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lunedì 24 febbraio 2014

OMBRE IUGOSLAVE E ODORE DI GAS: LA CRISI UCRAINA, di Pier Francesco Zarcone

Il ripetersi di un vecchio copione
Con la caduta di Janukovyč in uno scenario da colpo di Stato per la crisi ucraina si concludono solo le premesse, e tutto può precipitare con una completa destabilizzazione dell’area, ancora una volta per gli interessi economici e politici dell’Occidente in un paese europeo rilevante per la sua posizione strategica. Per dirla in breve, dopo la Iugoslavia tocca all’Ucraina, oggi campo di battaglia di due guerre, delle quali la guerra interna per il potere è strumentale a quella di soggetti esterni per una posta politico-economica si chiama approvvigionamenti energetici e loro distribuzione. Si sta realizzando un copione già sperimentato con successo nei Balcani, in Siria e in Libia, quindi perché cambiarlo?
Le sue linee di svolgimento sono facilmente individuabili: in un Paese storicamente privo di interna omogeneità - vuoi etnica, vuoi religioso-culturale - si inducono torbidi e dissidenze violente, inizia una certa e ovvia repressione, il repressore (la legalità formale del suo potere non interessa) diventa l’incarnazione del male per media e organismi di propaganda vari, le violenze si intensificano fino a far collassare il Paese, si comincia a sparare, la grande informazione svolge il suo ruolo non facendo capire assolutamente nulla di quel che c’è sotto, scattano le sanzioni internazionali dell’Occidente, e poi… E poi stavolta non si può ancora dire, perché alla frontiera orientale dell’Ucraina c’è la Russia che - oltre a condurre propri giochi per propri interessi - si trova il pasticcio ucraino realmente “alle porte di casa”, una volta saltata tutta la protezione di “cuscinetti” diretti e mediati realizzata dall’Urss dopo la Seconda guerra mondiale.
D’altro canto tutta l’area in cui sono crollati i regimi del “socialismo reale” è da tempo oggetto di spinte e controspinte esercitate da potenze esterne: Stati Uniti, Nato e Unione europea, con l’obiettivo di inglobare tali paesi nel quadro del loro “nuovo ordine mondiale”. La Russia cerca di contrastare con tutti i mezzi a sua disposizione, non esclusi quelli bellici, come quando di recente la Georgia, sobillata dall’Occidente, cercò di risolvere con la forza la secessione dell’Ossezia del Sud, salvo poi essere sconfitta sul campo dalla Russia (tema subito fatto oggetto di un film statunitense in cui appaiono Russi che più cattivi di così non si può). Il fatto è che in tutta l’area bielorussa, ucraina e caucasica l’Occidente e i suoi alleati (come l’Arabia Saudita in Cecenia e Daghestan) fomentano e appoggiano agitazioni, rivolte e secessioni in funzione antirussa. Ovvio che Mosca intenda contrastare tali progetti, inserendo attualmente il proprio oggettivo espansionismo in un’altrettanto evidente autodifesa.
L’Ucraina offre l’anomalo spettacolo di gente che ha messo a rischio in piazza la propria incolumità fisica, e anche la vita, per “entrare in Europa”; in quella stessa Europa dove moltissimi cittadini farebbero lo stesso se solo ci fosse la sicurezza di poter uscire dall’euro e dall’Ue senza danni maggiori di quelli finora subiti. Poiché l’Ucraina non è tagliata fuori dal mondo sul piano dell’informazione spicciola, e le notizie sulla situazione economico-sociale dei paesi europei sicuramente circolano, c’è da dubitare che la maggioranza della sua popolazione - in un Paese dove il salario medio è di circa 300 dollari mensili, la produzione locale è di bassa qualità e le importazioni della Russia sono assolutamente vitali - non si renda conto del significato dell’aprirsi al mercato secondo le regole stabilite dall’Ue (e magari dal Fmi). Qualcosa evidentemente non torna. Così come non tornano le manipolazioni dei media occidentali volte a presentare le manifestazioni ucraine come spontanee: troppo a lungo sono durate e troppo organizzati sono apparsi i manifestanti.
