato, sia per la loro costruzione estetica e spesso per l’etica eversiva che contengono... ci sono film di animazione che propongono una resistenza attiva contro la morale da cialtroni di successo della bottega disneyana/hollywoodiana che continua a regnare sull’impoverimento della fantasia e riprodurre la dottrina dell’imbecillità, non solo dei più piccoli. Quest’anno abbiamo visto un piccolo gioiello di animazione della regista iraniana Sarah Tabibzadeh, Lady with flower-hair (2012, 15') che meriterebbe davvero un pubblico più vasto. E l’avrà certo.
È una storia che parla delle donne iraniane (ma la metafora vale per tutte le donne vessate, indifese, violate della terra) e mostra che la liberazione della donna parte da loro stesse, senza pensare mai che qualsiasi uomo, anche il più “progressista”, possa davvero comprende la cultura amorevole della differenza. Va detto. Il passaggio a un’epoca nuova della donna  liberata non può avvenire attraverso la semplice negazione di ciò che esiste, ma nella fine del delirio che la cultura maschile opera sui corpi delle donne. “Mentre il corpo femminile genera nel rispetto dell’altro sesso, il corpo sociale patriarcale si edifica gerarchicamente, escludendo la differenza” (Luce Irigaray) e le difformi, le atipiche, le sovversive vanno emarginate, nascoste, svergognate... la sessualità senza steccati delle donne è il peccato e va recisa... abituati all’uso del bastone, del fucile o dell’indifferenza, gli uomini tendono a distruggere ciò che  le donne in rivolta hanno acquisito (in vampate di ribellioni)... il sesso come identità o come bene da condividere è sconosciuto all’uomo e la mutazione di questa situazione di possesso (violento) dell’uomo sulla donna potrà avvenire soltanto con il cambiamento del linguaggio di relazione e una diversa valorizzazione del genere femminile. Se la terra è donna, il cielo non è solo suo fratello, ma l’amico, l’amante (non importa se dello stesso sesso), il compagno di strada con il quale rovesciare morali e pregiudizi e fondare una civiltà dell’amore dove amare se stessi, il proprio sesso, l’altro sesso, sono i presupposti di una vita autentica e felice.
Lady with flower-hair parla di una donna in solitudine, attraversato da una salace ironia tutta al femminile, anche... la donna fiorita alleva la sua curiosità culturale fuori dalla segregazione dell’impronta maschile che la vuole “velata” di tutti saperi, emozioni, delle quali è capace di sentire e trasmettere... i suoi capelli sono fiori che innaffia per amare ed essere amata ma incontra solo incomprensione e sofferenza, allora si taglia via dalla vita e si ritrova in un campo fiorito di donne che come lei sono state suicidate dall’arroganza maschile e dall’ottusità di una società malata di protagonismo. Per essere donna bisogna soffrire, per diventare uomini aridi in tutto, basta essere stupidi.
La delicatezza dei colori, la semplicità delle animazioni, la fluibilità della narrazione fanno di questo film abrasivo una sorta di accusa sublime al potere ancestrale che nemmeno si accorge della sua imperfezione o caducità e continua a partorire altari dove non c’è nulla di sacro, semmai di stupido. La menzogna porta con se la banalità dell’impostura e il sigillo del tradimento... la verità non può essere salvata che dalla verità e quando la verità insorge contro la morale di secoli impoveriti d’amore è un atto rivoluzionario. Tagliare le ali alle giustificazioni significa fare della sovversione non sospetta il canto di tutte le libertà a venire.
L’abbiamo scritto altrove e lo ribadiamo qui: “Fai di ogni lacrima una stella e dell'amore un fiore di vetro colorato che accompagna i tuoi sorrisi nel tempo. Consegna il tuo sogno alla sensualità delle anime belle e i tuoi silenzi inzuppati d'amore profumeranno di dolcezza e di rosa. Amare significa cambiare per qualcuno e insieme a qualcuno. L'amore viola i limiti della sofferenza, per fiorire sui sorrisi della libertà. L'amore si mostra solo all'amore. La surrealtà dell'amore afferra ciò che ci sfugge e insegna a lottare nella trasparenza dei sogni. Il coraggio di amare significa vivere anche la diversità, accettare la solitudine di noi e tra noi, che si fa vita. Ti puoi dimenticare con chi hai riso, ma non ti dimenticherai mai con chi hai pianto”. Il genio comincia sempre col dolore.
Il Festival dei diritti umani di Napoli, occorre sottolineare, è un coacervo di situazioni culturali e politiche dove non c’è alcun bisogno di credere a una verità per sostenerla, né di amare una realtà, anche la più cruda, per denunciarla... dato che ogni verità ed ogni realtà sottratta ai costruttori del silenzio è dimostrabile in ogni avvenimento dove l’immaginazione prende il potere, non per possederlo ma per meglio distruggerlo. I piccoli film, le mostre fotografiche, gli interventi degli autori, la gente che partecipa (a gatto selvaggio) alle giornate di questo cinema dei diritti umani riscrivono la storia universale del male e contribuiscono a togliere i veli istituzionali dei disagi e disastri del divenire... nelle loro opere, parole, commozioni si coglie la malinconia di una gaia scienza di liberazione e i desiderata di una socialità fraterna inascoltata soltanto da coloro che l’hanno fatta perire... l’insurrezione dell’intelligenza, del resto, fiorisce sempre in epoche in cui le convinzioni, i proclami, i valori, le morali avvizziscono e i loro fautori si aggrappano agli scranni della politica come porci in un letamaio. Tutto quello che so l’ho imparato dai poveri, dagli sfruttati, dagli indifesi, dagli oppressi, dalle donne di strada, dai bambini con i piedi scalzi nel sole o con la pioggia sulla faccia... all’infuori dalla bellezza e dalla giustizia, tutte le iniziative massacrate o promesse di felicità tradite, sono senza valore. Per difendere la bellezza i greci presero le armi (Albert Camus, diceva) e quando i popoli si accorgeranno della fame di bellezza che hanno nel cuore, ci sarà la rivoluzione nelle strade della terra.

