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martedì 4 giugno 2013

SOCIAL-NAZIONALISMO E LIBERISMO DEMOCRATICO: SUL M5S, di Claudio Fausti


Al falso di buone parole, si deve preferire il cattivo vero.
Le politiche economiche neo liberiste o monetariste, il dominio della finanza e della speculazione sulla “economia reale”; il turbo capitalismo finanziario contrapposto alle possibilità del  “mercato sociale”; le élites della globalizzazione esercitanti in modo palese o occulto il “signoraggio” sul buon popolo di produttori-consumatori-risparmiatori;  il giubilo borsistico contro  la “creazione di posti di lavoro”:  pur ancora politicamente sostenute con forza da governi e tecnocrati,  queste scelte mostrerebbero – per i loro oppositori - di non saper gestire come promesso e mai mantenuto la crisi dei mercati globali, rovesciando problemi ed ingiustizie sul corpo sociale.

Questa situazione condurrebbe la parallela “crisi della politica” soprattutto nei paesi dove lo Stato sociale appare storicamente meno formato ( ma senza lasciare immuni gli altri) o quasi eufemistico, e che hanno prevalentemente subito, o condiviso in posizione svantaggiosa,  la decisioni e gli interessi dei paesi più forti nello scacchiere monetarista globale.
La periferia-sud dell’impero dell’Euro dove crisi, debito e saccheggio della cosa pubblica sarebbero più evidenti, dimostrerebbero in particolar modo il fallimento e la follia strutturale del pensiero economico egemone.  
A questo pensiero unico degli ultimi decenni, si incarica insomma di rispondere criticamente da tempo, ma in Italia soprattutto ultimamente, un fiorire di economisti, dotti od improvvisati, neo- keynesiani, altercapitalisti, nazionalisti antieuropeisti , critici del monetarismo ecc, in un dibattito che si ricentra  sui concetti di “sovranità” e Stato Sociale.  

In Italia il successo del M5S ha negli ultimi tempi  contribuito a ridare  fiato a questa critica del pensiero economico dominante (curiosamente sia in contrasto al grillismo, sia in appoggio) tutta collocabile nell’ambito culturale del social-nazionalismo di matrice più o meno keynesiana. Una critica per anni rimasta in qualche retro bottega accademico o nei sottoscala di partitini post-comunisti e neofascisti: i primi costretti al ruolo di testimonianza mentre per sopravvivere dovevano aderire al liberismo ferocemente programmatico della sinistra cosiddetta “democratica”, i secondi a strepitare l’eterna re-invenzione  del nemico assoluto di turno, di qualche feticcio in grado di incarnare ciò che non funziona più, dall’immigrato alla “Roma ladrona”, dal complotto plutocratico crucco alla congiura finanziario-ebraica o anglosassone-atlantica:  in generale opponendo una idea di “società di mercato”, di capitalismo, socialmente responsabile per effetto di politiche neo dirigiste su base nazionale contro il cattivo capitalismo atlantico-mondialista rapinatore e senza limiti.
Nel M5S la rilevanza quantitativa di questa pseudo critica economica, che ha preso in particolar modo il tornante dell’opposizione all’Euro ed alla politica economica germano centrica, è avvenuto anche per effetto della crescita rapida del movimento il cui programma in campo economico era massimamente confuso e composto su istanze anche diverse e contraddittorie, orientato a dare risposte concrete rapide e ad effetto piuttosto che ad organizzarle coerentemente, sia a causa della pressione emergenziale determinata dalle politiche di austerity, sia a causa della riduzione a slogan elettorali di una materia necessariamente complessa. 
A differenza di altre istanze più innovative presenti nel M5S (come le tendenze di appoggio ai movimenti locali difensivi che, al di là di ogni richiesta di tutela nazional-statalista, inquadrano globalmente i problemi  di ciò che concerne la loro opposizione, o  il modello di diretta autogestione comunitaria dei territori, tendenze tutte in profondo contrasto con l’idea forte di una politica economica orientata semplicemente attorno al concetto, da sempre reazionario, degli  “interessi nazionali”, anche quando questi risultino una misera buffonata)  la critica economica più presente nelle aree di confronto del movimento è regressiva come tutte le critiche che, scambiando effetti per cause, propone miracolistiche soluzioni palliativo.
