Un
discorso sul Brasile odierno, innescato dalle manifestazioni popolari, non può
prescindere dall’affrontare il tema delle possibilità di ripresa del Pt, dal
fornire maggiori dettagli sui caratteri della povertà, dal dare qualche
rilevante esempio sui disastri sociali ed ecologici del Pt che meglio lo
delineano come referente politico di certi settori della borghesia brasiliana.
Ma un primo paragrafo va dedicato a un problema oggi dibattuto in Brasile e
fuori.
“Primavera brasiliana” o si prepara una svolta a destra?
La questione è dibattuta in Brasile e sulla stampa portoghese. Naturalmente non vi sono risposte sicure, c’è solo da stare a vedere. In Portogallo l’opinione prevalente è che in effetti ci siano state e ci siano manovre della destra brasiliana (notoriamente ultrareazionaria) per egemonizzare la protesta popolare, ma che i movimenti sociali che in qualche modo l’hanno finora animata siano riusciti a emarginare i gruppi fascisti, destrorsi e violenti che si erano infiltrati al fine di fare assumere alle manifestazioni l’obiettivo primario della caduta del governo federale. In Brasile sembra però che la questione preoccupi e sia ancora aperta tant’è che sono attentamente osservate e valutate le manovre della stampa locale, maggioritariamente controllata dalle destre, non essendo mai riuscite le sinistre a creare organi di informazione capaci di operare come controaltare. Ebbene innegabilmente - per quanto alla base della protesta ci siano state massicce autoconvocazioni del tutto estranee ai partiti politici - i media e i partiti di destra cercano ancora di spostare gli obiettivi di massa dalle rivendicazioni concrete alla questione della corruzione per poi orientare il passaggio degli obiettivi verso un finale e secco “fora Dilma”.
La questione è dibattuta in Brasile e sulla stampa portoghese. Naturalmente non vi sono risposte sicure, c’è solo da stare a vedere. In Portogallo l’opinione prevalente è che in effetti ci siano state e ci siano manovre della destra brasiliana (notoriamente ultrareazionaria) per egemonizzare la protesta popolare, ma che i movimenti sociali che in qualche modo l’hanno finora animata siano riusciti a emarginare i gruppi fascisti, destrorsi e violenti che si erano infiltrati al fine di fare assumere alle manifestazioni l’obiettivo primario della caduta del governo federale. In Brasile sembra però che la questione preoccupi e sia ancora aperta tant’è che sono attentamente osservate e valutate le manovre della stampa locale, maggioritariamente controllata dalle destre, non essendo mai riuscite le sinistre a creare organi di informazione capaci di operare come controaltare. Ebbene innegabilmente - per quanto alla base della protesta ci siano state massicce autoconvocazioni del tutto estranee ai partiti politici - i media e i partiti di destra cercano ancora di spostare gli obiettivi di massa dalle rivendicazioni concrete alla questione della corruzione per poi orientare il passaggio degli obiettivi verso un finale e secco “fora Dilma”.
Il
fatto che la corruzione in realtà riguardi tutti i partiti brasiliani dice poco
in merito a tale manovra, giacché oggi il soggetto visibile con immediatezza,
essendo al governo della federazione, è la coalizione guidata da Dilma
Rousseff, che ha nella corruzione un tallone d’Achille non inferiore a quelli
dei suoi oppositori. Intanto i partiti di destra si danno da fare, come il Psdb
(Partido da Social Democracia Brasileira) di Aécio Neves che già sta
montando un anticipo di campagna elettorale con spot che cavalcano la protesta
di piazza. Silenti restano invece i partigiani di Lula – cioè i fautori del suo
ritorno alla Presidenza – forse perché non ancora in grado di valutare fino a
che punto la protesta abbia intaccato la sua immagine e il suo prestigio.