II. Ni un pibe menos (Appunti per un documentario)

Il comandamento principale del giornalismo tutto, è la “Regola delle 5 W”:

— WHO («Chi»)
— WHAT («Che cosa»)
— WHEN («Quando»)
— WHERE («Dove»)
— WHY («Perché») 

(Una regola in massima parte tradita dai giornalisti a libro paga di padroni legati a corruzioni politiche e cosche criminali, collusi con tutte le forme di potere e servitori della dittatura del consenso).

Nella periferia invisibile di Zavaleta (Buenos Aires), dove narcotrafficanti, polizia e politici hanno le mani sporche di sangue innocente, il giornalista di un importante quotidiano argentino, che ha sentito parlare della rivista La garganta poderosa (scritta da ragazzi e sostenuta dalle assemblee degli altri quartieri periferici della capitale), dopo essere andato a messa va nel barrio e chiede a “Kiki”, 14 anni, uno dei redattori, se conosce  la “Regola delle 5 W”?
“Kiki” risponde, certo:

— Perché?
— Perché?
— Perché?
— Perché?
— Perché?

E non l’hanno nemmeno insignito del premio Pulitzer.

Il Festival dei diritti umani di Napoli ha prodotto un piccolo film, ancora in fase di finitura. L’abbiamo visto alla presenza dell’autore e delle persone che con le loro poche forze economiche hanno permesso la realizzazione (ancora in fase di progetto) di Ni un pibe menos. Appunti per un documentario (2013). Alla visione con i ragazzi di una scuola superiore di Scampia (Napoli) c’era anche uno dei protagonisti del film, del quale non possiamo fare il nome, perché nella periferia estrema di Buenos Aires dove vive, le pallottole dei trafficanti di droga e della polizia mirano sempre al cuore della libertà. Come sappiamo, nelle periferie invisibili della terra nessuno rilascia certificati di amorevolezza a quanti rivestono i propri sogni di amore verso chi non ha voce né volto... per avere un posto onorevole in ogni società, basta essere dei criminali, dei politici, dei commedianti, rispettare il gioco delle parti e condurre una vita da schiavi... il cinismo, l’arroganza, l’odio s’impara nelle macellerie dell’ordine costituito, la fierezza, la fratellanza, la condivisione, s’impara nella strada, nella comunità, nella vivenza tra liberi e uguali.
Ni un pibe menos nasce da un’idea di Giovanni Carbone, la regia è di Antonio Manco. La sceneggiatura è fatta sul campo, in un quartiere di periferia (tra i più poveri) di Buenos Aires (Zavaleta). Manco si avvale della collaborazione dei referenti della rivista la Garganta poderosa, e tratta dei crimini impuniti, la violenza dilagante del quartiere (villa) ignorato dal paese, abbandonato a se stesso, senza il minimo di sicurezza garantita. La povertà è senza difesa e la violenza passa dove è passata la politica parassitaria. L’innocenza muore per prima, come ad Auschwitz sono i bambini, le donne e i deboli a passare per primi nelle camere a gas... nelle democrazie dello spettacolo bastano una pallottola dei narcotrafficanti, della polizia e gli indici della Borsa a cancellare il volto della bellezza.
Ni un pibe menos racconta l’omicidio di un bambino di 9 anni (Kevin) ma anche dello spirito rivoluzionario e gli ideali di libertà che animano la comunità di Zavaleta. Qui è nata una rivista, La Garganta Poderosa, fatta da ragazzi e sostenuta dalle cooperative del quartiere. Il motto della redazione è preso da una frase di Rodolfo Walsh, un giornalista coraggioso ammazzato dalla dittatura argentina: “Il giornalismo o è libero o è una farsa”. Tutto vero. La Garganta è un grido di rivolta contro i bravacci del male, Poderosa è il nome della motocicletta Norton 500 M 18 di Ernesto “Che” Guevara. In copertina c’è sempre un volto che grida e spesso sono facce di argentini che hanno avuto successo nello sport, musica, cinema o gente del popolo. È una rivista che spazza via duemila anni di codici, regole, sermoni che hanno edulcorato o nascosto le nefandezze di ogni potere. Qui l’umanità sorge amorosamente contro gli eventi che la negano.
In una nota dei curatori del Festival dei diritti umani che accompagna Ni un pibe menos si legge: “Non sappiamo qual è il punto preciso delle controversie, né da dove vengono, né perché sembrano concentrarsi tutte negli stessi luoghi, quelli di sempre: piazza Kevin, Zavaleta, nella provincia di Buenos Aires, è uno di questi. Non lo sanno nemmeno le forze di sicurezza che, in teoria, dovrebbero sorvegliare e tutelare la sicurezza del quartiere. Quello che sappiamo è che il 7 settembre 2013, a causa di una sparatoria tra narcos durata tre ore e nella quale sono esplosi 105 colpi di arma da fuoco, tra pistole e fucili, nascosto sotto il tavolo di casa sua, perdeva la vita Kevin, 9 anni, colpito da un colpo alla testa.
Dopo questo avvenimento che ha scosso l’intera comunità di Zavaleta, gli abitanti del quartiere si sono uniti affinché ciò non accada più e soprattutto non più nell’indifferenza comunicativa della quale sono vittime. Hanno così istituito un organo di controllo verso le forze di polizia inadempienti, non solo per comunicare e informare l’opinione pubblica, denunciando le inadempienze delle forze di sicurezza ma soprattutto per opporsi alla continua tragedia sotto un solo grande lemma: “Ni un pibe menos, ni una bala mas” (Non un bambino in meno, ne una pallottola in più).
Dopo appena tre mesi dal tragico evento in cui ha perso la vita Kevin, siamo nuovamente testimoni di uno scontro a fuoco, anzi due, a distanza di poche ore. La sera del 10 Dicembre 2013 sono stati feriti con colpi di arma da fuoco un uomo (38 anni) e un ragazzo (13 anni) rispettivamente alla spalla e alla mandibola; appena dopo la perizia balistica del corpo specializzato della polizia, lo scontro a fuoco si ripete, ferendo prima all’addome un ragazzo innocente che passava nel quartiere (16 anni) e poi perforando lo stomaco di un bambino di appena 2 anni tra le mura di casa sua. Le forze di sicurezza, pur essendo a 100 metri dal luogo dell’accaduto hanno, come sempre, girato gli occhi altrove lasciando campo libero alle bande. Nel contempo, questa zona è ignorata dai mass media che elemosinano un po’ di attenzione a Zavaleta solo quando ci scappa il morto mentre tutto il lavoro di denuncia dell’invivibilità di questo quartiere, portato avanti dal comitato di assemblee di vicinato chiamato la ‘Poderosa’, sembra non interessare loro”.
