Quanto è accaduto in Egitto era facilmente prevedibile (ed era stato previsto negli articoli comparsi su questo blog). In un paese in cui gli islamisti non dispongono né del monopolio della forza né di una forza davvero soverchiante era ovvio che prima o poi la loro incapacità di amministrare e governare - impacciati come sono dagli assurdi princìpi “l’Islam è l’unica soluzione” e “il Corano è la vera Costituzione” - doveva lasciarli politicamente smascherati e indifesi dinanzi alla furia di masse popolari alle quali prima di tutto interessa la soluzione dei tremendi problemi economici, sensibilmente aggravati dal crollo del turismo. Mangiare le pagine del Corano non serve a nutrire il 40% della popolazione bisognosa.
Attualmente si discute a tutto spiano se sia stato compiuto un vero e proprio golpe militare, o se ci sia stata una rivoluzione in cui l’esercito ha dato l’ultima spallata a un potere contestato da una gran parte della società egiziana. La discussione è sterile. Per il formalismo giuridico ogni rottura di un assetto costituzionalmente garantito è una rivoluzione, e lamentare che sia stato abbattuto un Presidente eletto lascia il tempo che trova, in quanto anche Mubarak (deposto prima di Morsi) era stato formalmente eletto dal popolo. Ammesso che si sia trattato di una rivoluzione (politica), ciò significa poco, non trattandosi certamente di una rivoluzione sociale.
Il problema è invece stabilire chi abbia vinto questo primo round, giacché i giochi sono ancora aperti e si sta profilando un bagno di sangue che potrebbe fare sprofondare l’Egitto in una situazione di tipo algerino (lì ci furono almeno 200.000 morti), o anche siriano, considerando che negli ultimi tre mesi l’esercito egiziano ha sequestrato un quantitativo di armi e munizioni pari a quello sequestrato negli ultimi dieci anni (!), che nel Sinai bande jihadiste sono in azione e l’aeroporto di al-Arish è stato attaccato.
Il 4 luglio il manifesto ha pubblicato un articolo sull’Egitto dal titolo «La rivoluzione inizia ora», che evidentemente non si riferisce a quanto sostenuto dal
formalismo giuridico, ma implica ben altro. Orbene, che i recenti avvenimenti portino alla democrazia rappresentativa e che la reazione di una parte notevole della popolazione egiziana contro il governo islamista significhi che i laici finalmente l’hanno spuntata, sono tutte cose per niente sicure. Al momento - 6 luglio 2013 - si può dire con certezza solo che il primo round se lo sono assicurato le Forze armate, cioè una parte davvero compatta e potente della società egiziana (sarebbe più corretto dire nella società egiziana). Volendo azzardare, si potrebbe supporre che le Forze armate si assicureranno anche i round successivi, seppure a un prezzo altissimo per tutto il paese.
L’esercito egiziano e la sua potenza economica
Qualcuno potrebbe avere la tentazione di parlare di “ironia della storia” giacché, dopo l’asserita “primavera araba”, si erano spese fior di energie nel sostenere la convenienza per il mondo arabo di adottare il modello turco, intendendosi con ciò un governo islamico moderato e democratico; invece nei giorni scorsi il modello turco realizzato potrebbe essere considerato di taglio kemalista piuttosto che “alla Erdoğan”. Tentazione forte, ma interpretazione erronea.
Le Forze armate in Egitto sono un mondo a parte, al di là della contrapposizione laici-islamisti, in quanto portatrici di interessi propri, coesistibili - a determinate condizioni - con qualsiasi regime che non sia quello dei Talebani o dei Salafiti di turno. Tutte le volte che esse sono intervenute nella vita politica del paese a muoverle è stata essenzialmente la difesa dei propri interessi economici corporativi. Il loro potere, già formatosi sotto Nasser, è aumentato nell’epoca delle liberalizzazioni, avviata da Sadat e poi decisamente proseguita da Mubarak. In buona sostanza i militari hanno le mani in pasta in agricoltura, nel turismo (con il controllo di grandi alberghi), in joint ventures con imprese straniere, nell’editoria, in industrie di produzioni per uso civile (computer, televisori, lavastoviglie e frigoriferi compresi), nella farmaceutica, nel comparto alimentare (pane, latte, carne, acqua minerale), nella costruzione delle principali arterie stradali, nel contrabbando e nel mercato nero; le società controllate dai militari nel campo delle costruzioni danno lavoro ai soldati che stanno per andare in pensione; non è per nulla raro trovare militari in veste di amministratori delegati di grandi aziende. Infine essi godono di sussidi vari e dispongono di manodopera a basso costo, esenzioni nella tassazione e nelle regole per la costruzione di immobili. In concreto pare che almeno il 30% dell’economia egiziana sia controllata dai militari, tanto che in un cablo del 2011, rivelato da WikiLeaks, l’ambasciatrice statunitense al Cairo Margaret Scobey li definì «un’impresa quasi commerciale».
