Piazza Taksim |
Due piazze
simboliche che da più o meno tempo riempiono la cronaca dei giornali, sono
simboli di due mondi diversi, ma con dei punti in comune. La Turchia e l’Egitto
differiscono per cultura, mentalità, lingua, storia, regime al potere,
collocazione geografica (Eurasia, da un lato, Nordafrica dall’altro), attività
economiche prevalenti, aspirazioni politiche ecc. E il comune islamismo sunnita non ne fa per
niente un tutt’uno. Tuttavia è individuabile un legame fra le due piazze al di
là del mero dato formale della rivolta popolare e di massa contro i rispettivi
regimi dominanti. In primo luogo vediamo ciò che divide.
Piazza Taksim non è piazza Tahrir
a) Piazza Taksim
Evitiamo di parlare
di “primavera” turca, luogo comune ormai stucchevole e che comunque non esprime
nulla di significativo. Se proprio si volesse trovare un’espressione folgorante
e riassuntiva, allora di gran lunga meglio sarebbe quella usata da Deniz Gücer
in un articolo pubblicato il 13 giugno dal quotidiano di Istanbul Vatan (patria): “nuova Turchia contro
vecchia Turchia”. Questa dicotomia, infatti, porta subito alle radici sociali e
psicologiche che hanno fatto scendere nelle strade turche una quantità
impressionante di giovani disposti ad affrontare la brutale reazione della
polizia. Prima di procedere, tuttavia, s’impone una precisazione: parleremo di
fenomeni e questioni attinenti solo alla gioventù urbana. Il discorso, se
spostato alle campagne, non vale più.
Se per comodità di
esposizione ci limitiamo a ricordare che in Turchia – come in ogni sistema
economico capitalistico povertà e disoccupazione non mancano affatto, e anzi
sono fisiologiche – non si può negare che durante il decennio di governo di
Erdoğan e del suo partito il paese economicamente e socialmente abbia compiuto
notevoli passi avanti rispetto al prima. Questo dato si riflette nella gioventù
che è scesa a protestare nelle strade: una gioventù con una forte percentuale
di scolarizzazione, con una buona percentuale di studenti universitari e una
quantità di persone che già dispongono di un lavoro. In sintesi, una gioventù
senz’altro con problemi per il futuro, ma nulla a che vedere con la condizione
sociale media del mondo arabo. La Turchia nell’insieme non è solo ponte fra
Europa e Asia (come dice il luogo comune) ma anche (seppure lo si dimentichi
sempre) periferia orientale dell’Europa, al pari della Grecia, tuttavia senza i
gravi problemi economici di quest’ultima.
Il citato Deniz
Gücer nello stesso articolo ha sostenuto che la gioventù della protesta “non ha
preoccupazioni per quanto riguarda il suo futuro economico”. Sia lecito
dissentire, almeno in parte. Un recente rapporto dell’Unpd sulla gioventù turca
nella fascia di età fra i 15 e i 24 anni traccia un quadro che forse non contraddice
del tutto la tesi di Gücer, tuttavia la ridimensiona. È meglio attenersi a
esso. Risulta che in un paese di circa 75 milioni di abitanti almeno 23 milioni
sono giovani e che il paese si trova in una fase di transizione demografica,
poiché sta diminuendo il numero complessivo di abitanti, ma cresce la
popolazione in età lavorativa. Nell’arco di un quindicennio ciò dovrebbe
fornire ai giovani sempre migliori possibilità, a parità di situazione.
Il 30% della
popolazione giovanile è fatta di studenti, e un altro 30% lavora. Meno belle
sono le prospettive per il restante 40%. Esistono 3 milioni di giovani detti “invisibili”,
e di essi 2 milioni e 200.000 sono donne che né lavorano né studiano; circa
650.000 sono disabili; 300.000 hanno perso la speranza di trovare un lavoro e
ne hanno abbandonato la ricerca; circa 2.000 comprendono quanti sono diventati delinquenti,
i ragazzi e bambini di strada fuggiti di casa o sono diventati preda del
traffico di persone.
Meno avvantaggiate
dei maschi sono le giovani, vuoi per condizionamento socio-famigliare, vuoi per
le obiettive condizioni economiche delle famiglie: tutto questo le costringe
esclusivamente al lavoro domestico. Ciò
si riflette sulle percentuali scolastiche: nella scuola primaria (8 anni
obbligatori) il tasso di scolarizzazione femminile è dell’87% a fronte del 92%
di quello maschile; nella scuola secondaria il divario aumenta, essendo
rispettivamente del 51% e del 61%;
mentre quasi si azzera nella università, dove le percentuali sono
rispettivamente del 17% e del 18%.