Tutto si risolverebbe, e questa sarebbe l’opposizione e la critica fondamentali da fare al “pensiero unico” liberista-monetarista,  se si esce dall’Euro, se si recupera sovranità nazionale, se si stampa denaro rimettendo in campo qualche baraccone di Stato con finalità sociali per foraggiare la ripresa del capitale nazionale: un programma social-nazionale che in generale viene condiviso dagli apologeti della crescita (più ortodossi keynesiani) come dai keynesiani apocrifi della “decrescita”, moralizzatori ed eco compatibili, gli uni con una impostazione che vede nel risparmio di risorse una sorta di modello di deflazione virtuosa l’uscita dalla crisi, gli altri al contrario “inflazionisti ad oltranza”, che tentano una paradossale quadratura del cerchio, salvare il fallimento epocale della civilizzazione del denaro e della merce con più denaro e più merce, solo di “marca” nazionale, protezionistico e regolato nella sua dinamica da autorità “sovrane”.
Totalmente concepita entro gli schemi formali dello stesso pensiero economico politico che contesta, come vedremo, le critica social-nazionale non offre della moderna società industriale produttrice di merci, del capitalismo della nostra epoca,  che una analisi di configurazione parziale e mal compresa.
Giacché nel capitalismo possono esserci modi diversi di accumulazione del valore, di trasformazione del denaro in altro denaro, di utilizzazione del lavoro-merce, ciò che in questi modelli di contestazione del liberismo si crede eternamente di dover  cambiare è solo la quantità, qualche rara volta la qualità, della produzione capitalistica e soprattutto a chi – ceti, classi, o nazioni – dovrà andare il frutto di questa, vale a dire come cambierà la “distribuzione” di ciò che la società industriale, conservata assolutamente nelle sue leggi di fondo, fornisce.
La distribuzione entro il quadro dell’attuale modo di produzione dovrebbe andare in queste pie intenzioni riformiste a tutti o alla maggior parte (nessuno deve rimanere indietro!) ma il social-nazionalismo deve necessariamente prescindere  da elementi programmatici fortemente internazionalisti, o da una analisi più profonda della crisi in atto, visto che contro la globalizzazione liberista oppongono, tutti, un ritorno alla “sovranità produttiva” su base nazionale: questa pare unica chiave di volta dell’opposizione al disastro sociale del capitalismo contemporaneo. Non è un caso che il tema delle immigrazioni è quello più dolente e scottante per gli economicismi a caccia di tutela da parte dello Stato, mostrando la profonda similitudine fascisteggiante, da destra a sinistra, di questa pseudo critica della società di mercato.
D’altra parte la polemica contro gli aspetti speculativi, o contro le nocività e le ingiustizie più evidenti della società di mercato, in queste critiche è generalmente compatibile con l’elogio di un “capitalismo sano che funziona”, rispetto a cui gli “eccessi finanziari” sarebbero malattie esteriori, tanto quanto la corruzione o il saccheggio a fini di profitto socialmente “improduttivo”.
L’illusione è talmente profonda da far dimenticare che mentre corruzione, accaparramento e profitto socialmente improduttivo, comportamenti cinici e devastatori del bene pubblico a fine privato, sono ovvi, endemici e persino necessari in una società il cui nesso sociale centrale ed assolutamente dominante è il denaro, la novità della crescista esponenziale della finanza negli ultimi venti anni è un fatto reale ma esattamente all’opposto di quanto va cianciando la critica social-nazionale o il falso anticapitalismo: non è il peso della finanza parassitaria, del capitale fittizio, che disturberebbe il processo di una economia capitalista che altrimenti risulterebbe “in buona salute”, ma è l’economia del valore ormai esaurita dal suo stesso movimento produttivo che seguita a sopravvivere, economicamente parlando, grazie alla speculazione. Sono i profitti speculativi e la enorme massa monetaria da questi messa in azione che hanno sostenuto una sfiancata capacità di creare valore e profitto da parte del capitale investito nella “economia reale”, in barba al grande sviluppo della potenza produttiva e tecnica in quanto tali, il cui utilizzo potenzialmente “socialmente utile” è proprio in gran parte impedito proprio dal funzionamento della società di mercato.