Il lato negativo di questa forte posizione non si riduce alla corruzione e all’evasione fiscale,
ormai diventate cosa “normale”, ma comprende la seguente situazione: l’insieme
del comparto economico nelle mani dei militari, con i suoi privilegi, è di
ostacolo allo sviluppo del vero e proprio settore privato, anche perché il
ministero della Difesa può interrompere qualsiasi contratto per ragioni di
sicurezza.
Siamo sicuri che l’esercito abbia compiuto un’opzione laica?
Nella discesa in
campo dell’esercito la difesa della laicità non c’entra affatto. C’entra invece
il tradizionale ruolo delle Forze armate in Egitto e nei paesi arabi in genere,
che politicamente e socialmente non vanno per nulla visti in termini di
affinità con il mondo occidentale. In quest’ultimo nel corso dei secoli si sono progressivamente formate società
consapevoli di sé, la cui coesione si basa sull’accomunante status di
cittadinanza e sui diritti conquistati che lo sostanziano, sulla reale o
indotta condivisione di una storia collettiva, sulla distruzione di tutti i
corpi sociali intermedi, che prima della Rivoluzione francese si ponevano fra
lo Stato e singoli e a questi ultimi attribuivano specifici status identitari,
all’interno dell’altrimenti vuota qualifica di sudditi. Tant’è che alla fine di
un lungo processo storico il potere politico opera senza soverchia necessità di
fare ricorso alla forza delle armi e le Forze armate, generalmente, non
interferiscono nelle vicende politiche. La legittimità dei governi si basa su
una doppia legittimità: quella elettorale e quella derivante dal persistere del
consenso popolare. Ma quando quest’ultimo viene meno lo scatenarsi di
dimostrazioni di massa (violente o no) di norma portano alla caduta dei governi
solo se esiste una sensibilità politica che porta alle loro dimissioni o allo
scioglimento dei Parlamenti da parte dei capi di Stato. Altrimenti, fino alla
normale scadenza delle legislature i governi permangono in carica.
In Egitto (e nel mondo arabo) le cose sono andate diversamente da sempre. Cioè a dire, la “vera” legittimità dei governi risiede nella loro forza materiale: perderla equivale alla caduta. Detto diversamente: in quanto tali i governi non hanno forza; i militari sono la forza dei governi; i militari lo sanno eccome, ergo…
Anche la Repubblica egiziana è nata da un golpe militare (dell’entità del consenso popolare non si è mai interessato nessuno) che ha rotto la legalità costituzionale dell’epoca. Fino a Muhammad Morsi tutti i presidenti egiziani sono stati militari. Caduto Mubarak - più perché le Forze armate lo mollarono su input degli Usa che non per l’effettiva forza delle manifestazioni popolari (e lo stesso vale per il tunisino Ben Ali) - dopo un breve periodo di Giunta militare ecco le elezioni presidenziali vinte da Morsi nel giugno del 2012, con il corollario dell’eliminazione dell’impresentabile maresciallo al-Tantawi. Questo ha fatto pensare a taluni osservatori che Morsi fosse riuscito, con l’aiuto di una situazione particolarissima, a mettere al guinzaglio le Forze armate. Niente di tutto questo.