Si
spera che sia infondata la tesi di alcuni sull’esistenza di aria di golpe,
fondata su episodi che sembrano fatti apposta per creare un’atmosfera da
“restaurazione dell’ordine”, che in America latina è sovente anticamera del
colpo di stato: il 18 giugno la presenza di provocatori nel tentativo di
invadere la Prefettura di São Paulo; il 20 l’ostentata presenza di skinheads e gruppi fascisti
che hanno aggredito militanti di sinistra; nello stesso giorno l’iniziativa
della famigerata TV Globo che ha sospeso l’usuale trasmissione di telenovelas per dedicarsi alla copertura
delle manifestazioni ovviamente presentandole e commentandole in modo distorto;
il 21 militanti dei partiti di sinistra hanno cercato di unirsi alla protesta
nella Avenida Paulista, inquadrati e con tanto di bandiere, ma sono stati
beffeggiati e costretti ad andarsene, mentre elementi di destra hanno cercato
di orientare gli slogan in senso antigovernativo, e durante la notte si è
verificata l’iniziativa di piccoli gruppi che hanno bloccato le vie di
collegamento fra São Paulo e il resto del paese; infine i vari episodi di
saccheggio e vandalismo. Certo non è confortante quanto accaduto il 25 giugno
nella favela Nova Holanda (vicina
all’aeroporto) dove invece della normale polizia è intervenuto in armi il
terribile Bop (Batalhão de Operações
Especiais) poiché alcuni civili (membri delle gangs?) avevano sparato colpi d’arma da fuoco dopo una
manifestazione. Risultato: 9 morti.
A dire la verità non sarebbe la prima volta che
una protesta iniziata con un certo segno alla fine si risolva in vittoria
proprio di settori politici di segno opposto. La “primavera” araba docet. Tuttavia (golpe militari a parte)
l’attuale movimento brasiliano si caratterizza per le sue richieste traducibili
in rivendicazioni di diritti e di maggiore partecipazione politica per la
popolazione oltre che per l’opposizione al neoliberismo. Questo sembrerebbe
essere uno scudo contro le manovre di destra. Inoltre, tenuto
conto dell’obiettiva influenza dei media (di destra) nel paese, un’importante
contrasto (seppure non esaustivo) potrebbe venire dalle varie Assemblee
Popolari costituitesi in varie città (São Paulo, Rio de Janeiro, Fortaleza,
Belo Horizonte, Brasilia ecc.). Esse possono diventare punto di partenza e
sviluppo per dibattiti, presa di coscienza sui diritti, manifestazioni popolari
e controinformazione, in una dimensione non massificata dai media e – perché no
– per la creazione di un’interfaccia per dialogare col potere ufficiale. Il
loro sviluppo sarà importante anche al fine di mantenere alla protesta la
spontaneità della lotta. In definitiva il movimento brasiliano sarà pure
apartitico, ma non è per nulla apolitico, e come fenomeno appartiene ai casi in
cui un certo miglioramento delle condizioni economiche di vita porta a
rivendicare anche una migliore qualità sociale della vita e in genere più
diritti.
Non
si può escludere che alle prossime elezioni presidenziali (a parte l’incognita
costituita da Lula) ci possano essere delle sorprese. Da un recentissimo
sondaggio dell’istituto Datafolha
risulta che a São Paulo il 30% dei manifestanti vorrebbe come Presidente della
Repubblica Joaquim Barbosa, attualmente presidente del Supremo Tribunale
Federale, arcinemico della corruzione, che però non è candidato; il 22%
vorrebbe l’ecologista Marina Silva; solo il 10% vorrebbe ancora Dilma Rousseff.
Da notare che il 78% di questi manifestanti (il 63% di essi è di età fra i 21 e
i 35 anni) ha compiuto gli studi superiori e all’87% si dichiarano sostenitori
del sistema democratico-borghese.
Il Pt è in difficoltà ma,
sapendoci fare, potrebbe convertire la crisi in opportunità
Il
26 giugno la piccola ma combattiva Federação
Anarquista de Rio de Janeiro (Farj) – che opera attivamente nel sociale –
ha diffuso un comunicato in cui si evidenziano le responsabilità dimenticate
della sinistra ufficiale impegnata «nel disputare il controllo di apparati
sindacali e studenteschi a detrimento del rafforzamento delle sue basi. Sono i limiti di una pratica
d’apparato e strumentale verso i
movimenti sociali ( che servono solo nella maggior parte dei casi per approvare
la voce del partito). Il movimento mette in rilievo la mancanza di inserimento
sociale di gran parte della sinistra tra i disoccupati, le favelas, la gioventù povera
e precarizzata (che avrebbero potuto essere fondamentali nel processo di
approfondimento delle richieste popolari). Mette in rilievo politiche equivoche
centrate sulla conquista dell’apparato statale, sulle elezioni borghesi o sul
rafforzamento di mandati parlamentari “combattivi” per alcuni settori, marcati
dal personalismo e dal legalismo borghese nel rito del voto».