Per cominciare possiamo notare come per i commentatori del punto di vista nazional-sociale-keynesiano il negativo da contestare e superare è prodotto indefessamente da qualche forma di scambio ineguale non regolato o regolato male, quando non semplicemente “parassitato” da forme di diretta corruttela politica, che inficerebbe la superiore e in se stessa perfetta dinamica dello scambio, quale si manifesterebbe invece dove lo Stato-nazione ed il mercato ne fossero liberati: se si interrompe la corruzione, si bastonano i cattivi finanzieri con la tuba e il clic speculativo, si spezzano le reni ai criminali, agli evasori, agli elusori, si limita l’egoismo di mercato dell’1% a favore dell’egoismo di una più ampia percentuale di “cittadini” (figura generica ed astratta di ogni sociologismo borghese) tornerà il buon capitalismo dei padri di famiglia oculati, risparmiatori o investitori in deficit spending  alla bisogna, duri coi fannulloni, gli sregolati, comprensivi e tutelanti con chi riga dritto, lavora e crede nel programma degli “interessi nazionali”.
Questa maniera paternalista viene affiancata spesso da misurate iniziative liberiste, che cercano di coniugare paternalismo social-nazionale ad elementi di “liberismo democratico”. In generale nella richiesta meno tasse -meno monopoli  si trova  tutto ciò che si ha da contestare alla forma sociale di mercato presa nelle sue componenti storicamente consolidate, che sono Capitale, Stato, Denaro, Merce, Lavoro salariato.
Condite il tutto con un po’ di class action e di ecologismo salutista da palestra anni venti ed otterrete anche il minestrone del ricettario economico a 5Stelle.
Una forma o l’altra di scambio ineguale promanante da interessato laissez-faire affaristico delle classi abbienti, o la sua regolazione artata da parte delle “economie monetarie dominanti” (come è oggi per tutta la pletora di economisti anti-euro anti-Germania) sarebbe alla base della oppressione economica come della distorsione di un possibile armonico sviluppo del lavoro e dei mercati nazionali. Ovviamente l’imposizione in forme diverse dello scambio ineguale, dipende non dalla struttura, dal modo di funzionare, dalle categorie di pensiero e leggi formali del modo di produzione in esame, ma da come questa struttura  è stata socialmente e politicamente indirizzata ad interessi particolari invece che generali, oppure, nelle formulazioni ancora più cretine, l’ineguale proverebbe dalla stessa “natura” dell’uomo e dello scambio a cui sarebbe riducibile tutta la dimensione economica, per cui quel che resterebbe da fare è semplicemente “regolarlo” dirigisticamente, evitando che questa regolazione sia di parte e penda invece per l’equità (non solo fra ceti o classi, ma anche fra Stati), per quanto ovviamente resti difficile definire l’equità in termini assoluti in un modello che accetta poi in toto l’antropologia borghese del soggetto economico, a-storicamente inchiodato alla logica dell’interesse contrapposto tra “singoli privati produttori-possessori”, alla ontologia del Robinson Crusoe da un lato ed a quella dell’homo homini lupus dall’altro.