In breve tempo gli alti ufficiali hanno dato corso a una campagna pubblicitaria, anche televisiva, di restauro della propria immagine, unita a iniziative sicuramente demagogico-populiste, ma efficaci in un paese come l’Egitto: nei negozi gestiti dalle Forze armate la popolarissima acqua minerale Safi, la carne e il pane sono stati venduti a metà prezzo rispetto alle catene private; inoltre, possedendo catene di rifornimento di carburante, sono stati diffusi a pioggia agli automobilisti buoni sconto per la benzina diventata carissima. Come si fa a non essere grati, mentre il governo islamico è più impegnato in faccende coraniche e non sociali? In più è anche diventato autoritario senza nulla dare in cambio.
Fin dall’inizio è apparso chiaro (per chi voleva vedere) che la Fratellanza Musulmana - pur disponendo di una notevole base elettorale - non deteneva il potere di per sé ma quasi per una sorta di “delega temporanea” delle Forze armate. Queste ultime hanno evitato di gestire il potere direttamente, sia perché la realtà del paese è a dir poco “difficile”, sia perché gli Stati Uniti - grandi finanziatori dell’Egitto - avevano ormai effettuato l’opzione in favore della Fratellanza Musulmana, giocando la stessa carta pure in Tunisia e Siria.
Il recupero dell’immagine (un po’ acciaccata a dire il vero) non era particolarmente complicato, a saperci fare, in quanto nell’immaginario collettivo egiziano i militari restano pur sempre i “figli del popolo” e la spina dorsale della Nazione. Quando i miti si affermano, solo il disastro più totale li può scalzare. Restava quindi chiaro che la delega conferita a Morsi e ai suoi poteva essere revocata in caso di complicazioni prodotte dal Presidente e/o dalla Fratellanza stessa. Il che si è puntualmente verificato.
Perché Morsi se l’è cercata
Si fa presto a definire democratico un partito solo perché ha un radicamento sociale, partecipa a elezioni e le vince. È proprio il caso della Fratellanza Musulmana e di Morsi. L’autoritarismo è emerso assai presto, unitamente al disprezzo pratico per il concetto stesso di divisione dei poteri costituzionali, alla passività complice verso le persecuzioni delle minoranze religiose, all’intolleranza per la libera manifestazione del pensiero, e infine alla più totale inerzia in materia economico-sociale.
La famigerata Merryl Linch dà all’Egitto sei mesi di vita prima della catastrofe totale, restando senza risorse finanziarie per pagare debiti e fornitori, interni ed esteri; ed effettivamente le cifre fornite sembrano darle ragione: il turismo è calato del 17,3% nel primo trimestre del 2013 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; il tasso globale di disoccupazione è salito al 15% e quello relativo alla disoccupazione giovanile al 25%; la crescita del Pil, già scesa nel 2011 dal 5 all’1%, oggi è a terra e l’inflazione galoppa; le entrate finanziarie sono crollate, passando da circa 46 miliardi di dollari nel 2010 a non più di 13 miliardi nel 2012 con ovvia incidenza catastrofica sul Pil; infine l’accordo col Fmi per un congruo finanziamento resta nella sfera dei desideri.
Sotto quest’ultimo profilo ricordiamo che c’era stata all’inizio dell’anno un’intesa preliminare per 14,5 miliardi di dollari in aiuti (dei quali 4,8 coperti dal Fmi e il resto da banche garantite dal Fmi), ma la sua operatività era subordinata alle riforme promesse da Morsi, con l’aggravante che poco prima della sua caduta il Fmi si era già irrigidito sui sussidi alla benzina, che onerano le finanze pubbliche ma che Morsi non riusciva ad abolire. A rendere ancora più nero il quadro c’è il crollo delle riserve valutarie, passate - secondo la Banca Centrale - dai 36 miliardi di dollari di fine 2010 agli attuali 13,5 (ma alcuni parlano di 10). La liquidità delle banche è ai minimi termini. Con un quadro così drammatico la vicenda dei bond islamici è davvero tragicomica (più tragica, magari).