Il regista di “Ni un pibe menos” si accosta alla comunità di Zavaleta con grazia, tenerezza, rispetto verso una popolazione in difficoltà, sovente estremizzata, tuttavia uomini, donne, bambini lasciano sullo schermo la dignità, la bellezza, la gioia di vivere che nessuna infamia criminale o politica potrà vincere. La telecamera di Manco entra nella povertà del quartiere senza giudicare, s’accosta ai balli, ai corpi, alle posture, ai volti delle persone vicine tra loro... figura la solidarietà, la franchezza, la condivisione degli ultimi e tutto il racconto filmico trasuda del pane condiviso. La festa della comunità in piazza Kevin, il ricordo austero di Kevin al cimitero, l’attacchinaggio dei volantini dell’uccisione del ragazzo nelle strade notturne di Buenos Aires, i vicoli senza fogne del ghetto... lasciano trasparire una quotidianità difficile, anche crudele, ma non vinta. Il ritratto della famiglia del ragazzo ucciso è toccante... il fratello, la madre, il padre si stringono nel ricordo di un’ingiustizia subita e al contempo rispondono con la forza di chi porta in sé i semi della giustizia a venire... i poliziotti sono ripresi sempre a una certa distanza, quasi espulsi dall’inquadratura, non sembrano emanare un buon odore... straordinaria la chiusura: la madre di Kevin è sulla soglia della sua modesta casa, di lato un poliziotto armato è pronto ad imbracciare il fucile, ma non per proteggere le speranze degli umili, i perseguitati, forse per mantenere uno stato di cose dove la protervia dei  persecutori continua a spargere terrore e morte. Sul cancello di una casa di fango e lamiere si legge: “Ni un pibe menos, ni una bala mas” (Non un bambino in meno, ne una pallottola in più). Fine.
L’idea affabulativa di Giovanni Carbone (dalla quale parte il film) è la medesima di Nietzsche, il bene di un uomo vale il bene di tutti gli uomini e chi non conosce le ricchezze della povertà non può parlare di amore tra gli uomini. La sofferenza, il dolore, il tormento sono strumenti di tortura e vanno aboliti... felicità, vitalità, gioia sono i nutrimenti di infanzie intramontabili e utensili con i quali smascherare la storia e la politica che li opprime. Di più. È un’indicazione a creare forme di resistenza sociale e lottare contro gli oppressori e contro gli sfruttatori, e avviare processi di emancipazione di una società in marcia verso la libertà. Con la libertà la povertà non è miseria, senza la libertà la stessa miseria diventa l’inferno dei vivi. L’uomo in libertà sa bene che “la politica e il destino degli uomini sono foggiati da individui senza ideali e senza grandezza. Chi ha una grandezza in se non fa politica... (Albert Camus, diceva) ma si schiera con gli uomini in rivolta che l’abbattono. La distruzione dei miti porta con se quella dei pregiudizi. “Visto che non viviamo più i tempi della rivoluzione, impariamo a vivere almeno il tempo della rivolta” (Albert Camus, ancora). Acconsentire significa vivere in ginocchio, combattere per la propria dignità vuol dire sottrarre il consenso al potere. Si tratta di non accettare il mondo così come è, rompere le catene della paura, collocarsi nella situazione del ribelle che ha come causa la fine della giustizia ingiusta. Respingere dappertutto l’infelicità.
La telecamera di Manco è affettiva, danza leggera alla fine del mondo, più ancora denuncia il diritto della forza con la forza del diritto e di fronte ai princìpi delle istituzioni e alle connivenze con il crimine, mette la persona umana al di sopra dello Stato... la ferocia legittimata dai poteri forti è respinta e la brutalità del loro operato disvelata... la colpa rimane, sembra dire, ma non è il silenzio che la cancella, semmai la rivolta. Il montaggio di Luigi Marmo è un contrappunto di avvenimenti, insieme alla musica di Giuseppe Perrone e alle canzoni di protesta argentine che attraversano il documentario, restituiscono la freschezza di una comunità che non s’inchina davanti all’umiliazione sociale... dove la vita è privata di tutto l’autenticità dei desideri che insorgono contro i falsi bisogni dell’economia parassitaria è necessaria... le assemblee villere di Zavaleta rifiutano le rovine di una civiltà mercantile e in forme cooperative si oppongono alla genuflessione di una vita moribonda... la felicità si crea e non si mendica, si fonda sulla divisione delle ricchezza per il maggior numero e ogni forma di governo è da reinventare. “Noi abbiamo conosciuto del meraviglioso soltanto la sua ombra, la strega piuttosto che la fata. Noi vogliamo misteri  che non nascondono più orrori. Il semplice stupore di una vita sconosciuta” (Raoul Vaneigem). Ni un pibe menos, ni una bala mas è un punto di vista documentato che affina uno stile di vita in cui abolisce il fiato predatorio/criminale di ogni autoritarismo. Dal fondo di una periferia argentina, i figli di un mondo devastato dalle fedi, saperi, ideologie, mercati... provano a rinascere in un mondo tutto da creare. Dare la parola alle capanne, accendere il fuoco ai palazzi nell’ora del tè, sono alla base dell’estinzione della povertà. L’innocenza del divenire è tutta qui. L’obbedienza non è mai stata una virtù. A conti fatti, la civiltà della fratellanza non ha bisogno di fucili né di preghiere, basta il riconoscimento della vita liberata e imparare a diventare umani è la sola radicalità che mette fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

II. Il film clandestino su Liu Xia,
(artista, poeta, fotografa cinese, agli arresti domiciliari perché moglie
del premio Nobel per la Pace ( 2010) Liu Xiaobo,
gettato in carcere in quanto attivista dei diritti umani).