Intanto
nelle fila del Pt non mancano i tentativi di autocritica, ma spesso – come
accade quando ci si continua a muovere nell’ottica comunque giustificazionista
del proprio partito, seppure parziale – non sempre si coglie il segno. Così
come quando si attribuisce un ruolo prevalente al fatto che il Pt, essendo il
maggiore nel paese, sarebbe diventato per molti il simbolo stesso del sistema
politico che incontra un rifiuto di massa. Non si deve dimenticare che a un
simile orientamento hanno dato un notevole contributo proprio esponenti del Pt,
il ministro della
Giustizia, Cardozo, che aveva offerto l’invio di truppe federali contro i
manifestanti; o il prefetto Haddad che aveva rifiutato di fare marcia indietro
sull’aumento delle tariffe dei trasporti pubblici.
Comunque al momento non è pensabile che le
manifestazioni popolari portino a una sconfitta del Pt da parte di gruppi di
sinistra giacché se il Pt soddisfa le richieste che vengono dalle strade può
recuperare consenso; e se invece non lo farà o non ci riuscirà, ebbene a
spuntarla saranno le destre.
Il problema è se Rousseff e la dirigenza del Pt
sapranno instaurare un colloquio costruttivo con i movimenti sociali,
accogliere le richieste di riforma, aprirsi al controllo popolare e promuovere
finalmente una lotta alla corruzione dilagante. D’altro canto nel 2014 si
terranno le elezioni presidenziali e se Rosseff non si smarca dalle più
pericolose collusioni con il fronte della borghesia queste elezioni potrebbero
apportare sorprese. I mesi che vengono dovranno essere adeguatamente messi a
frutto, anche perché – come si nota sulla stampa portoghese – è sempre
incombente il “grande fratello” statunitense, a cui se non conviene mai che da
qualche parte vi sia uno stabile governo di sinistra per i suoi parametri,
tanto meno conviene averlo in quello che continua a considerare (seppure non lo
dica più) il suo cortile di casa.
Dilma Rousseff ha cercato subito di entrare in
sintonia con le richieste popolari, tanto che nel pacchetto di misure
annunciato dopo aver convocato i 27 Governatori statali, c’era anche la
convocazione di un’Assemblea Costituente per varare in termini brevi una
riforma del sistema politico. Tuttavia, il giorno dopo ha fatto marcia indietro
su pressione del suo vicepresidente Michel Temer e di vari parlamentari
costituzionalisti o solo giuristi. È però rimasta la promessa di convocare
entro 45 giorni un referendum su temi come il finanziamento dei partiti, il
modello elettorale, la qualificazione della corruzione come crimine gravissimo
(hediondo), patti sociali su salute e
istruzione. Resta l’aspettativa dell’estensione del modello Fifa di
investimento per gli stadi anche ai servizi pubblici e alle
infrastrutture.
La povertà in Brasile oggi
Ultimamente
in questo paese il fenomeno della povertà ha subìto mutamenti sociologici al di
là della sua diminuzione quantitativa in termini assoluti, come risulta anche
dai dati forniti in aprile dal rappresentante del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, Jorge
Chediek,
Tuttavia
vi è da sottolineare un altro aspetto, cioè quello relativo al locum della riproduzione della povertà:
in passato era quello dei settori tagliati fuori dal mercato del lavoro e
quindi forzatamente costretti all’inattività (emarginati delle miserabili
favelas, bambini, infermi, menomati ecc.). Oggi invece la nuova povertà
colpisce proprio gli elementi attivi (di fatto o virtualmente) nel mercato del
lavoro, a motivo della disoccupazione e della precarietà, cioè quegli elementi
che una volta erano al di fuori della povertà vera e propria per il semplice
fatto di avere un’occupazione
L’entità
degli inattivi sembrerebbe calata grazie alle politiche di spesa sociale
originate dalla Costituzione Federale del 1988, scendendo percentualmente sotto
il 50% della popolazione povera. Nell’aprile di quest’anno – secondo le
valutazioni dell’Ibge (Instituto
Brasileiro de Geografia e Estadística) – nelle sei regioni metropolitane
investigate il tasso di disoccupazione viene stimato nel 5,8%, il che vuol dire
sostanziale stabilità in rapporto ai mesi di marzo (5,7%) e di aprile (6,0%) dell’anno scorso. La
popolazione disoccupata (sempre secondo l’Ibge) sarebbe di 1.414.000 persone, e
quindi senza reali variazioni; lo stesso dicasi per la popolazione occupata
(22.906.000 unità). Però va notato che condizioni e rapporti di lavoro sono
decisamente peggiorati, e nell’insieme fra gli occupati è aumentata la povertà.