Per fare un esempio prendiamo l’incipit del blog del Prof.Bagnai, un universitario che si è fatto ascoltare per le sua posizione radicalmente anti-euro:  “L’economia esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato essenziale”.  In questa sintesi lapidaria della antropologia economica borghesotta alla Robinson Crusoe ed alla Homo homini lupus, dove, notiamo, si pretende con enfasi di parlare della “economia” in generale ricordando che si dimentica “questo dato essenziale”, si dovrebbe perlomeno ricordare che nello scambio si scambiano sì valori, quantità di valore astratto, ma che a parte i prodotti finanziari puri (ed alla fine, e proprio appunto traumaticamente, anche questi), essi sono direttamente “incarnati” o direttamente “incarnabili” in beni, siano merci fisiche o servizi, e questi ultimi né vanno al mercato da soli, sulle loro gambe, dove incontrano i Robinson della domanda e dell’offerta coi i loro “interessi contrapposti”, né si presentano nelle mani dei Robinson che li scambiano dopo essersi auto-generati.
Anche nel capitalismo, dove ogni valore d’uso o forma concreta dei beni è scambiata sotto forma di valore, questo valore e questi beni hanno bisogno dei  prodotti del lavoro e di uno scambio di  forza-lavoro, ed è tramite il valore conferito a questo o quel lavoro che li si acquista; all’interno della produzione avviene uno scambio particolare: chi scambia la propria forza lavoro per un valore dato ad essa sul mercato, scambia una merce particolare, non solo perché la sua specificità è appunto la capacità produttiva stessa, ma perché la forza lavoro, trattandosi di persone e non di cose, è determinata entro un peculiare “rapporto sociale” tra persone, che solo nell’immaginario accecato dai rapporti economici di mercato appare come “rapporto tra cose”, tra “valori astratti”: sebbene l’astrazione, ed anche l’accecamento, siano reali, perché nulla si produce si scambia e si consuma se non attraverso il meccanismo incentrato sul “rapporto tra cose”, e nessuna produzione sociale nel capitalismo viene realizzata se non a partire da un investimento di valore astratto.  E’ il mondo “realmente rovesciato” di cui giustamente parlava Marx nella sua analisi sul feticismo della merce.
Tornando al nostro discorso però, persino lo scambio di valori al massimo grado di astrazione, il denaro che crea denaro, il prodotto puramente finanziario, per esser considerato una “ricchezza” diversa da quella accumulabile sul tavolo da gioco del monopoli tra quattro adolescenti, necessita di un riferimento ai beni materiali ed al loro uso e di mille altre attività concrete a suo servizio, come al lavoro necessario a realizzarli o a realizzare tutto il contesto sociale in cui questi valori si esprimono e si realizzano. Se per effetto di un incantesimo tutti gli attori economici e sociali, i lavoratori e i consumatori, tranne che i broker di borsa e le cricche di finanzieri, sparissero dal globo terrestre avrebbe ancora un senso per broker e finanzieri “produrre valori” e guadagnare dallo “scambio”? Per comperare cosa o investire  dove, con il saldo delle transazioni?   Probabilmente non potendo mangiare denaro o impiegarlo “produttivamente” dopo la sparizione di lavoratori e consumatori, e dopo poco tempo non potendo nemmeno accendere il computer dove cliccare per crearlo e “prestarlo”,  scenderebbero in strada ad accaparrarsi quello che serve loro per seguitare a vivere, ma il “mondo della finanza” cesserebbe di esistere immediatamente. Al contrario, se per incantesimo sparissero dal mondo borse e finanzieri, e anche tutto il contante disponibile,  il mondo della produzione e del consumo sociale, in forma diversa, seguiterebbe ad esistere. E’ all’interno della sintesi sociale della società capitalistica che questi mondi sono invece inscindibili e contraddittoriamente legati, come la corda al collo dell’impiccato.