I. La libertà negata

Al Festival dei diritti umani si è potuto vedere anche il film clandestino su Liu Xia, artista, poeta, fotografa cinese, agli arresti domiciliari perché moglie del premio Nobel per la Pace ( 2010) Liu Xiaobo, gettato in carcere in quanto attivista dei diritti umani, al quale abbiamo dato un titolo che la visione del film ci ha suggerito: La libertà negata. Il film clandestino su Liu Xia dura solo 5’.16’’... bastano però per toccare in profondità le coscienze ulcerate delle persone che sotto il regime comunista cinese (come sotto qualsiasi regime totalitario) combattono in difesa della libertà e del rispetto dei diritti umani nel mondo.
Il film è girato con un telefonino (non ci dispiace per i produttori del dispositivo se non appare il “marchio”) in luce ambiente... le immagini traballanti ci avvolgono, ci fanno entrare e toccare il dolore secolare che ogni potere ha esercitato ed esercita contro i dissidenti. Quando un Paese è governato da una classe di tiranni così miserabile è difficile trattenere il vomito... la tecnica, il lavoro, l’economia, il mercato, la tortura, la privazione della libertà, il partito... celati o idolatrati delle democrazie consumeriste recitano la farsa del progresso sulla fame dei proscritti... nessuno desidera la schiavitù mascherata di milioni di persone per giustificare l’ascesa di un Paese ai dividendi della Borsa... ma vivere secondo la propria immaginazione e avanzare nella direzione dei propri sogni di accoglienza, solidarietà e fraternità... il successo economico della Cina poggia su una moltitudine di cadaveri e la vita quotidiana è sottomessa ai dogmi di una società consumista che si dipinge “comunista”. L’oscuro e l’indistinto, le tenebre e l’incerto, la rapacità e il terrore sono vestiti di museruole efficaci ma chi osserva, ascolta, scrosta l’ignoranza delle convenienze non si inebria di falsità e deterge il pianto di un popolo immerso nella tirannia.
Ricordiamolo, a faccia scoperta: il fascismo, nazismo, comunismo hanno in comune il dispregio dell’uomo in libertà e al culmine della loro idiozia i campi di sterminio nazisti e comunisti hanno fatto più morti di tutte le guerre della storia dell’umanità che, come sappiamo, si è emancipata con il fucile e l’aspersorio. Le vessazioni antisemite, le torture dei partigiani per opera delle camicie nere e i sessantamila morti della Resistenza sono la cartografia dell’infamia istituita/legiferata, ma anche il canto di liberazione di una generazione che si è messa al collo uno “straccetto rosso” (Pier Paolo Pasolini, diceva) ed ha sconfitto la barbarie. I crimini contro l’umanità commessi dal governo cinese, con la complicità di tutti i governi che fanno affari con questi despoti, vanno denunciati, fermati, condannati e — con tutti i mezzi necessari — dare ai responsabili di questa splendente schiavitù la sorte che meritano, quella di ratti in un immondezzaio. Ogni forma di autorità è legittima solo se ha il consenso di coloro su cui si esercita (Henry David Thoreau, diceva). L’amore per la libertà non è da nessuna parte in particolare, perché è dappertutto e non c’è brutalità dello Stato che possa reggere a cinque minuti di un popolo in rivolta. Il problema non è di sostituire uno stato, una nazione o un dio con altre forme di idolatria, ma di farla finita con tutte le forme oppressione che considerano l’uomo niente e il potere tutto. Ognuno appartiene a se stesso e non deve niente a nessuno. “La ricchezza del ricco è una creazione del povero che non gliela confisca” (Michel Onfray). Tutto vero. L’uomo in rivolta è in anticipo sui tempi della liberazione e sull’emancipazione di un’umanità del bene comune, e della felicità che sorge tra uomini liberi e uguali.
Il film clandestino su Liu Xia inizia con la finestra illuminata della casa della fotografa... è notte... è il 28 dicembre 2012, il giorno del suo compleanno... si vede la figura nera di Liu Xia ad un angolo della finestra... il sonoro è in diretta... poche parole, gli affanni di un momento convulsivo, l’angoscia della brevità dell’incontro si  riflette nei passi, nel coraggio che può essere fermato in maniera violenta... un attivista dei diritti umani, Hu Jia, premio Sakharov per la libertà di pensiero (2008), buttato nelle galere cinesi dal 2007 al 2010, come un criminale, colpevole di avere denunciato la violazione dei diritti umani della Cina nel corso delle Olimpiadi, sulla questione del Tibet, la situazione ambientale delle campagne e le trasfusioni infette che hanno diffuso l’AIDS tre le popolazioni indigenti... Hu Jia dicevamo... irrompe nella casa di Liu Xia, si fa largo tra le guardie ed entra nell’appartamento... dopo la colluttazione con gli sbirri Hu Jia incontra Liu Xia, vistosamente impaurita. Hu Jia e Liu Xia salgono le scale... entrano affannosamente in una stanza, si abbracciano, si baciano teneramente, amicalmente, Liu Xia si copre la bocca con una mano e dice qualcosa all’orecchio di Hu Jia... piange, gli occhi guardano in alto, lo sguardo è atterrito, spaventato... si vedono appese ad una parete di legno le immagini di denuncia del regime comunista che la fotografa ha fatto in clandestinità (saranno per la prima volta esposte in Italia nel Festival del cinema dei diritti umani a Napoli, il 5 dicembre 2013)... Liu Xia continua a piangere, tuttavia mantiene una dignità nobiliare propria a chi sa di combattere per il giusto, il buono, il bello... i suoi messaggi in amore continua a sussurrarli all’orecchio di Hu Jia, la paura invade lo schermo, il film si chiude con la figura di Liu Xia che saluta dalla sua prigione. Seguono alcune immagini della fotografa: una mano che soffoca e acceca una bambola, il ritratto del marito, Liu Xiaobo, che altero tiene sulla spalla un bambolotto che grida il dissenso, una bambola chiusa in una gabbia con una candela accesa. Fine. La forza silenziosa della sua fotografia resta a testimoniare che la libertà non si concede, ci si prende. Perché per la libertà, come per l’amore, non ci sono catene.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 18 volte dicembre 2013