Qui va fatta una premessa: poiché la shari’a vieta l’usura (che viene considerata tale anche a interessi minimali), i classici bond - per i quali a determinate scadenze il paese emittente restituisce ai sottoscrittori il prezzo d’acquisto più gli interessi - non possono essere emessi in un paese in cui si debba avere a che fare con la legge islamica. Tuttavia gli Stati hanno bisogno di fondi; nell’islamica Malaysia sono stati inventati i sukuk, i cosiddetti bond islamici: sono emessi per finanziare progetti specifici ma senza che il sottoscrittore riceva interessi; in cambio viene a far parte del progetto e riceve (se tutto va bene, però) una parte dei profitti conseguiti. Quando però il ministro delle Finanze di Morsi ha cercato di introdurli in Egitto per far decollare un po’
l’economia, visto che in teoria avrebbero potuto attirare circa 15 miliardi di dollari l’anno, egli si è visto bocciare l’iniziativa dalla Commissione Economia e Finanza della Camera alta, con la motivazione che anche i sukuk sono contro la shari’a, perché così avevano deliberato gli esperti di diritto islamico dell’Università al-Azhar! Poi ai primi di maggio la Camera alta ci ha ripensato.
E qui si innesta un problema ulteriore, risibile ma reale. L’economia egiziana ha bisogno di investimenti (che per lo più provengono dall’estero) ma anche di turisti, considerato che il settore turistico dà introiti pari all’11,3% del Pil nazionale. Il governo della Fratellanza Musulmana invece non ha mai visto di buon occhio i turisti, a motivo della loro “pericolosità” in quanto vettori di idee e costumi occidentali; e non ne ha fatto mistero. In ordine all’economia del paese, quindi, Morsi e i suoi hanno effettuato una specie di autocastrazione.
Non si possono escludere aiuti da Emirati Arabi e Arabia Saudita, ma al riguardo esistono due problemi: a) il tempo, tenuto conto che le riserve vanno a sostegno di un debito estero cospicuo, e ci sono calcoli per cui per la fine del 2013 l’Egitto avrà bisogno di almeno 33 miliardi per far fronte ai soli costi finanziari, incluso il rifinanziamento di precedenti aiuti ricevuti dal Fmi; b) l’eventuale scoppio di una guerra civile, che manderebbe tutto a rotoli.
Durante l’anno di presidenza di Morsi la maggiore preoccupazione dei Fratelli Musulmani è stata quella di curare una ben poco liberale accentuata islamizzazione della società, di avere una posizione ostile verso le minoranze e scarso rispetto per i diritti civili, di occupare più posti possibili anche con turpi figuri (emblematica la nomina a governatore di Luxor di Adel al-Jayat, proveniente dal gruppo terrorista Giamaa Islamiyya, terminata subito con le dimissioni di costui per le proteste di imprenditori e oppositori politici).
Morsi, chiuso nel suo autismo islamistico, politicamente ha fatto tutto tranne che cercare di riequilibrare a suo favore l’equilibrio (o disequilibrio) tra le varie forze politiche. Non solo. Egli è riuscito anche ad alienarsi il Grande Imam dell’Università islamica di al-Azhar e i suoi alleati salafiti del partito an-Nuur, i quali oggi non si sono affatto mostrati ostili all’intervento dei militari. Non è casuale che il generale Abd al-Fattah al-Sisi nella sua prima apparizione pubblica avesse a fianco il Grande Imam di al-Azhar (nominato da Mubarak) e il papa copto d’Egitto. Questo attesta che le Forze armate non porranno in essere una svolta kemalista, bensì assumeranno un atteggiamento di rispetto per l’Islam ufficiale e per le minoranze.
Si capisce bene perché alla fine il fronte dell’opposizione sia riuscito a mobilitare tutti quelli che erano stanchi di questo stato di cose: nostalgici di Mubarak, membri delle minoranze religiose, laici, militanti sindacali e di sinistra, semplici cittadini.
E ora, in Egitto?
È probabile che la deposizione di Morsi significhi la fine del sogno di potere della Fratellanza Musulmana, ma non è detto che questo voglia dire anche fine dell’Islam politico in Egitto, perché l’attuale atteggiamento opportunista dei Salafiti di an-Nuur verso i militari può far pensare a un tentativo di salvare l’Islam politico, sia pure dopo l’obiettiva sconfitta della Fratellanza. Resta l’incognita della guerra civile: sarebbe ben strano se proprio i Salafiti - ramo estremista e totalitario dell’Islam politico - se ne tenessero fuori o addirittura appoggiassero i militari. Oddio, in Oriente tutto è possibile, ma se lo facessero perderebbero la loro base. Il paese è spaccato in due. Le masse islamiche sono scese in strada e si scontrano con l’esercito e gli oppositori di Morsi. Come andrà a finire? Ci sono margini per un compromesso? Comunque è difficile pensare che i generali facciano marcia indietro: equivarrebbe a perdere la faccia per un periodo indeterminato, con tutto quel che seguirebbe. Rimettere in sella un Morsi “pentito” e disposto ad accettare il contenuto di quell’ultimatum di al-Sisi che prima aveva respinto? Non è credibile, perché questo vorrebbe dire cedere alle masse islamiche e trovarsi alle prese con un Morsi in definitiva vincitore. Rimarrebbe lo scontro diretto.