Oltre all’Unione europea, anche Washington ha ovviamente preso posizione: ricordiamo il grande valore simbolico della presenza a Kiev di Victoria Nuland (cioè la vice di John Kerry) e John McCain (ex candidato repubblicano alla Presidenza) per esternare il sostegno degli Usa ai dimostranti. Né si può escludere che gli Stati Uniti - in mancanza di jihadisti nelle pianure ucraine - utilizzino i nazisti locali, così come hanno fatto con gli estremisti islamici in Libia e Siria (e forse in Cecenia). A Washington i personaggi di punta per fare da ponte a simili manovre ci sono eccome: per tutti valgano Lev Dobriansky - antico importante collaboratore di Jaroslav Stetsko, uomo della Germania in Ucraina durante l’occupazione tedesca - che è stato ambasciatore degli Stati Uniti alle Bahamas, e sua figlia, Paula, addirittura sottosegretaria di Stato per la Democrazia (!) durante la presidenza di George W. Bush.
La pericolosità degli eventi ucraini non sta nel mero fatto di avere tutta l’aria di rientrare nelle manovre occidentali per l’accerchiamento della Russia, ma nel dato aggravante che se essa in Asia centrale è riuscita a ricreare una situazione favorevole, il medesimo risultato non risulta sul versante dell’Europa orientale. Ma anche l’Ucraina rischia di diventare vittima del ruolo strumentale scelto da chi è sceso in piazza: la grave crisi economica e finanziaria del Paese incombe ora più che mai, ed esploderà quanto meno a giugno (se non prima), poiché il governo si avvia a non avere più soldi per pagare stipendi e pensioni. La concretizzazione (sono alcuni mesi che se ne parlava) dell’offerta russa di 15 miliardi di dollari in bond ucraini e di uno sconto di un terzo sul prezzo del gas - con l’aria che tira - non ci sarà, a meno che l’imprevisto e imprevedibile avvento di un forte governo filorusso non ribalti lo scenario e sblocchi la situazione.
Per la svolta della situazione in senso radicalmente sfavorevole agli interessi russi, si approssima la catastrofe per l’Ucraina. Prima del risultato delle prossime elezioni in autunno è quasi certo che nessuno si muoverà; e dopo? L’Ue non pare in grado di fornire l’entità di aiuti necessari (e forse nemmeno lo vorrebbe); Obama incontrerebbe enormi difficoltà per giustificarli innanzi ai contribuenti statunitensi nell’attuale congiuntura; resta il Fmi, che per interventi di gran lunga minori ha sempre posto condizioni-capestro, e quindi gli Ucraini dovranno sottostare a un salasso da cui non ricaverà nulla, tranne l’impopolarità del leader del momento.
Ovviamente non va esclusa la possibilità che Putin ritenga di dover usare la vera definitiva arma di cui ancora dispone per strangolare l’Ucraina e farle sentire di quali rigori sia sempre capace il famoso “generale Inverno”: cioè chiuderle i rubinetti dell’approvvigionamento energetico russo. Un assaggio di cosa comporti il ricorso da parte di Mosca all’arma energetica l’Ucraina l’ha avuto dopo la tanto decantata “rivoluzione arancione” del 2004, che aveva portato al potere esponenti della vecchia nomenclatura sovietica, corrotta e opportunista, guidata dalla Tymošenko: ci fu la crisi del gas russo nel 2006 e nel 2009 che mise in difficoltà Tymošenko & C., giacché i loro alleati occidentali ben si guardarono dall’aiutare gli amici ucraini e sopratutto dal metterli nelle condizioni di pagare il gas russo al prezzo di mercato. Per questo le elezioni presidenziali del 2010 furono vinte da Viktor Janukovyč, filorusso per opportunismo (ma non del tutto affidabile per Mosca) e, come i suoi avversari, non immune da corruzione.