Va comunque detto
che la scolarizzazione non è una garanzia assoluta di prospero futuro, giacché
non esistono collegamenti fra mondo scolastico e mondo del lavoro, cosicché
spesso si esce dalle scuole professionali o dai licei senza una preparazione
corrispondente alla gamma di richieste di lavoro esistenti. L’insufficienza
della preparazione scolastica diventa palese in ordine all’accesso alle
università; ed è per questo che sono nate le derşane, i costosissimi corsi
privati per la preparazione al difficile esame di ammissione all’università (nel
2007 vi hanno partecipato 1.600.000 studenti e solo un quarto l’ha superato).
Rilevazioni
compiute in Turchia parlano di una gioventù sostanzialmente priva di legami con
i partiti politici esistenti, ma non apolitica, giacché reclama maggiore
democrazia e soprattutto maggiore libertà. Libertà di pensiero e soprattutto di
stili di vita, contro il bigottismo nei costumi che il governo islamico vuole imporre
a tutta la società, contro l’intento di Erdoğan
di voler educare generazioni di giovani devoti, contro la repressione
sulla libertà di stampa e contro il patriarcalismo ancora dominante nella
società turca. Una lotta anche per il rispetto delle diversità e della dignità
di quanti compiono scelte non conformi agli schemi di una certa ortodossia
islamica e che pur sempre devono godere dello status di cittadini.
Le rivendicazioni
salite dalle piazze e dalle strade turche, infatti, sono essenzialmente
rivendicazioni politiche, contro il deficit di democrazia e gli abusi di
potere. A quest’ultima categoria appartiene, per esempio, la recente legge
contro il consumo di alcolici nei locali pubblici dopo una certa ora: in
Turchia non esiste un problema serio di alcoolismo e l’80% della popolazione
non beve affatto alcoolici. In realtà il problema è un altro: è la volontà di
Erdoğan di fare quella che il prof. Cengiz Aktar, dell’Università di Istanbul
Bahçeşehir ha definito “ingegneria sociale”; cioè a dire, Erdoğan vuole che la
gioventù viva come dice lui, secondo i suoi parametri islamici, che obbedisca
zitta e buona. È proprio vero che in Turchia il processo di democratizzazione non ha mai seguito un
cammino lineare, in fatti esiste un detto turco per cui questo processo fa sempre
due passi avanti e uno indietro. In definitiva in quel paese non è tanto in
ballo l’esistenza del governo dell’Akp quanto e soprattutto l'incapacità di Erdoğan
a comprendere la nuova Turchia, accecato com’è dalla sua visione manichea che
vede ovunque complotti laicistici e non sopporta dissensi.
Questa gioventù ha
dimostrato che nel corso degli ultimi anni si era formata una Turchia diversa e
non prevista: infatti, chi avrebbe mai pensato che un giorno la polizia
antisommossa sarebbe stata più impegnata a Istanbul, Ankara, İzmir, Trebzon,
invece che nella curda Dyarbakir? Oppure che un giorno si sarebbero incontrati
a manifestare e ballare nella stessa piazza elettori delusi dell’Akp di
Erdoğan, signore di mezza età che hanno votato per il kemalista Chp e curdi del
Bdp?
Per il momento
l’economia resta solo sullo sfondo, pur con il suo rallentamento rispetto
all’ottimo biennio 2010-11.
Tuttavia essa dipende dall'afflusso di capitali dall'estero e deve fare i conti
con la recessione nella maggior parte dei paesi dell'Unione Europea. Va però
detto che il prolungarsi delle agitazioni produrrà l’effetto di scoraggiare gli
investitori col rischio di incidere negativamente sulla prevista crescita del 3,5% per l’anno in
corso. Nel clima politico attuale le elezioni comunali a marzo del prossimo
anno, alle quali seguiranno le presidenziali, magari precedute da un referendum
costituzionale, e infine le elezioni legislative dell’estate 2015 potranno dare
luogo a tensioni e proteste ulteriori. E allora anche l’economia sarà in primo
piano.