Attualmente ancora circa 50 milioni di brasiliani vivono con meno di 80 reais al mese (il cambio fra 1 euro e il
real è pari 2,89 reais).
L’eterna lotta alla povertà resta la grande
sfida del Brasile, non solo per motivi umanitari, ma in quanto presupposto per
l’esercizio dello status di
cittadino; e, si potrebbe aggiungere, come terreno favorevole alla lotta per la
cultura, vista sia come promozione e sviluppo personale e del paese.
I tre esempi sotto riportati attengono a quella
collusione tra il Pt e una parte della borghesia nazionale e non, di cui si è
parlato nei due precedenti articoli.
a) la “limpeza” delle favelas
Essere teatro di grandi eventi sportivi ha
implicato per il Brasile azioni straordinarie contro la micro e macro
criminalità. Questo implicherebbe l’obbligo di intervenire sulle famigerate favelas, dominio di organizzazioni di
narcotrafficanti spesso armati quanto e come i corpi speciali della polizia (si
pensi ai due film brasiliani sulla “Tropa
d’elite”). Allo stato delle cose, intervenire sulle favelas – tenuto conto di quello che sono diventate e del perché si
è lasciato che ciò accadesse – soprattutto se il tempo stringe vuol dire intervenirvi militarmente (a prescindere dal
colore politico di governa): cioè prenderle d’assalto, eliminare i nuclei
armati che lì spadroneggiano e occuparle stabilmente. Può piacere o no, ma
tant’è.
Il secondo passo avrebbe dovuto avere natura e
fini sociali: trasformarle in quartieri popolari più o meno “normali”, dotarle
di infrastrutture e servizi, scolarizzarle, ma in favore di chi vi si era
dovuto stabilire, inserire gli abitanti
nei circuiti economici e così via.
La realtà è stata alquanto diversa, poiché ci
si è fermati al primo stadio. Il secondo stadio si va sviluppando in un senso
del tutto opposto a quello che tutti si aspettavano dopo l'intervento massiccio della polizia, la
lotta alle bande armate e la bonifica dei quartieri poveri. I servizi di
fornitura di acqua e corrente elettrica, nonché la raccolta dei rifiuti,
sono migliorati incomparabilmente, ma sono aumentati anche i costi per gli
abitanti, giacché riscuotere le tariffe -senza più la presenza di banditi ultrarmati
- ha cessato di essere un problema. Grandi catene di distribuzione che prima
non osavano nemmeno mettere piede nelle favelas
oggi vi si sono installate alla grande, e i prezzi dei beni di consumo in questi luoghi sono lievitati in modo
enorme rispetto a prima. Ovviamente gli immobili si sono subito rivalutati,
dando luogo all’avvio di una forte speculazione immobiliare; e ora le agenzie
intermediarie vanno a caccia di abitazioni per l’incremento del turismo. Alla
fine, vivere nelle favelas bonificate
è diventato per i precedenti abitanti un privilegio estremamente caro, il che
li ha costretti a trasferirsi verso altre periferie non “bonificate”.