La delicata posizione geografica e storica dell’Ucraina
L’Ucraina è sempre stata un territorio di frontiera fra la Russia e gli Stati prussiano e asburgico; situazione che si è ripercossa al suo interno in termini di divisioni nella popolazione locale. Così abbiamo che la parte occidentale del Paese propende per l’Europa centrale e quella orientale per la Russia. Il contrasto è evidente anche nella composizione religiosa interna: nella parte occidentale consistente è la presenza cattolica (essenzialmente cattolici di rito orientale; i cattolici latini sono circa un milione, in prevalenza ungheresi e polacchi), mentre nella parte orientale prevalgono gli ortodossi (a loro volta divisi in tre giurisdizioni rivali: la Chiesa Autonoma Ucraina del Patriarcato di Mosca, e poi la Chiesa Autocefala Ortodossa d’Ucraina e il Patriarcato di Kiev, non riconosciute come canoniche). Atei e agnostici dovrebbero aggirarsi sul 62% degli abitanti; gli appartenenti alla galassia protestante sono circa un milione; i musulmani (al 50% tatari) sono circa 500.000; infine gli ebrei, che dopo i massacri della Seconda guerra mondiale - compiuti dalle truppe tedesche, spesso e volentieri con la collaborazione ucraina - non dovrebbero superare le 100.000 unità. Questo su una popolazione totale di quasi 46 milioni. Tali abitanti sono in grande maggioranza ucraini (77,5%), ma è presente una miriade di minoranze: Russi, 17,2%; Bielorussi, 0,6%; Rumeni e Moldavi, 0,8%; Tartari di Crimea, 0,5%; Bulgari, 0,4%; Ungheresi, 0,3%; Polacchi, 0,3%; Armeni, 0,2%; Greci, 0,2%; Tartari, 0,2%; e poi Rom, Azeri, Georgiani, Tedeschi, Gagauzi ecc., che fanno insieme un 2,5%. Anche sul piano della lingua esistono divisioni sulla base della stessa ubicazione rilevata per la religione: l’ucraino è parlato per lo più nelle regioni centro-occidentali ed è predominante nelle città, mentre nell’Ucraina meridionale e orientale il russo è prevalente.
La Russia ha sempre considerato essenziale il territorio ucraino per varie ragioni: zona cuscinetto, grande produttore di grano e, per certi aspetti, culla storica della medesima Russia. Infatti la prima grande entità politica unitaria dell’Oriente europeo fu la Rus’ di Kiev, costituita da invasori scandinavi (i Variaghi) nell’882. Nel 988 il re Vladimir I l’inserì nell’orbita del Cristianesimo ortodosso di Costantinopoli. Con la decadenza verificatasi nel secolo XII cominciò anche la frammentazione in vari principati rivali, e nel secolo XV si ebbe l’immigrazione massiccia di esuli ortodossi genericamente denominati cosacchi. Per lungo tempo oggetto delle mire polacche e russe, con la spartizione della Polonia nella seconda metà del XVIII secolo fra Prussia, Russia e Impero asburgico finì divisa fra San Pietroburgo e Vienna, così definendosi la linea di demarcazione politica, culturale e religiosa fra le due Ucraine rimasta fino a oggi. La forte politica di russificazione instaurata dagli zar nel secolo XIX provocò ovviamente una reazione nazionalista a cui tuttavia - a seguito della Rivoluzione russa - non riuscì la creazione di uno Stato ucraino indipendente, a motivo sia delle reazioni alle interferenze tedesche, sia delle violente lotte fra gruppi politici di destra e sinistra, talché si formarono una Repubblica Nazionale dell’Ucraina Occidentale e una Repubblica Popolare Ucraina. Alla fine della breve guerra russo-polacca l’Ucraina fu di nuovo spartita: la Galizia e la Volinia andarono alla Polonia, il resto del Paese fu assegnato all’Urss e nel 1922 divenne la Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. Con il patto Molotov-Ribbentrop l’Urss si impadronì anche dell’Ucraina occidentale, così riconsolidando la regione come zona-tampone fra l’area di influenza germanica e le terre tradizionalmente russe.
A seguito del caotico e contraddittorio periodo di Gorbačëv che portò al suicidio dell’Urss, nel 1990 aveva preso piede un nuovo movimento nazionalista (il Movimento per la Ricostruzione del Popolo Ucraino), col risultato che l’anno dopo il Partito Comunista Ucraino fu messo fuorilegge e il 24 agosto il Parlamento locale dichiarò l’indipendenza e convocò un referendum di conferma. Cominciava per l’Ucraina un periodo di convulsioni politiche interne e di contrasti politici ed economici con la Federazione russa.