Piazza Tahrir |
b) Piazza Tahrir
Del tutto opposta
la situazione dei giovani egiziani scesi a dimostrare contro Morsi con il
movimento Tamarod, i laici e i
musulmani non facenti capo alla Fratellanza. Si tratta di una gioventù
disperata e senza futuro per la quale – scolarizzata o no – gli unici sbocchi
sono disoccupazione, precariato ed emigrazione. La dirigenza che ha preso il
potere dopo la caduta di Mubarak, ha manifestato la piena continuità col regime
precedente, nel senso di non fare nulla per cambiare una situazione disastrosa.
Solo un esempio: in un paese che ha nel turismo una fonte di introiti
importantissima, da cui anche le famiglie dei venditori ambulanti di
chincaglierie traggono di che vivere, tutto questo comparto è rimasto
abbandonato a se stesso per le remore moraleggianti dei musulmani ortodossi
verso le contaminazioni portate dagli “infedeli”, di modo che oggi l’afflusso turistico
si concentra sui villaggi-vacanze e sugli alberghi del Mar Rosso (peraltro in
una penisola del Sinai sempre più pericolosa): niente più Cairo, Museo Egizio,
Piramidi e crociere sul Nilo. Quanti vi lavoravano e le relative famiglie sono
ora a spasso.
Inoltre, nel suo
barcamenarsi opportunistico Morsi, per compiacere gli Stati Uniti (e
conseguentemente Israele) nel suo anno di presidenza non ha nemmeno riaperto il
valico di Rafah, che collega Egitto e Gaza, e attraverso cui un ingente
traffico di merci avrebbe potuto essere movimentato, a tutto vantaggio sia
della popolazione dell’isolata striscia di Gaza, sia dello stesso Egitto.
La Turchia ha,
certo, i suoi problemi specifici e un tasso di corruzione tradizionalmente
elevato (la parola bakshish - mancia,
tangente – è ugualmente araba e turca). Tuttavia nell’insieme non può dirsi che
si distacchi in modo anomalo da quanto accade anche nei paesi europei
mediterranei. In Egitto, invece, la cosa assume proporzioni abnormi, radicate a
tutti i livelli e questo blocca le possibilità di inserimento dignitoso e di
sviluppo delle nuove generazioni. È sufficiente accostarsi alla letteratura
egiziana contemporanea per avere un quadro che fa mettere le mani nei
capelli.
La Fratellanza
Musulmana ha creato organizzazioni meramente caritatevoli e assistenziali;
tanta gente si accontenta di ciò; ma tanta gente e tanti giovani vorrebbero
qualcosa di ben diverso e sono disposti, per averlo – o per mantenere la
speranza di averlo – anche al ritorno in campo dei militari. Si noti che invece
i manifestanti nelle strade turche non hanno chiesto un nuovo golpe militare,
bensì hanno indirizzato le loro istanze al governo civile. Che quest’ultimo sia
rimasto sordo, è altra questione. Comunque c’è da dubitare che un golpe contro
Erdoğan produrrebbe le stesse manifestazioni di entusiasmo ed euforia che
abbiamo visto a piazza Tahrir.
In Egitto, paese di
circa 80 milioni di abitanti, il 40% è costituito da persone fra i 10 e i 29
anni. In un rapporto dell’Ufficio Egiziano dell’Unpd, pubblicato nel 2010, è
stato messo in rilievo l’importanza di scolarizzazione e cultura ai fini del
miglioramento anche materiale della condizione giovanile, in un paese in cui
meno del 4% del Pil viene destinato all’istruzione e ben un terzo delle coppie
sposate sotto i 30 anni è costretto a vivere nelle case dei genitori. È
dall’epoca di Nasser che il sistema scolastico egiziano è andato peggiorando,
oggi è tra i pessimi nello stesso mondo arabo: il tasso di analfabetismo è al 29% e il numero dei giovani che abbandonano la scuola prima del diploma è sempre crescente, raggiungendo
addirittura il 65% nelle zone rurali. Rimontare questa situazione è un’impresa
titanica per qualsiasi governo stabile; figuriamoci nel perdurare di una fase
di turbolenza politica e incertezza per il futuro.
Molto più grave che in Turchia è in Egitto lo scollamento fra scuole e
mondo del lavoro. Una delle più gravi conseguenze consiste nella necessitata
dipendenza del paese dai tecnici stranieri per i programmi di sviluppo, e nella
sua difficoltà a partecipare allo sviluppo scientifico, a motivo del fatto che
(come sovente, e non a caso, avviene nei paesi “depressi”) una grande
percentuale di studenti - il 64% - preferisce iscriversi alle facoltà
umanistiche Lettere, Giurisprudenza, Pedagogia e a quella di Economia e
Commercio, e solo 17,6% va a Ingegneria, Medicina, Farmacia, Fisica e Chimica.