In pratica il
problema si è spostato da un’altra parte, per riprodurvisi. Infatti questi
emigranti forzati vanno verso favelas
come, per esempio, la Baixada Fluminense, controllata dai narcotrafficanti e con indici
di criminalità altissimi, ormai diventata il rifugio dei criminali fuggiti
dalle favelas bonificate. Al riguardo in Brasile si parla di “rimozione
bianca”, che a Rio riguarda essenzialmente la zona sud. Le favelas vicine alle migliori spiagge
sono diventate addirittura trendy,
attirando membri della cosiddetta classe media e stranieri: i primi ci
resteranno, mentre i secondi vi faranno prosperare l’economia del settore
turistico. Nella zona nord, invece,
molto meno caratterizzata in rapporto alla tradizionale iconografia sul
Brasile, il fenomeno è assai più contenuto, pur esistendo anche lì. Si pensi
alla favela del Complexo do Alemão e da Penha (che
era sede del quartier generale del più importante gruppo di trafficanti di Rio),
dove i prezzi degli affitti negli ultimi due anni sono andati alle stelle: prima
per un piccolo appartamento l’affitto mensile andava dai 100 ai 250 reais (35 e 85 euro circa), mentre ora è
arrivato anche a 1.000 reais, mentre
il salario minimo di molti lavoratori
poveri là residenti è di 678 reais
mensili. Non è casuale che già nei primi tre mesi di quest’anno più di 400
famiglie siano state sfrattate.
b) gli agrocombustibili e la
deforestazione
Il grande business
degli agrocombustibili si è installato anche in Brasile, come era “naturale”
che fosse. “Naturale” per un motivo molto semplice: di combustibile ricavato
dall’agricoltura ne serve tantissimo (gli Usa oggi ne vogliono almeno 35
miliardi di galloni l’anno, per il 2020 questo combustibile dovrà coprire il 10%
di tutto il carburante per trasporti in Europa e addirittura per il 2025 esiste
l’obiettivo di sostituire con esso il 10% della benzina mondiale); tuttavia i
paesi industriali del Nord del mondo non hanno una capacità agricola
sufficiente a produrre sia alimenti sia combustibili nei quantitativi previsti:
ragion per cui spetta ai paesi agricoli del sud del mondo provvedere al
soddisfacimento di questa esigenza.
Attorno agli agrocombustibili si è formata
un’enorme concentrazione di capitali, che ultimamente sono aumentati di otto
volte. Dal canto loro le grandi potenze del petrolio, dei cereali, dell’auto e
dell’ingegneria genetica vanno formando le prime società, come quelle fra ADM e
Monsanto, fra Chevron e Volkswagen, BP, DuPont e Toyota.
In Brasile l’area destinata alla produzione di
agrocombustibili è attualmente pari alla superficie di Olanda, Belgio,
Lussemburgo e Regno Unito insieme e il governo sta progettando a tale fine la quintuplicazione
della produzione di canna da zucchero.
Sugli agrocombustibili le industrie interessate
e i media da esse foraggiati vanno
diffondendo una serie di bugie per coprire le pesanti e inevitabili conseguenze
ecologiche. Non essendo questo il tema specifico del presente articolo ci
limitiamo ad elencarle. Vale a dire, non è vero che gli agrocombustibili: siano
ecologicamente “puliti; che non provochino deforestazione e anzi migliorino
l’ambiente; che promuovano lo sviluppo rurale; che non provochino fame; che non
causino contaminazioni genetiche.
Ai nostri fini interessa il problema della
deforestazione funzionale alla produzione di agrocombustibili. Ebbene, il
governo del Brasile ha riclassificato una buona parte dei 200 milioni di ettari
di foresta tropicale secca, di pascoli e pantani considerandoli degradati ma adatti
alla coltivazione. Si tratta dei ricchi ecosistemi della Mata Atlantica, del
Cerrado e del Pantanal dove vivono popolazioni indigene, si pratica l’agricoltura
di sussistenza e vi operano grandi imprese di allevamento del bestiame. Riusciranno
gli attuali occupanti a resistere al progresso? È più probabile pensare che ci
sarà un ulteriore capitolo nella distruzione del polmone verde amazzonico.
c) la diga di Belo Monte
Come
al solito accade, il progetto della diga di Belo Monte si presenta bene: la
diga contribuirà con circa altri 30 progetti idroelettrici nell’Amazzonia all’approvvigionamento
di energia elettrica a beneficio dell'economia e del popolo del Brasile, contribuendo
alla crescita. Essa è stata progettata per coprire il 10% del fabbisogno
nazionale di energia idroelettrica. Economicamente il progetto non si presenta
male, prevedendosi un costo per mw due volte meno caro rispetto alle centrali a
carbone o all’energia eolica e/o di biomassa.