II. Sulla fotografia dei diritti umani

La fotografia dei diritti umani o dell’esistenza di Liu Xia (Pechino 1959) comincia con il riconoscimento della ragione di fronte alla realtà ferita a morte... opera uno spaesamento estetico ed etico dell’immagine fotografica e restituisce la percezione della dignità dove è stata schiacciata... il diritto alla dignità è inviolabile, non è negoziabile, non ha prezzo, su di essa lo Stato non ha nessun potere (se non quello di reprimerla). Restituire dignità individuale e sociale agli umili e agli oppressi vuol dire “riconoscerla anche al peggiore dei carnefici, al più efferato degli aguzzini è la migliore risposta possibile alla logica dell’odio, dello sterminio, del genocidio, traccia un solco invalicabile fra la cultura della vita e il dominio della morte” (Moni Ovadia)[2]. È la dignità dei perseguitati che sconfiggerà ogni manifestazione di violenza e getterà le lingue della tirannia, del privilegio, della brutalità, dell’arroganza nella polvere della storia. Il movimento dei diritti civili non ha certo realizzato il sogno di Martin Luther King[3], ma prodotto profondi cambiamenti nella coscienza delle persone, a cominciare dai poveri... le azioni di disobbedienza civile che ne sono seguite alla fine sono riuscite ad abbattere diffidenze, barriere, discriminazioni e a produrre maggiori libertà. Quando i governi cominciano a perdere il consenso, vuol dire che le proteste sono state efficaci.
La fotografia dei diritti umani o del risveglio di Liu Xia si affranca ai bisogni di libertà del più gran numero... dice che non può esserci società giusta senza persone che godono della libertà di pensiero, di opinione, di fare ciò che credono sia giusto fare... la coscienza del dovuto si dispiega ovunque si reprime il diritto alla fraternità, all’accoglienza, alla condivisione e la verità diventa il grimaldello eversivo di esperienze compartecipate che portano sulla scena della storia le utopie libertarie di infanzie interminabili... interrogare il potere dei suoi misfatti e restituirlo all’oblìo vuol dire chiedere ragione e cancellare le sozzure sulle quali si poggia, rinnovare l’insieme di fratellanze e solidarietà contro i traditori e i massacratori di speranze... le consorterie, i familismi, la criminalità organizzata dei governi despoti (o delle democrazie autoritarie) esprimono una cultura dell’espropriazione e vanno abbattuti.
Il risveglio delle coscienze è un richiamo alla vita autentica e la sola occasione per mettere fine al miscuglio indecente di terrori, banalità, costrizioni che i poteri forti architettano contro i popoli impoveriti e repressi. “In quasi tutto il mondo la disuguaglianza sta aumentando, e ciò significa che i ricchi, e soprattutto i molto ricchi, diventano più ricchi, mentre i poveri, e soprattutto i molto poveri, diventano più poveri. Questa è la conseguenza ultima dell’aver sostituito la competizione e la rivalità alla cooperazione amichevole, alla condivisione, alla fiducia, al rispetto. Ma non c’è vantaggio nell’avidità. Nessun vantaggio per nessuno. Eppure abbiamo creduto che l’arricchimento di pochi fosse la via maestra per il benessere di tutti” (Zygmunt Bauman)[4]. Tutte le volte che i potentati hanno insinuato nella vita degli uomini i loro precetti di domesticazione sociale è stato per sfruttare lo smarrimento degli esclusi e farli precipitare nella rovina. Gli indesiderabili della terra sono alle porte dei palazzi e dicono che l’uomo non è stato capace soltanto di inventare i campi di sterminio, la bomba atomica, la catastrofe del pianeta o il terrorismo della Borsa, ma anche di inventare le rose blu.
I “valori” dei tiranni devono crollare di fronte al primato della coscienza e dei diritti della persona. La libertà politica è la spinta verso l’uguaglianza. Gli uomini non possono essere uguali né liberi se sono espropriati della loro libertà. Si tratta di non dominare né voler essere dominati. Non c’è libertà né giustizia a pieno titolo dove anche a un solo uomo è sottratta la libera creazione della propria personalità. Il riconoscimento della persona, della sua umanità, dignità sociale non può essere ingannevole, ma sovrano... i falsi valori della tirannide divorano e prosciugano i diritti dell’uomo ma non possono impedire il legittimo mutamento che l’ondata delle disuguaglianze porta fino alla loro estinzione. Il diritto di avere diritti è un appello alla terra e a tutti gli uomini, le donne che continuano a lottare per la conquista di una dimensione dell’umano che si accorda con i diritti di bellezza, giustizia e libertà, apre il cammino della speranza del vivere bene, del vivere insieme e del vivere giusto in una una civiltà del rispetto e di pace.
Il fanatismo comunista cinese (e questo vale per tutti i regimi totalitari ma in quanto a repressione dei diritti umani anche le democrazie consumeriste non scherzano) è una catenaria di falsi assoluti, una successione di angherie innalzate a pretesti e giustificazioni dell’ordine imperante, non è riuscito tuttavia ad impedire che l’opera fotografia di Liu Xia abbia divelto confini e barriere e mostrato che l’intolleranza è responsabile di tutti i crimini impuniti (fino ad ora) di una minoranza al potere... sotto ogni direttiva del comitato centrale cinese giace un cadavere che ha lottato per la libertà. Quando ci si rifiuta di riconoscere i diritti fondamentali dell’umanità, scorre il sangue. Non è facile distruggere gli idoli e quando qualcuno dice di parlare a nome del popolo è sempre un impostore o un boia. La liberazione arriva quando gli uomini e le donne rifiutano di dare al potere ciò che di solito gli viene concesso per farlo esistere.
L’abolizione della tirannia passa dalla rottura del potere col sacro e dall’utopia concreta che nella ricerca della dignità, della verità e dell’amore tra le genti vede la maggior felicità per il maggior numero. “Nessuno educa nessuno. Nessuno si educa da solo. Le persone si educano nel dialogo e nel cammino della libertà” (Paulo Freire)[5]. L'obbedienza non mai stata una virtù. La società diseguale è un fallimento pianificato e la sua recessione inevitabile... la malvagia distribuzione della ricchezza non ha scampo e le campagne elettorali sono farse nemmeno interpretate bene... i governanti sono sempre più sfidati dalle richieste popolari di mutuo appoggio e partecipazione democratica alla cosa pubblica, non hanno mai compreso che condivisione e fraternità s’imparano facendole. Quando a sognare è un uomo soltanto, resta solo un sogno, ma quando il suo sogno si trascolora nel sogno di tanti diventa storia.