 Per analizzare il sistema liberista il più delle volte l’economista liberale di sinistra inizia anche lui ( come il liberista ultra ortodosso) dal risultato e non dal fondamento, ed il fondamento di un sistema produttore di merci non è il loro scambio, ma la loro produzione, seppur sotto forma di valore ed indirizzata alla creazione di nuovo valore: una economia è modo di produzione sociale prima che modello sociale di scambio. L’impossibilità di pervenire ad una critica o una semplice analisi onesta della crisi economica in atto è decretata dunque dal fatto che questa o non è colta come crisi del modello di produzione, o il modello di produzione non è minimamente messo in questione, l’antiliberismo è così solitamente una forma più o meno spuria di alter-capitalismo, con analisi per sino meno consapevoli ed esperte di quelle liberiste, dove almeno si sa che cosa è in gioco.
La rimozione dei rapporti sociali di produzione, la rimozione della “crisi” come di un dato proveniente dal cuore della legge produttiva capitalista, la rimozione della discutibilità storica degli elementi essenziali della società moderna, l’economia orientata alla valorizzazione astratta, alla proprietà, con i suoi corollari di Stato, Capitale, Salario, merce e lavoro merce, è rimozione culturalmente e politicamente necessaria a suffragare l’idea del capitalismo e dei rapporti sociali in questo modello produttivo necessari, come dato di natura, storicamente ed antropologicamente insuperabili, inizio e fine del comportamento socio-economico della specie.
Ciò che tutte queste critiche parziali della società contemporanea colta solo dal lato dei disastri del liberismo mostrano di pensare, come per fede cieca in un credo, quasi teologicamente, è che gli uomini non possano vivere se non attraverso la valorizzazione del valore, l’accumulazione del capitale e la trasformazione del denaro in altro denaro. 
Gli antiliberisti social-nazionali desiderano una qualche forma ( desiderio in parte soggettivamente comprensibile di fronte all’imminenza del disastro sociale ma astratto ed irrealistico) di “capitalismo sociale”, tipo quello degli anni sessanta, ovviamente idealizzato in una sorta di “infanzia” protetta rispetto al disastro attuale, e che non si sa bene come, per effetto di qualche alchemica invenzione di “valore” inventato dal nulla ( dal nulla vale a dire: senza una ecatombe alle spalle come negli anni sessanta, senza un nuovo ciclo espansivo della produzione  che all’epoca richiedeva lavoro pur aumentandone la produttività mentre oggi l’aumento di produttività espelle forza lavoro) che dunque paghi i loro stupendi programmi costosi di pieno impiego, pianificazione ecologica e crescita esponenziale del benessere assieme ai diritti alle garanzie, facendo guadagnare tutti, imprenditori piccoli e grossi, lavoratori e burocrati.
L’euroscetticismo attuale così, non casualmente condiviso dalla destra estrema alla estrema sinistra sino ad una parte di economisti liberali ed ai movimenti di “cittadini” come il M5s in cui convivono tutte queste tendenze, invece di riflettere consapevolmente sulle cause della crisi ed evolvere in critica anticapitalista, finisce per riunificare la reazione alla vulgata liberista in neonazionalismo, come sempre condito di culturalismi deteriori. Il fallimento del progetto sociale europeo che doveva essere sostenuto dalla moneta unica non conduce affatto ad un ripensamento anticapitalista ed internazionalista del pensiero europeo, ma a misere varianti di neonazionalismo populista, a cui è fondamentalmente riducibile tutta la polemica economica promossa dal M5S, ad esempio.
 Questo “fronte nazionale” di destra o sinistra o in varianti mescolate come nel “grillismo”,  dimentica così , tra le altre cose, nel suo tentativo di salvare il “capitale nazionale” - condendo per altro il salvataggio di nuova retorica di “paesi poveri” contro “ricchi” , di “cittadini originari” contro “clandestini” -  che è proprio il capitale nazionale ad esempio dei paesi dell’area sud europea, Grecia, Spagna, Italia, quello per cui l’introduzione dell’Euro è stato inizialmente una occasione di iper-profitto: grazie all’Euro almeno sino al 2007 in questi paesi le imprese private e i comparti pubblici hanno potuto ottenere denaro-capitale a condizioni molto più favorevoli di quanto sarebbe stato possibile alle loro monete in corso di forte svalutazione.