Nel 2010 è stato riscontrata una vera e propria fuga verso le facoltà
umanistiche rispetto al 2000. Da qui l’abbondanza di laureati disoccupati e dal
futuro più che in certo in un paese ad alto tasso di povertà.
E infine, ma non da ultimo, c’è un problema economico di massa, che in
Egitto in definitiva è la vera molla della protesta giovanile. Dal punto di
vista finanziario lo Stato è rimasto praticamente senza soldi e sono in stallo
le trattative con il Fmi (rimedio peggiore del male, ma i soldi servono); la
disoccupazione non cala, anzi; del
turismo è meglio non parlare; i capitali sono in fuga, le riserve di valuta
straniera si sono contratte, la lira egiziana è in caduta libera seppure
aiutata dal Qatar; il popolo è alle
prese con l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità; i black-out elettrici
sono continui e la benzina scarseggia. E la povertà è arrivata a colpire il 40%
della popolazione. Se mettiamo nel conto anche l’autoritarismo islamista, che
non lascia indenni le vite private, non stupisce la ribellione giovanile;
semmai stupisce che ci siano ancora giovani a sostenere i Fratelli Musulmani.
Dall’esterno la protesta giovanile egiziana non ha nulla da sperare. Non
dall’Europa, la cui classe politica è addormentata, priva di politica estera e
incapace di rendersi conto che tutto ciò che accade nel Mediterraneo, nel
Vicino e Medio Oriente dovrebbe rientrare – per le sue conseguenze dirette –
fra le questioni prioritarie. Non dagli Stati Uniti, imperialismo a parte.
Oggi, infatti, la politica statunitense verso il mondo arabo non si capisce
dove vada a parare, non ha logica e non ha prospettive. Proprio nel caso
egiziano essa si è manifestata per ciò che è: tutto il contrario di quanto ci
si aspetterebbe da un gigante imperialistico di quella fatta. Già all’inizio del 2011, con le agitazioni anti-Mubarak a piazza Tahrir, Hillary
Clinton (ministro degli Esteri!) pontificava sulla stabilità del governo dell’epoca;
l’inviato speciale di Washington al Cairo, Frank Wisner, altro acuto
osservatore, faceva conto su Mubarak per condurre la transizione. Ma questo è
il meno: anche la storia dell’imperialismo britannico (ben più serio) conta “cappellate”
notevoli. A rendere invece priva di incidenza qualsiasi azioni statunitense è
la cecità – da cui deriva poi incapacità operativa – sull’importanza di entrare
in contatto dialogico con le opposizioni, virtualmente l’alternativa a
qualsiasi regime.
Inoltre, nel caso
egiziano gli Stati Uniti non hanno nemmeno cercato un’entente con i Fratelli Musulmani e con lo stesso Morsi, anzi
“diplomaticamente” definito da Obama “né alleato né nemico”, dopo le
manifestazioni svoltesi innanzi all’ambasciata statunitense del Cairo all’epoca
dello scandalo suscitato dal filmaccio The Innocence of Muslims.
Washington si è limitata a dare un’applicazione puramente pragmatica al
rapporto scritto nel 2010 dall’attuale ambasciatore a Mosca Michael McFaul, che
raccomandava di allacciare stretti rapporti con qualsivoglia regime arabo. Ma i
rapporti solidi non ci sono stati, l’unico vero interesse statunitense è stato
quello di curare che l’Egitto dopo Mubarak non denunciasse il trattato di pace
con Israele, ma non è stata mai presa in considerazione l’instaurazione di
contatti stabili con le opposizioni per il caso di alternativa concreta. Anzi,
nel 2011, dopo un incontro con i contestatori di piazza Tahrir, sempre Hillary
Clinton giunse alla conclusione che mai sarebbero riusciti a combinare una piattaforma politica capace di raccogliere
consensi di massa e velocemente. I Fratelli Musulmani sono stati per Washington
l’unico referente egiziano ma senza instaurare con esso rapporti effettivamente
costruttivi. Eppure Washington dispone di quella notevole forza di pressione
che si chiama “aiuti economici indispensabili” il cui uso, o almeno la cui
prospettazione, avrebbe potuto spingere il governo di Morsi a comportamenti più
aperti sulle libertà civili, i diritti delle minoranze e il rispetto delle
donne. La
conclusione attuale è che sia gli anti-Morsi sia i pro-Morsi ce
l’hanno con gli Stati Uniti. Il che potrebbe anche non essere un male, se
canalizzato verso prospettive di cambio sociale radicale.