III. Come il fuoco sotto la brace (2013), di Giuseppe Firrincieli



ai politici, ai preti, ai militari:
“Come piedistallo avrete un letamaio e come tribuna un armamentario di tortura.
Non sarete degni che di una gloria lebbrosa e di una corona di sputi”.
E.M. Cioran


I. Mirikani Jativinni!

Ouverture. La storia non è che una parata di falsi assoluti, un’instaurazione di chiese, stati, guerre, banche, partiti... innalzati a pretesti per rendere i ricchi ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri... la storia è sempre stata scritta da storici che la storia non ha ammazzato... la storia è un sommario di decomposizione dove l’intolleranza religiosa, l’intransigenza politica o il proselitismo della finanza fanno della genealogia del fanatismo le fosse comuni dell’entusiasmo... all’ombra della fede, dei mercati, delle ideologie da rigattieri, l’indecenza diventa ragione e il diritto di avere diritti viene calpestato da polizia, carabinieri, politici, amministratori pubblici che  proteggono o alimentano le connivenze tra mafia e politica istituzionale. Sotto ogni forma di potere giace il cadavere della libertà.
A ritroso. La terra di Sicilia, da sempre è stata invasa, saccheggiata, violata della sua bellezza, della sua cultura, della sua vivenza libertaria... i siciliani sono altro da quanto la letteratura, il cinema, la fotografia, la carta stampata, la politica hanno dipinto malamente per anni e la storia questo popolo ha mostrato di che tempra sono fatti tutti quelli che hanno combattuto e combattono ancora mafie, sfruttatori e dominatori. L’umanità si è emancipata con il fucile e l’aspersorio, i partiti e il crimine organizzato hanno fatto il resto. La stupidità elettorale è l’ultima predica di una civiltà che si spegne. L’ingiustizia governa gli uomini ma in questo mattatoio di prima qualità non tutti accettano di fare la fine che una casta di governanti destina loro... la giustizia, come il coraggio non s’impara a scuola, ma nella strada. La libertà non si concede, ci si prende.
A partire dallo sbarco degli americani nel secondo conflitto mondiale, passando dalla guerra fredda sino ai nostri giorni, la militarizzazione della Sicilia non è mai diminuita... semmai ha interessato la colonizzazione di nuovi territori e, a tutti gli effetti, l’isola è diventata luogo strategico per basi americane in stato di guerra... l’esercito statunitense — con la benevolenza interessata del governo italiano — ha postato qui missili a gettata intercontinentale, aerei senza pilota, sistemi satellitari che assicurano al Pentagono il controllo di popoli assoggettati e l’abuso di genocidi impuniti... la costruzione del M.U.O.S. (Mobile User Objective System) di Niscemi è al fondo di scelte belliche future e rappresenta l’ingerenza e la ferocia della politica transnazionale del “grande Paese”.
L’aggressione elettromagnetica del M.U.O.S. non riguarda solo la Sicilia ma la politica genuflessa dell’intero arco parlamentare. Gli impianti del M.U.O.S. nel mondo sono quattro (Australia, Hawaii, Virginia e Sicilia)... Il M.U.O.S. è un sistema di comunicazioni satellitari che usa onde ad altissima frequenza e alla sua entrata in funzione (2015) permetterà alle forze armata USA di sorvegliare e punire le insurrezioni di popoli tenuti a catena da governi, dittatori, eserciti, borse della società consumerista... sarà la piattaforma informatica adatta anche ai droni (gli aerei senza pilota) già sperimentati con successo nella guerra libica... la base più importante dei droni è a Sigonella e la Sicilia è destinata a diventare la rampa di lancio di questi aerei verso qualsiasi parte del mondo ed assicurare agli americani la distruzione di rivolte popolari.
Le emissioni elettromagnetiche del M.U.O.S. sono pericolose... per più di cento chilometri dal M.U.O.S., la vita delle persone sarà messa in pericolo e alcuni ricercatori dicono che, specie nei bambini e negli anziani, potranno svilupparsi tumori all’apparto genitale, al cervello, alla vescica, alla mammella, leucemie infantili, infarti, melanomi, linfomi, malformazioni fetali, sterilità, aborti, mutazioni del sistema immunitario, vertigini, depressione, aggrediranno la popolazione “in maniera da far rabbrividire le vittime delle emissioni di Radio vaticana (30.000 watt contro 2 milioni); l’ambiente ne sarà intaccato in modo irreversibile. Tanto più che già l’attuale base americana: N.R.T.F. (Naval Radio Transmitter Facility) per le comunicazioni radio con aerei e satelliti e con i sommergibili a propulsione nucleare, costruita all’interno della Sughereta di Niscemi nel 1991, produce emissioni di onde ad altissima e a bassissima frequenza in quantità fortemente pericolose, e i danni provocati alla salute dei niscemesi, che ne sono più esposti, sono ingenti, per quanto misti a quelli del Petrolchimico di Gela e non adeguatamente monitorati... in tutto questo si muovono le ditte legate alla mafia, per garantire l’ordine e la regolarità dei lavori ai committenti americani, come la Calcestruzzi di Niscemi, che da quanto il governo MPA-PD della regione ha concesso il nulla osta alla costruzione del M.U.O.S. (giugno 2011), ha fatto lavorare notte e giorno i propri dipendenti per completare l’impianto e la posa in opera delle parabole in tempi record, dopo aver spianato una collina nell’area protetta della Sughereta. È una storia vecchia quella dei rapporti tra americani e mafia: dallo sbarco del 1943 a tutto il dopoguerra, ai lavori a Sigonella, Comiso, ecc., l’economia mafiosa si è sempre dimostrata la più affidabile, in una logica di scambio: denaro e status sociale contro ordine pubblico e pax sindacale nei cantieri”[6]. I politici stanno al giogo degli americani... a partire dai permessi concessi da Berlusconi per costruire il M.U.O.S. (2005) e confermati dal governo Prodi (2006), anche il “governo delle larghe intese” (un minestrone di faccendieri di bassa lega) sembra non interessarsi alle sorti del popolo siciliano. Il cattivo uso della ragione è una cosa da mentecatti e l’oscenità dei governanti si amalgama bene con la cartografia della predazione che incensano a verità unica. A un certo grado di menzogna, ogni insubordinazione o disobbedienza civile, diventa verità. E la verità dei popoli quando scendono nelle strade è sempre un atto rivoluzionario. Mirikani Jativinni!.