Il vento è cambiato ma era prevedibile, e per uscire dalla crisi si deve, in questo e in quel settore, in questo e quel paese, passare per la miseria di massa dove si era passati prima per un certo benessere capitalistico, che nessuno si sognava comunque, né sogna adesso che è in miseria,  di mettere in discussione nei mezzi, nei modi, nelle forme e nei principi. Se ne sogna solo il provvidenziale “ritorno”, quando potremo ricomperare la casa e l’automobile o il palmare o uscire in pizzeria lavorando come cani fortunati e scodinzolanti a spese di qualcun’altro.
E i peggiori stregoni presi a rimestare in questo pentolone sono come al solito gli economisti, riconosciuti o amatoriali: non hanno nemmeno capito che non vi è nessuna opposizione globale tra “politica della crescita” fondata sull’aumento del debito e “politiche di austerità”; queste non sono che due facce della stessa medaglia, la folle amministrazione della crisi del sistema, che è prima di tutto crisi dei meccanismi tradizionali, ed oggi anche finanziari, di accumulazione, crisi nel cuore della produzione delle società fondate sulla forma merce.
L’amministrazione in stato di emergenza della crisi di scala internazionale ha questo compito paradossale: ogni nazione è incitata da un lato ad indebitarsi per contrastare la svalutazione tendenziale del capitale fittizio, il capitale i cui profitti hanno per altro sostenuto la produzione reale negli ultimi due decenni e non viceversa, per puntellare così ancora il grande magazzino dei valori, e dall’altra parte, i paesi capitalisti più avanzati sono obbligati a condurre “politiche di austerità” torchiando le popolazioni per poter accedere alla mascherata spettacolare globale della loro “solvibilità”.
E’ evidente che questa contradditoria politica di simulazione poi necessita – a cominciare dai ceti più indifesi e dalla nazioni meno ricche –  di sacrifici anche reali.  Sacrifici che è giusto combattere e rifiutare, ma per voltare pagina, non per rimettersi a scrivere eternamente lo stesso libro: l’uscita dall’euro e la critica a quanto la moneta unica impone oggi è dunque “di sinistra”, o meglio è un programma di emancipazione, solo se si unisce questa richiesta ad una critica delle compatibilità capitalistiche, se al posto delle richiesta di “sovranità nazional-popolare” si chiede “libertà” di autogestione territoriale, federalismo radicale e apertura di confini,  e si ha di tutto questo una visione internazionalista- solidaristica, di critica globale della società di mercato.  Altrimenti non è che un pericoloso programma reazionario.
Statalisti o liberisti che siano, o misticanze degli uni e degli altri, partigiani dell’Homo economicus o dell’Homo politicus, condividono un’idea comune ed edificante della  “società di mercato”, quando non la scambiano direttamente – questa formazione storica particolare della vicenda antropologica – per “natura prima”, di fronte alla quale, inginocchiati, si sperticano in riti sacrificali e in mantra di ogni tipo: ma dove il feticcio delle società premoderne era un modo appunto primitivo di umanizzare la natura, dunque un modo di rendere cultura e storia la natura stessa (per i cosiddetti primitivi non c’è assolutamente nulla di “naturale” che interagendo con gli uomini non sia immediatamente cultura), il feticcio “società di mercato” per le società moderne è disumanizzazione della storia, confusione paranoica di soggetto ed oggetto, perdita di ogni cultura in senso proprio, risolta tutta ad economia prima, e quest’ultima, poi, a “natura”.