Che cosa c’è dietro
Nel novembre 2013 la rinuncia di Janukovyč ai negoziati per un accordo di mera associazione con l’Unione europea - senza dubbio dovuta alle pressioni di Putin - scatenò una ben organizzata protesta di piazza a Kiev e nella parte occidentale del Paese, come se a essere in gioco fossero il vero e proprio ingresso nell’Ue e il futuro stesso del Paese (a prescindere dai giudizi di valore che abbiamo dato all’inizio). La protesta assunse caratteri pre-insurrezionali che in qualsiasi altro paese - che non fosse nel mirino della massiccia propaganda occidentale - avrebbe portato a misure d’emergenza di ben diversa entità. Mentre in Occidente i media fanno il “tifo” per l’opposizione ucraina con toni fortemente manichei, la stampa russa ha additato nei manifestanti l’intento di rovesciare le istituzioni democraticamente elette dell’Ucraina (e le elezioni del 2010, vinte da Janukovyč, furono considerate “pulite” dagli osservatori internazionali).
Il “tifo” non è cessato nemmeno quando il 1° gennaio di quest’anno il partito Libertà, di stampo nazista, ha organizzato, con la partecipazione di ben 15.000 persone, una fiaccolata in ricordo di Stepan Bandera, che fu un leader nazionalista alleato dei tedeschi nazisti contro i sovietici, e nelle vie di Kiev sono comparse scritte antisemite e sono cominciate le aggressioni a ebrei. E cominciano a circolare voci sull’addestramento militare da parte degli Usa a militanti ucraini di estrema destra, nonché sui loro sforzi per ricevere armi. Il panorama dei partiti di opposizione al governo non è dei più rassicuranti, anche per l’appoggio occidentale di cui essi godono; siamo in presenza di un ulteriore pericoloso tassello nel mosaico della ricostituzione dei movimenti europei di estrema destra, dalla Francia all’Ungheria e dalla Grecia all’Ucraina1 (nel 2005 una riabilitazione del nazismo è stata fatta dalla Presidente lettone Vaira Vīķe-Freiberga).
Per l’Occidente capitalista la presidenza di Janukovyč ha rappresentato una svolta nettamente filorussa in politica estera non conforme all’espansionismo della Nato verso Est, con l’oggettiva aggravante dei cosiddetti “accordi di Char’kov”, con cui nell’aprile 2010 l’Ucraina ha concesso alla Russia fino al 2042 l’uso della base navale di Sebastopoli in Crimea che, oltre a dare alla marina russa una posizione di rilievo nel Mar Nero, funge da trampolino verso il Mediterraneo. Quegli stessi accordi (e qui ci avviciniamo a uno dei punti focali del problema ucraino) riguardavano anche agevolazioni tariffarie per l’uso del gas russo.
Nelle agitazioni ucraine il gas c’entra eccome. Sia l’Europa sia l’Ucraina si trovano di fronte al problema della dipendenza negli approvvigionamenti energetici. Per esempio, l’Europa utilizza per il 50% circa dei suoi bisogni idrocarburi di importazione; situazione che potrebbe prolungarsi ancora per vari decenni. La Russia è notoriamente il primo esportatore di gas verso l’Europa, e questo implica due cose: che Mosca in generale voglia mantenere ancora a lungo la sua posizione di primato, per gli evidenti vantaggi economici e politici, e nel particolare non abbia nessuna intenzione di sciogliere da tale vincolo l’Ucraina; che invece l’Europa abbia l’interesse opposto, in generale e nel particolare. Riguardo a questo specifico versante c’è da evidenziare il deficit di profitto derivante dall’assorbire un’Ucraina ancora in fase di dipendenza energetica dalla Russia.
Qui entra in gioco - in generale e nello specifico - il cosiddetto “interconnettore AGRI”, cioè il progetto di una vera e propria infrastruttura energetica composta da oleodotti e impianti di rigassificazione che, se portato a termine (una volta congelato il progetto Nabucco), finirebbe col togliere alla Russia il deterrente energetico. Per il momento la previsione è che il tutto parta dall’Azerbaigian quale fornitore della materia prima, passi per la Georgia (e gli impianti di liquefazione ivi previsti) e poi arrivi in Romania (dove ci sarebbero impianti di rigassificazione).