Ai fini del non
doversi aspettare nulla i giovani di Tahrir e luoghi consimili c’è un ulteriore
questione: il dubbio forse non peregrino che l’Egitto non sia più considerato
dagli Stati Uniti perno strategico del Vicino Oriente, a parte il trattato con Israele.
Ma, per garantirsi questo, è ancora necessario investire come prima sul Cairo?
A seguito del tutto
sommato intempestivo intervento dei militari, si è creata una situazione tale
per cui ai giovani egiziani si prospettano o una guerra civile, o una dittatura
militare, o una nuova vittoria elettorale dei Fratelli Musulmani, o uno stato
di caos politico ed economico dalla durata indeterminabile a priori. Di
prospettive di rivoluzione sociale per il momento neanche l’ombra. L’Egitto
odierno paga le colpe del suo passato movimento operaio, mentre Turchia ed
Egitto pagano le colpe della frantumazione nazionalistica delle principali
lotte di massa oggi in corso nel mondo. Il discorso è lungo ma ormai si
dovrebbe aver capito da dove dovrebbe partire.
Cosa invece unisce le due piazze
L’elemento di
unione sta nel modo particolare con cui sia in Turchia sia in Egitto i
governanti a loro volta concepiscono la democrazia (si fa per dire), e quindi
il tipo di non-interlocutore con cui ogni protesta deve confrontarsi.
Cominciamo con il paese di Erdoğan.
Se vogliamo
continuare ad attribuire a questo personaggio la formazione di una nuova
Turchia, che continua ad agitarsi dimostrando che il timore verso l’autorità
politica si è per lo meno ridotto, allora dobbiamo chiederci cosa sia successo,
cioè perché sia stata tanto violenta la reazione di questo personaggio il quale
non ha nemmeno preso in considerazione la possibilità del dialogo. Eppure in
passato, per aver letto in pubblico una poesia palesemente filoislamica, aveva
conosciuto carcere e tortura. Il fatto
che sia rimasto sorpreso dagli eventi non spiega nulla.
Al di là di ogni
ideologia, la storia non è fatta solo da situazioni o interessi materiali,
bensì anche dal modo di essere di quelli che una volta ne erano presentati come
i protagonisti esclusivi, cioè le persone fisiche. Il vecchio detto di Pascal
sulla lunghezza del naso di Cleopatra come fattore decisivo per il corso degli
eventi, resta ancora valido, coniugato con tutt’altro tipo di elementi.
In buona sostanza,
a Erdoğan il potere ha dato fortemente alla testa, accentuando di molto certe
sue componenti caratteriali. Ormai egli è convinto di essere l’incarnazione
dello Stato, che lui sa tutto e ha ragione su tutto, tanto da potersi
intromettere in tutto. Una delle conseguenze è il timore suscitato all’interno
stesso del suo partito, dove infatti il dibattito politico è in pratica
inesistente. È un fatto inoppugnabile che fino al 2005 il governo dell’Akp abbia
operato per aprire spazi pubblici e spazi politici, incrementando rispetto al
prima le dinamiche della democrazia; come pure che i contestatori di oggi
abbiano ampiamente beneficiato di ciò e delle inerenti riforme politiche. Oggi
il paese è virtualmente più democratico rispetto al passato anche recente. Ma è
altrettanto inoppugnabile che a partire dal 2007-2008 sia in atto un
arretramento a motivo esclusivo del personalismo autoritario e dell’arroganza
di Erdoğan, che si sente il padre-padrone della Turchia, senza però averne le
capacità intellettuali e politiche necessarie, con conseguente perdita di
carisma e della sua asserita superiorità morale. A fronte di ciò, dalle piazze
turche non viene una rivendicazione di democrazia tout court (cioè punto e
basta), come può essere invece nel caso dell’Egitto, bensì di maggiore
democrazia in conformità a quanto inizialmente prospettato.
Riguardo all’Egitto
si deve innanzi tutto rilevare come il concetto di democrazia assuma
connotazioni particolari su tutti fronti. I liberali e i democratici egiziani
invocanti l’intervento delle Forze Armate contro una determinata parte politica
esprimono un atteggiamento che trova la sua spiegazione nel contesto specifico
egiziano, che però fa parte di quello arabo-islamico in generale: la democrazia
rappresentativa va difesa – e quindi dev’essere tutelata ab extra – per evitare che finisca con l’orientarsi verso svolte
confessionali autoritarie munite di appoggio di massa.