II. Come il fuoco sotto la brace

Il documentario di Giuseppe Firrincieli — Come il fuoco sotto la brace — tratta con lucidità e coraggio della protesta non violenta di uomini, donne, giovani anziani e bambini (insieme ai comitati di base, nati in tutta la Sicilia per contrastare la costruzione del M.U.O.S.) che si sono opposti e si oppongono alla censura del silenzio mediatico e all’omertà dei partiti... mettono in discussione gli accordi presi tra il governo degli Stati Uniti, il governo italiano e la Regione Sicilia per l’installazione delle 46 antenne N.R.T.F. (Naval Radio Trasmittent Facility) che si apprestano a devastare la riserva naturale della Sughereta di Niscemi e minare la salute dei siciliani. “Il documentario è lo sguardo attivo su un presidio fatto di persone, coperte, sedie, tavoli, legna che arde, pentole per cucinare ogni giorno. E ogni notte il fumo della stufa sale in alto a manifestare la presenza della vita che resiste sullo sfondo della mega antenna, la più alta ma non l’unica, un simbolo di oppressione e di morte che nasconde dietro la collina l’ancora più opprimente M.U.O.S. in costruzione”[7]. L’umanità autentica vive amorosamente negli avvenimenti che negano l’impostura e la violenza. Le verità della giustizia si nutrono di disobbedienze, l’obbedienza non è mai stata una virtù.
Come il fuoco sotto la brace intreccia (con sapienza affabulativa) tavole disegnate (Bruna Fornero), animazioni (Mania Creativa, Dario Guastella), interviste ai partecipanti delle manifestazioni di protesta contro il M.U.O.S. (Elvira Cusa, Alfonso Distefano, Pippo Gurrieri, Marino Miceli, Antonio Mazzeo, Paola Ottaviano) al testo (adattato dal regista) di Antonio Mazzeo, Un Eco Muostro a Niscemi)[8], stupendamente “interpretato” dalla voce narrante di Alessandro Sparacino e, sopra ogni cosa, ciò che fuoriesce dal documentario di Firrincieli è la partecipazione attiva del popolo siciliano che ha occupato le strade, fatto picchetti, assemblee partecipate e irruzioni contro la cattività di una politica istituzionale che fa affari con la mafia e i “signori della guerra”... famiglie, giovani, mamme, bambini, persone di ogni ceto sociale si sono riversate nelle piazze di Niscemi e mostrato il dispregio verso l’arroganza del potere costituito.
La disobbedienza civile messa in atto dal popolo siciliano ha sottolineato che il profitto e il possesso uccidono... i militari, la polizia, i carabinieri sono il braccio armato dello Stato che non vuole cittadini consapevoli ma sudditi impauriti... la gente di Sicilia (che il film porta in primo piano) contrasta con intelligenza la violenza delle forze dell’ordine e al diritto della forza risponde con la forza del diritto. Il valore dell’uomo non sta nella verità che i potenti possiedono o presumono di possedere, ma nella sincera battaglia di una popolazione indignata che si è sollevata contro il sopruso per raggiungere la salvezza della propria terra.
La telecamera di Firrincieli entra con leggerezza poetica nelle pieghe della lotta a Niscemi... racconta i giorni, le notti, le manifestazioni, i caratteri dei siciliani che si oppongono allo scempio ambientale e combattono per il diritto alla salute delle  future generazioni... è un documentario di volti, corpi, gesti di estrema bellezza comunitaria... la messa in pratica di un disagio territoriale che un flusso importante di persone riversa contro i calpestatori del reciproco rispetto e della civile convivialità. Il “lavoro sporco” della polizia, carabinieri, Digos... il servaggio dei crumiri... l’ipocrisia dei politici crollano di fronte alla caparbietà di migliaia di persone che non temono di essere perseguitate, carcerate, vilipese dal fanatismo della ricchezza e dal dispotismo della repressione. La libertà, come la giustizia, non può essere ingabbiata. Bastonare per convincere mortifica i più elementari diritto dell’uomo.
Il documentario di Firrincieli commuove... figura la dignità dell’uomo e le vergogne dello Stato... denuncia la follia autodistruttiva dell’economia di guerra e dei crimini contro l’umanità che si porta addosso... è dissennato far morire esseri umani per accumulare ricchezze e contaminare il futuro di uomini e territori... i fuochi, le mense, le bandiere della pace, i canti, i balli, i sorrisi dei bambini non possono essere infranti impunemente, perché nessuno può comprare il sorriso di un bambino. Lo può solo uccidere. Solo la bellezza può rendere l’uomo migliore e i profanatori di bellezza conoscono solo la farsa elettorale e la voce delle armi. È per questo che vanno sconfitti.