Esiste il dubbio che i generali egiziani abbiano imitato gli Stati Uniti, che fanno le guerre senza sapere poi come uscirne. Vediamo perché. A meno di non essere forzati dal precipitare della situazione, i militari non formeranno un loro governo. Toccherà a al-Baradei? Un laico e difensore dei diritti umani che molti nella Fratellanza Musulmana vorrebbero vedere impiccato? È un uomo di grande prestigio all’estero, ma in Egitto non è detto che riesca a coagulare dietro di sé il seguito necessario. E poi siamo sicuri che nuove elezioni (quando ci saranno) non ridarebbero la maggioranza alla Fratellanza Musulmana? O bisognerebbe vietare, come in passato, i partiti che si richiamino in qualche modo alla sua ideologia? Quale potrebbe essere la coalizione di al-Baradei? Un’innaturale unione fra nostalgici di Mubarak e laici sostenuta dai militari? I laici appaiono meglio posizionati rispetto a prima, ma resta l’intrinseca debolezza di un fronte di opposizione a Morsi unito dal solo rifiuto del suo regime. Vedremo che tipo di progetto politico ne verrà fuori; sta di fatto che oggi non si vede.
Le ondate di arresti di esponenti della Fratellanza continua, e l’errore più grosso che oggi essa potrebbe fare consiste nel cercare di reagire con la forza ai militari, sia perché il potenziale bellico delle Forze armate egiziane schiaccerebbe un’insurrezione, sia perché buona parte della popolazione starebbe con i militari. Un altro errore consisterebbe nel dare luogo a una campagna terroristica insieme ai jihadisti della Giamaa Islamiyya, poiché sarebbe tanto sanguinosa quanto priva di sbocchi militari e politici.
E ora, nel mondo arabo e in Turchia?
Per la grande importanza dell’Egitto i suoi avvenimenti hanno sempre avuto ripercussioni nel mondo arabo. Segnali se ne vedono già in Tunisia, paese che per primo si era sollevato contro il proprio Presidente padre-padrone. A Tunisi la caduta di Morsi è stata festeggiata da un gruppo di tunisini davanti all’ambasciata egiziana con gli slogan «Oggi l’Egitto, domani la Tunisia», «Abbasso i Fratelli Musulmani, rivoluzione fino alla vittoria», e su Facebook sono comparsi migliaia di scritti contro Rashid Ghannushi, leader di Ennahda, il partito al potere filiale della Fratellanza Musulmana, dal contenuto «Morsi è andato: e a te, Ghannoushi, quando toccherà?». Il giorno dopo la polizia tunisina è intervenuta contro i manifestanti favorevoli a Morsi e contrari al golpe in Egitto. E anche in Tunisia, dove le condizioni economiche delle masse sono sempre più precarie e l’estremismo salafita sfida pure Ennahda, la possibilità di un intervento militare sta apparendo sullo sfondo. Foriera di tempesta sembra la conclusione che dai fatti egiziani ha tratto proprio Ghannushi: «Un golpe contro la legittimità democratica porta a perdere fiducia nella democrazia come principio e processo e alimenta il radicalismo e la violenza».
In Turchia non vi è dubbio che i militari, maltrattati e contenuti da Erdoğan, guardino con invidia ai colleghi egiziani; e che aria tiri lo dimostrano la dichiarazione del
ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu («Non è accettabile che un presidente eletto sia destituito con un golpe militare») e la convocazione di un vertice d’emergenza con alcuni esponenti del governo e del partito al potere fatta da Erdoğan.