Per l’Ucraina la situazione attuale è a doppio taglio, ma nessuno di essi è positivo: in virtù dell’approvvigionamento di gas la Russia - che ne ha dovuto subire suo malgrado il distacco - la tiene per il collo; ma l’Ucraina è per la Russia un transito strategico del suo gas verso l’Europa, cosa però di scarso rilievo prospettico per Kiev, giacché sia il progetto di gasdotto russo Nord Stream che il suo analogo meridionale, il South Stream, scavalcano il territorio ucraino, e quindi addio ruolo strategico. Ne discende il comune interesse - europeo e ucraino - per la partecipazione di Kiev al progetto AGRI, tanto più che l’Ucraina già possiede circa 40 mila chilometri di gasdotti. A tal fine, però, è necessario che la dirigenza di Janukovyč e soci sia sostituita con persone aliene a Mosca e filoeuropee.
La teoria, comunque, è più bella della realtà: quand’anche l’Ucraina partecipasse al progetto AGRI, solo una parte non significativa delle sue necessità verrebbe soddisfatta, in quanto seppure potesse avvalersi della totalità della capacità iniziale di questo progetto - il che palesemente non sta né in cielo né in terra - solo il 10-14% del suo fabbisogno avrebbe copertura. E sempre col rischio che non succeda qualche turbolenza in Georgia come accadde nel 2008, quando la sua breve e disastrosa guerra con la Russia portò all’interruzione delle forniture azere. Naturalmente le cose cambierebbero in modo radicale se il Turkmenistan partecipasse all’AGRI; ipotesi teorica, giacché la Russia non lo permetterebbe.

Le prospettive non sono buone
Se in Ucraina si dovesse arrivare a uno sviluppo della contrapposizione interna tale da portare alla guerra civile, ci si troverebbe in presenza di una situazione pericolosissima, perché:
• un’eventuale guerra civile non avverrebbe senza l’appoggio previo di Usa, Nato e Ue che - sotto le solite mentite spoglie buoniste e umanitarie - interverrebbero a favore di una delle parti come fecero in Iugoslavia;
•ci sarebbe la tentazione di estendere “l’interessamento” occidentale alla Bielorussia e di far riaprire alla Georgia il fronte della secessione osseta;
•la Russia - avvenendo tutto proprio alle sue porte - ben difficilmente si comporterebbe come all’epoca di Eltsin di fronte alle ingerenze occidentali in Iugoslavia.
È sufficiente fare qualche escursione sul sito in lingua italiana Russia Oggi per rendersi conto di quali umori circolino fra i Russi, e addirittura non manca chi accusa Putin di pacifismo e di dormirsene beato mentre la porta di ingresso brucia. Non si può escludere che Putin non si muova fino al termine delle Olimpiadi invernali. Ma dopo che accadrà? Taluni paventano che l’Ucraina si possa frantumare in ben più di due parti, con un esito di balcanizzazione devastante. Esiste - come già detto - il rischio di contagio, e poi c’è l’incognita delle reazioni occidentali a un’eventuale secessione delle regioni filorusse dell’Ucraina. Ricordiamoci che le potenze imperialiste occidentali riconoscono il diritto di autodeterminazione solo a chi conviene loro (per esempio l’hanno negato ai Serbi della Krajna, della Bosnia e del Kosovo e agli Osseti). La crisi, quindi, si prospetta altamente pericolosa, perché potrebbe manifestare tentazioni di creare alla Russia difficoltà ad ampio spettro; e comunque, più banalmente, potrebbe sfuggire di mano a tutti.
Lo scenario iugoslavo si profila anche sotto un altro aspetto, terminale si potrebbe dire: la spartizione dell’Ucraina. Sul quotidiano portoghese Público del 21 febbraio è comparso un articolo dal titolo significativo: «Se l’Ucraina si divide, la Russia guadagnerà sempre qualche cosa», corredato da una cartina sulla possibile spartizione secondo la linea della differenza linguistico-etnica. E non è detto che la Russia sarebbe ostile a un simile esito (tant’è che nel suo blog Andrej Illarionov, consigliere di Putin, lo mette fra le possibili opzioni gradite a Mosca).