Sarà bene ricordare in proposito la corretta analisi di Karl Polany: 

Nelle società premoderne la scissione tra uomo economico e uomo politico non esisteva. Regnava piuttosto una “unità culturale”, un “cosmo” a cui erano sottoposte la varie attività sociali. Il sistema moderno di produzione ha distrutto questo “cosmo” senza poter ricreare un ordine socialmente fondato. La relazione tra la funzione dell’economia e dell’ordine sociale è stata rovesciata: l’economia non è più una funzione della cultura generale, ma al contrario la società umana è decaduta a semplice accessorio del sistema economico. Ciò significa che gli uomini non hanno più alcuna coesione al di là dell’attività economica, sono divenuti “individui astratti”, che somigliano disperatamente ai “mondi senza finestre” del filosofo Liebniz. La loro coesione sociale non si si fa negativamente che tramite la concorrenza economica. Il “cosmo” culturalmente fondato è stato rimpiazzato dal denaro, in modo tale che il denominatore comune della società non appare più essere umano, ma “cosificato”. Una qualsiasi orda di lupi è più socialmente organizzata degli uomini della “società di mercato”. 

Questa forma di società non si è affatto sviluppata tramite un naturale o semplicemente spontaneo diffondersi di relazioni commerciali sempre più complesse, un processo storico lineare che andrebbe dalle comunità di villaggio alle nazioni, ma la “società di mercato” è nata in rottura storica con la prassi anche commerciale (ristretta ed allargata) delle comunità premoderne, e si è formata invece proprio  con e tramite l’avvento degli stati assolutistici.
All’origine della società di mercato ci sono le crescenti esigenze di spesa militare degli stati assolutisti, che dovevano  finanziare i loro apparati di dominio e repressione, e reggere la concorrenza di eserciti sempre più efficienti tecnicamente, mettendo a loro servizio popolazioni che per tutta l’antichità, facessero o meno parte di imperi o signorie, avevano vissuto praticamente in modo quasi autonomo, soprattutto nei territori non urbani; solo in questo modo il denaro è potuto diventare il motivo sociale centrale ed il lavoro astratto una esigenza determinante.
Per secoli il ruolo dello Stato-nazione è stato precisamente questo, integrare a colpi di spada e fucile, lavoro coatto, schiavitù, tortura e prigionia, le popolazioni al “mercato”. Per nulla in opposizione con le esigenze del “profitto privato” lo Stato o “comunità nazionale”  è stato per secoli, come è oggi, un pezzo essenziale del sistema di mercato e del capitalismo, esercitando una funzione assolutamente necessaria per l’accumulazione del capitale.
Ancora una volta dietro le pretese forme originarie del comportamento economico non c’è funzionalismo produttivo misto a qualche sempiterna struttura socio-economico-culturale antropologica, ma una determinata “forma di rapporto sociale” che di volta in volta si attua storicamente, coinvolgendo produzione sociale e cultura: la “società di mercato” non è che una forma storicamente determinata di vita antropologica, modo di produzione e sistema culturale.
Il problema della nostra epoca è che questo sistema, che ha dominato negli ultimi secoli, è in profonda crisi e quindi lo sono anche le sue categorie culturali e forme d’organizzazione di base: merce e lavoro, denaro e Stato, concorrenza e mercato, proprietà privata, differenza di genere, di classe, di nazione. Ma né il sistema nel suo complesso, né le sue categorie fondanti, possono esser scambiate per la “vita umana” in assoluto, ovunque e per sempre.
La trasformazione del sistema in crisi può dare origine a nuove forme, migliori o peggiori, ed il problema non è questo, quanto quello che quasi nessuno vuole fare i conti seriamente con la crisi di questo modello di società, con l’ipotesi di una fine della società di mercato, del capitalismo, persino quando si avrebbero motivi importanti, collettivi e individuali, per mettergli fine superando le sue contraddizioni ed accedendo ad una vita socialmente più emancipata. Ma non ci si vuole fare conti perché la crisi del sistema, è sul serio strutturale, profonda,  culturale e di civilizzazione, non è “loro contro noi”, ma “noi contro noi”, l’uomo com’è è divenuto nella civilizzazione della società di mercato e l’uomo come può essere. Così è per quasi tutti è preferibile  una riedizione del delirio – la fuga dal mostro – piuttosto che l’ipotesi di guardarlo in faccia.