Chi invece gongola è il siriano Assad. Il collasso della Fratellanza egiziana, infatti, può avere contraccolpi anche in Siria, dove i locali Fratelli Musulmani sono attivamente schierati con i ribelli: non solo perché i Fratelli egiziani devono soprattutto impegnarsi a fronteggiare i propri problemi, ma anche perché il fallimento del governo islamico in Egitto non può che colpire anche illusioni suscitate in Siria e giocare a favore di un regime sostanzialmente laico come quello di Damasco, non a caso appoggiato all’interno da cristiani delle varie confessioni, sciiti, drusi, sunniti moderati e laici.
Dal canto loro gli Shabab somali hanno assunto la posizione di Ghannushi, nel senso che la caduta di Morsi dimostra il non funzionamento della democrazia.
Il governo algerino ovviamente non ha condannato la deposizione di Morsi, mentre in Marocco le posizioni sono più articolate. Ad esempio il periodico At-Tajdid - vicino all’islamista Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Pjd) che guida il governo da un anno e mezzo - ha sostenuto che «l’intento di indebolire gli islamisti solo ne rafforza la presenza», che «la storia ha dimostrato che gli islamisti tornano sempre» e che la soluzione consiste «nel dare ai cittadini il diritto di castigarli e premiarli». Invece i sostenitori della monarchia hanno ben accolto la caduta di Morsi. Comunque in Marocco la coalizione governativa a guida islamista - in crisi da due mesi - potrebbe avere vita breve, poiché si è in attesa che re Muhammad VI (discendente del Profeta) decida se il partito nazionalista Istiqlal debba restare nella coalizione oppure uscirne, in modo da formare poi una nuova maggioranza senza il Pjd.
E ora, l’Occidente?
Tra i perdenti dobbiamo anche annoverare il brain(!)-trust della Casa Bianca. Cioè i consiglieri che avevano persuaso Obama circa l’opportunità di un’alleanza tra gli Usa e la Fratellanza Musulmana, tant’è che Washington fino all’ultimo momento ha appoggiato Morsi. Palesemente oggi gli Stati Uniti non sanno che pesci prendere, stretti come sono in una politica contraddittoria che oggi assiste alla crisi egiziana dell’Islam politico, da loro fortemente appoggiato magari senza fidarsene fino in fondo; che mantiene l’alleanza privilegiata con l’Arabia Saudita, madre e foraggiatrice di terrorismi islamici; che ufficialmente combatte quest’ultimo ma lo foraggia in Siria; che deve considerare anche la crisi turca.
Non ci sarebbe da stupirsi se gli Usa alla fine ripiegassero sulle vecchie posizioni: se l’Islam “moderato” scricchiola o cade, se i laici sono ancora deboli, non sarà meglio tornare ad appoggiare - o tollerare - i dittatori laici? C’è poi il rischio di un cambiamento nella politica egiziana verso Israele, per come è stata da Sadat in poi. Morsi non l’ha mutata, ma disponeva di impeccabili credenziali islamiche perché questo non gli procurasse problemi interni. Lo stesso non si può dire per chi governerà ora. Tuttavia c’è un elemento che potrebbe lasciare inalterata questa politica: la situazione nel Sinai. In base agli accordi di pace l’Egitto ha rinunciato a tenere in quella penisola forti contingenti di truppe; la conclusione è che essa è diventata un luogo in cui i jihadisti scorrazzano con una certa libertà d’azione. L’aggravarsi di quella situazione locale potrebbe rendere necessaria un’intesa fra Egitto e Israele affinché l’esercito del Cairo possa avere una maggiore possibilità d’intervento, non essendo pensabile che le operazioni contro i jihadisti sinaitici siano condotte dall’esercito israeliano in territorio egiziano.
In tutto questo pasticcio tace l’Europa; proprio quell’Europa che dovrebbe essere più direttamente interessata per l’instabilità (a dir poco) delle sponde orientale e meridionale del Mediterraneo. Non che ci si attenda alcunché di buono dalle scelte politiche della Commissione europea. Lo stiamo dicendo così, solo per la curiosità di sapere come la pensino, ammesso che qualcosa pensino. Lady Ashton (vicepresidente della Commissione e reduce da un tour di cinque giorni in Medio Oriente), se ci sei batti un colpo…
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