Se nel mondo
occidentale, bene o male, Chiese e Confessioni religiose sono state costrette
(vuoi dalla politica, vuoi dall’evoluzione delle mentalità e dei costumi) ad
accettare di fatto la separazione tra sfera civile e sfera religiosa – salvi i
tentativi di sconfinamento sempre possibili – nel mondo arabo-islamico ciò è
stato accettato solo dalle minoranze religiose, laiche e di sinistra. Le masse
rurali e delle periferie urbane invece sono ben lungi dall’aver metabolizzato
questo assetto. La sintetica conclusione è che competizioni elettorali libere e
non inquinate danno e daranno la maggioranza parlamentare ai partiti islamici
nel 90% dei casi. Come ha giustamente concluso Frank Gardner della BBC verso i
regimi arabi: “se fate le elezioni, preparatevi ad avere un governo islamista”.
Non sarà bello a dirsi, ma è così.
Da qui la
spiegazione del “mistero” per cui fior di liberali e democratici chiedono
l’intervento militare e lo applaudono: conoscono benissimo il carattere
tendenzialmente totalitario dei loro competitori, per i quali la democrazia
rappresentativa e le elezioni sono solo degli strumenti. A ben guardare, le
masse egiziane pro-Morsi non sono indignate tanto per il rovesciamento di un
Presidente regolarmente eletto, quanto e soprattutto per il sacrilegio commesso
nell’abbattere un Presidente islamista. Per esse non si tratta di violazione
della legalità repubblicana, bensì di opposizione all’Islam, da parte di
presunti musulmani: cioè apostati punibili con la morte.
A questo punto si
pone il generale problema politico attinente alla praticabilità nei paesi
musulmani di una via democratica rappresentativa che non si esaurisca nelle
competizioni elettorali. Essendo sempre presente sullo sfondo la “vandea
islamista”, è ragionevole pensare che essa non sarà praticabile fino a quando
all’interno delle società in questione non si realizzino un’acculturazione di
massa e l’eliminazione delle cause materiali che finora hanno reso possibile il
recupero di tante persone alla convivenza sociale, culturale e politica
pluralista. Se e quando mai ciò si realizzerà.
Morsi e i dirigenti
della Fratellanza Musulmana magari stanno meglio di testa rispetto a Erdoğan,
ma con lui condividono una concezione del potere democratico coincidente con
quello della destra europea. Ricordiamo il “non si fanno prigionieri” di
Previti subito dopo la vittoria elettorale di Forza Italia. Sia per Erdoğan sia
per Morsi la vittoria alle elezioni chiude giochi e discorsi per tutta la
durata della legislatura: il vincitore fa quello che vuole e l’opposizione è
meglio che stia zitta, poiché altrimenti è come se contestasse e disprezzasse
il risultato elettorale diventando essa antidemocratica (!). Di dialogo e
mediazioni nemmeno a parlarne. Da qui alcune ovvie conseguenze, fra le quali la
pretesa di attribuire al governo e ai suoi organismi dipendenti un potere di
indirizzo e comando non sancito da alcuna norma; la tendenza a ignorare ogni
separazione fra i poteri dello Stato; lo sforzo di sottoporre i mezzi di
comunicazione e informazione a controlli e pressioni di ogni genere. Anche su
questo versante un modo opportunistico di concepire la democrazia
rappresentativa e lo Stato di diritto.
Ma vi è anche un
altro elemento di omogeneità. Pur nella diversità di contesti, Erdoğan e Morsi
si sentono investiti dal sacro compito di riequilibrare con una controsterzata
i “danni” fatti dalla laicità nei propri
paesi. Per noi occidentali, minimi in Egitto, fermo però restando che per un
musulmano ortodosso già una donna con la testa scoperta e magari truccata grida
vendetta davanti ad Allah; enormi in Turchia, dopo quello che può essere
considerato il tritacarne di Atatürk.
Ulteriore elemento
in comune è la situazione delle società dei due paesi: società spaccate in due
da contrapposizioni insanabili. Un equilibrio può essere dato dalla coesistenza
indotta dalla sostanziale equivalenza delle forze e dal fatto che una delle
parti non voglia imporsi sull’altra; altrimenti lo scontro diventa inevitabile
perché fisiologico e i richiami esterni alla pacificazione devono per forza
restare lettera morta.
9 luglio 2013
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