Come
accennato non si tratta solo di deforestazione. L’inondazione per costruire i
grandi serbatoi do Canais e Calha do Xingu e per gli sbarramenti svilupperà, si
dice, grandi quantità di gas metano (20 volte più potente, ai fini dell’effetto
serra, del Co2) per la
decomposizione della vegetazione, che
solo parzialmente verrà rimossa in precedenza. E poi vanno considerati i
problemi umani e sociali, giacché – tra indigeni e non – almeno 4.300 famiglie
urbane e 800 rurali dovranno essere sgomberate. Le promesse di indennizzi ci
sono, ma anche i dubbi sulla loro efficacia e su quale sarà la realtà della
nuova sistemazione per gli sfollati. Né basta. La costruzione della diga
dovrebbe dare lavoro in loco a circa
90.000 persone: una migrazione, quindi, di cui non si conoscono né l’impatto né
i costi sociali.
Viene quindi spontanea la domanda circa l’esistenza o meno di
alternative possibili, che tuttavia ha solo un valore critico e per “futura
memoria”, giacché il progetto è in fase di realizzazione e non è pensabile che
il governo faccia marcia indietro. Ci sarebbe l’energia solare, oltre
all’eolica, per esempio. Resta ancora la questione dei relativi costi,
quand’anche la tecnologia solare, nello specifico, sia in forte crescita nel
mondo; tuttavia in Brasile le autorità si inchiodano sul problema dei costi considerati
solo in termini attuali, ma senza fare nulla per incentivare lo studio di
tecnologie che li riducano. Così l’ambiente resta oggetto di selvagge
devastazioni che – in concreto – hanno ripercussioni di portata planetaria. Il
problema di quale tipo di sviluppo si voglia e sia possibile resta aperto.
* * *
Caro Pier Francesco,
I grafici che seguono rappresentano le variazioni
dei tassi di crescita reali del Prodotto interno lordo brasiliano. Faccio
queste considerazioni, veloci e impressionistiche:
- tra il 1971 e il 1980 il tasso medio di crescita del Pil
fu 8,7%
- segue la cd. decade persa degli anni Ottanta;
- a seguire l’altra decade o quasi decade persa, tra il
1998 e il 2003: che si può mettere in relazione alla crisi «asiatica» del 1997
e poi alla recessione internazionale del 2001-2.
Il tasso medio di crescita del Pil nel 1991-2002 fu il 2,5%
- nel 2003-2008 il tasso fu il 4,2% o il 4,8% dal 2004: gli
anni centrali di Lula e del piccolo boom internazionale. Un recupero
congiunturalmente importante ma insufficiente dato il lungo tempo perduto.
- seguono la caduta del 2009 e il rimbalzone del 2010.
I fatti interessanti mi sembrano:
a) dopo il 2009 il tasso di crescita medio risulta comunque
superiore agli anni 1991-2002, al 3,2-3,7%, dipende dalla previsione
sull’intero 2013.
b) la tendenza al momento sembra sia alla crescita
relativamente al 2012.
Conclusioni, abbastanza scontate:
a) evidentemente da 30 anni a questa parte il capitalismo
brasiliano non riesce a conseguire i tassi di crescita degli anni Settanta
neanche nelle condizioni internazionali più favorevoli. Per quanto questi tassi
possano essere doppi o tripli rispetto ai paesi avanzati, essi sono comunque
troppo bassi per un paese relativamente sottosviluppato;
b) evidente la correlazione con l’andamento
dell’economiamondiale,
c) tuttavia, tenendo presente i pochi anni su cui si può
ragionare, se nel 2013 il tasso di crescita sarà del 2% o più, non è che la
media del 2010-2013 sfiguri totalmente rispetto agli anni migliori di Lula,
tanto più se si considera il quadro internazionale sfavorevole. Insomma, non un
tracollo ma l’arrestarsi di uno slancio, comunque moderato e insufficiente per
le ragioni di cui al punto a). Insomma, il lulismo non tira fuori il Brasile
dal relativo sottosviluppo. Ma questo si sapeva già, anche a prescindere dal
dilagare della corruzione.
ciao, Michele (Nobile)
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