Tutelare il rapporto-merce, il rapporto-capitale, a tutti i costi, purché si seguiti a produrre e vendere valore come tramite e mezzo univoco di socializzazione generale, a vendersi e comprarsi in eterno: l’idea di riformare stato ed economia di mercato con la “pianificazione” (idea nel secolo sperimentata da diverse economie pianificate il cui fallimento nella creazione di ricchezza è stato secondo solo al loro fallimento nella creazione di una comunità libera e giusta) significa coltivare una schizofrenia come fosse una via di guarigione. Pensare di regolare ciò che nei suoi fondamenti stessi è cieco ed incosciente limitando l’iniziativa privata da cui prende avvio il processo di creazione del valore (che si vuole ad ogni costo mantenere) per gestirla in modo programmatico è cercare di far fare a due più due cinque mantenendo lo stesso sistema numerico in cui due più due fa quattro.
Solo gestendo in modo totalmente alternativo risorse ed accesso ad esse, senso della produzione del lavoro, una comunità nazionale o meglio delle libere comunità territoriali autogestite e federate potrebbero davvero prendere misure radicali contro il grande capitale, praticamente abbandonando l’economia di mercato, cosa che non è per nulla in questione nelle ipotesi social-nazionali, dove mercato, lavoro salariato, merce, denaro, restano categorie indiscusse.
I privati possessori di capitale, lo Stato, la Politica, e la Democrazia borghese, non sono in se stessi null’altro che presupposti e risultati del rapporto sociale produttivo di valore astratto, del meccanismo produttivo alla base della società di mercato, fanno parte totalmente del suo movimento indirizzato alla produzione di valore per la produzione di valore, dove tutto ciò che non valorizza il capitale è, oggi, un lusso: bisogni, beni, servizi, ambiente, la sopravvivenza stessa è un lusso nel mondo dominato dalla forma merce se non produce e riproduce capitale.
Il vecchio marxismo – o meglio dovremmo dire “ricardismo”, dall’economista Ricardo piuttosto che da Marx –  e i suoi relitti contemporanei, superata la visione caricaturale della società industriale come processo di lotta di classe ( in realtà la lotta di classe, una volta accettati i presupposti della civilizzazione industriale di mercato, è stata una mera funzione dello sviluppo del capitale globale), quanto le sempre rinascenti ideologie di destra estrema di per una società organicista e gerarchica, patriarcale e fondamentalista, hanno entrambe in una qualche formulazione nazionalista-organicista  ( anche quando la “nazione” diventa l’Europa sociale dei popoli contro il bieco capitalismo) la ciambella di salvataggio nella tempesta determinata dallo sviluppo del capitalismo.
Dell’organicismo nazioanal-burocratico, laico invece che mistico, sociale e di “cittadinanza” invece che di “sangue e terra”, l’economista borghese Keynes  è stato uno degli esponenti più eminenti tra le due guerre, oggi riesumato a piè pari ovunque si tratti di condurre un limitato lamento al disastro liberista. Ma questo idea feticcio del “capitalismo socialmente amministrato” , nella cui logica di sviluppo si riuscirebbe per virtù di una “politica rinnovata” ad inferire qualche principio etico, sociale ed organico ad una comunità, è una esperienza che le pattumiere della storia hanno già triturato ampiamente: e non solo nel cosiddetto socialismo reale ma in tutti i paesi – emergenti, sottosviluppati o sviluppati - che hanno visto nella re-nazionalizzazione completa o parziale dei mezzi di produzione l’idea, come diceva Engels, dello Stato come ”capitalista collettivo”.  
Per quale motivo oggi – di fronte ad una crisi che non è per nulla di “ristrutturazione” della società di mercato, ma è ben più fondamentale – dovrebbero ancora funzionare? E per chi? E per condurre a cosa? A sopravvivere a macchia di leopardo qua e la, in questo o quel ceto di garantiti, in questa o quella nazione con più risorse di qualche tipo, entro la forma produttiva della merce e del capitale, del lavoro-merce e dello Stato?
Quello che cade, spingilo più in basso.

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