Il montaggio di Come il fuoco sotto la brace è una specie di partitura musicale e il film si legge come una critica radicale dell’alienazione, dell’industria, della scienza, della tecnica a servizio del sistema che li produce... i manganelli e i soprusi sono combattuti con l’identità popolare e il regista assembla con perizia estetica/etica la mistica del potere al dispendio della ragione... le facce degli armati sono torve, livide di rabbia, quelle dei dimostranti risolute, provate ma serene... sanno di essere nel giusto e contrappongono la gioia del bello alla cattività dell’inutile... sono fiaccole di libertà secolari che rifiutano l’eredità del dolore e della miseria, ci ricordano le parole di Victor Hugo: “Ma se io voglio ardentemente, appassionatamente, il pane per l’operaio, il pane per il lavoratore, che è mio fratello, a fianco del pane per la vita, voglio il pane del pensiero, che è anche il pane della vita. Voglio moltiplicare il pane dello spirito come il pane del corpo”[9] e mostrare l’inverno della coscienza dell’ordine predominante.
I film non si fanno per passare sul “tappeto rosso” dei festival dove le scimmiette sapienti della critica prezzolata riproducono i dettati della produzione, servono solo per la bellezza autoriale che contengono, per il piacere di giustizia che buttano sullo schermo e sono animati soltanto dal desiderio di conoscere e di conoscerci... il cinema è un calembour aforistico, romanzo autobiografico, memoria storica che brucia lo schermo o lo ritualizza... è divelamento del fascismo ordinario... è arte della vita o non è niente... lo sappiamo, da un film si esce o più stupidi o più intelligenti... il cinema, come la vita, sarebbe intollerabile senza le rivolte che la negano.
Nella geografia della crudeltà del M.U.O.S., il letamaio della politica, della mafia, della guerra dispiega la propria rapacità e alza i patiboli contro tutto ciò che autenticamente vivo... l’amore per la libertà, per la giustizia, per la bellezza non collima con i bilanci del profitto ma nella coltivazione della crescita civile... nessuno rilascia certificati di complicità senza avere in cambio una raffica di sputi... ovunque si massacra, si assassina, si distrugge... l’accanimento e la determinazione dei bravacci del potere non ha tregua... basta non servire più ed ecco che gli uomini sono di nuovo liberi: “Nessun bisogno di tirar su le forche per impiccare i capitalisti, di creare spettacoli con le ghigliottine, di spogliare i proprietari, di incendiare le manifatture, di brutalizzare i capireparto e i padroni. Basta affermare la propria potenza, la propria forza, la propria rinuncia alla schiavitù a profitto d’una libertà acquistata senza ricorre alla violenza o alle armi” (Michel Onfray)[10] e l’edificio della menzogna crollerà nella sua miseria.
La chiusa del documentario è indimenticabile. Politici, preti, padroni, mafiosi... sono affacciati a una tribuna e figurano una parata di carogne — sovente divinizzati — senza lacrime né riso, che superano di gran lunga i criminali più coscienziosi che s’abbeverano alla sputacchiera del potere dispensata come ineluttabile “progresso”... ma il fuoco sotto la brace dei movimenti M.U.O.S. non sembra spegnersi tanto facilmente e annuncia nuove primavere di bellezza... la dignità di un uomo e di un popolo non può essere sconfitta, non si tratta solo di cambiare la storia di un’imposizione infame, ma di agire a affrancarsi agli uomini che la restituiscono all’innocenza del divenire. La giustizia può essere difesa soltanto dopo che ci si è posti al servizio della vita. Prima della favola, l’amore fra gli esclusi pone la verità, prima del tradimento delle istituzioni, il bene comune. La rivolta sociale esige prima di ogni altra cosa e l’insurrezione delle coscienze considera utile tutto ciò che serve per diventare cittadini migliori. Quando le genti si renderanno conto della fame di bellezza che c’è nei loro cuori, ci sarà la rivoluzione nelle strade della terra.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 19 volte novembre, 2013.






[1] Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2012
[2] Moni Ovadia, Madre dignità, Einaudi, 2012
[3] Martin Luther King Jr., Il sogno della non violenza, Feltrinelli, 2008
[4] Zygmunt Bauman, “La ricchezza di pochi avvantaggia tutti” (Falso), Laterza, 2013
[5] Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi, EGA-Edizioni Gruppo Abele, 2011
[6] Sicilia Libertaria, 3 agosto, 2012
[7] Retro di copertina del dvd, Come il fuoco sotto la brace, 2013, di Giuseppe Firrincieli. www.nomuos.info
[8] Antonio Mazzeo, Un Eco Muostro a Niscemi. L’arma perfetta per i conflitti del XXI secolo, Edizioni Sicilia Punto L., 2012
[9] Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto, Bompiani, 2013
[10] Michel Onfray, L’ordine libertario. Vita filosofica di Albert Camus,  Ponte alle Grazie, 2013

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