Nel Sud e nell’Est ucraino, in appoggio alla polizia operano miliziani filorussi detti tituški, e intanto un consigliere di Putin sulle vicende secessioniste georgiane, Vladislav Surkov, è stato di recente a Kiev e in Crimea, non certo per turismo. E comunque sarà opportuno fare attenzione alla Crimea, dove il presidente del Parlamento locale ha già fatto presente che la regione potrebbe staccarsi dall’Ucraina. E lì c’è la base russa di Sebastopoli…

La Crimea
La storia della Crimea - stante l’eurocentrismo occidentale della cultura italiana - è assai poco nota. Nel 1441 la Crimea fu khanato tataro indipendente, e poi nel 1475 riconobbe la sovranità ottomana, che durò tre secoli in una situazione di ampia autonomia. Nel 1774, dopo una delle tante guerre russo-turche, il khan diventò vassallo dell’Impero russo. Durante la Rivoluzione i Tartari cercarono di costituire un khanato indipendente, ma senza esito positivo, e la Crimea entrò a far parte dell’Urss. Dopo la Seconda guerra mondiale, a causa del collaborazionismo tataro con la Wehrmacht, i Tartari di Crimea furono deportati a Oriente; nel 1954 la penisola perse l’autonomia ed entrò a far parte della Repubblica ucraina. I Tartari ottennero il permesso di rientrare in Crimea. Con l’indipendenza dell’Ucraina, la Crimea ottenne lo status di Repubblica autonoma.
Oggi è fortemente russificata: il 58% della popolazione è di etnia russa, il 24% ucraina e il 12% tatara; il russo è lingua madre di circa tre quarti dei suoi abitanti, mentre l’ucraino è parlato solo da un decimo e comunque il 97% degli abitanti usa il russo per comunicare. Particolare importante, la Crimea non ha reali legami storico-culturali con l’Europa.
Con l’inizio dei disordini ucraini le autorità della Crimea avevano chiesto a Janukovyč il rapido ristabilimento dell’ordine, e a febbraio il presidente del Consiglio Supremo della Repubblica autonoma di Crimea, Vladimir Konstantinov, comunicò alla Duma di Stato della Federazione russa che la Crimea avrebbe sollevato la questione di una sua secessione dall’Ucraina in caso di rovesciamento del potere legittimo, salvo poi affermare che la questione non era stata ancora presa in esame.
In merito all’Ucraina, Russia Oggi delinea in concreto due possibili scenari: estensione della propria autonomia da parte della Crimea, che però implica un accordo con Kiev, ben difficile tenuto conto che i nazionalisti ucraini temono una federalizzazione spinta; l’altro è che la Repubblica autonoma di Crimea esca dall’Ucraina diventando uno Stato non molto riconosciuto all’estero ma sotto l’egida della Russia. Questa ipotesi - al pari dell’eventuale secessione delle regioni ucraine filorusse - non potrebbe essere realmente contrastata da Kiev, a motivo della mancanza di un vero e proprio esercito e delle inerenti risorse economiche neppure delle leve economiche a causa della crisi. Ma se Kiev chiamasse in aiuto Usa, Ue e Nato… Incrociamo le dita.


1 All’opposizione di Janukovyč abbiamo l’Unione Panucraina “Patria” (Bat’kivščyna), della Tymošenko (attualmente in carcere dopo la condanna per appropriazione indebita), fautore del capitalismo e del modello neoliberale; l’Alleanza Democratica per la Riforma Ucraina (UDAR), che in teoria dovrebbe essere democristiana (!?); l’Unione Pan-Ucraina per la Libertà (Svoboda), originatasi dal Partito Nazionalsocialista d’Ucraina; il Congresso dei Nazionalisti Ucraini, di stampo nazista; e infine l’Autodifesa Ucraina, nazionalista, arrivata al punto di mandare suoi membri in Cecenia e Ossezia per combattere contro i Russi. A complicare potenzialmente la situazione c’è il fondato pericolo che la Chiesa ortodossa ucraina - fortemente nazionalista, vicina a incorrere nella corrispondente eresia ecclesiologica e ostilissima al Patriarcato di Mosca - possa schierarsi ufficialmente con i dimostranti. E già in piazza si sono visti preti ucraini con tanto di paramenti liturgici, e quindi non quali liberi cittadini.

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