Le politiche economiche neo liberiste o monetariste, il dominio
della finanza e della speculazione sulla “economia reale”; il turbo capitalismo
finanziario contrapposto alle possibilità del “mercato sociale”; le élites della globalizzazione
esercitanti in modo palese o occulto il “signoraggio” sul buon popolo di
produttori-consumatori-risparmiatori; il giubilo borsistico contro la “creazione di posti di lavoro”: pur ancora politicamente sostenute con
forza da governi e tecnocrati, queste
scelte mostrerebbero – per i loro oppositori - di non saper gestire come promesso
e mai mantenuto la crisi dei mercati globali, rovesciando problemi ed
ingiustizie sul corpo sociale.
Questa situazione condurrebbe la parallela “crisi della
politica” soprattutto nei paesi dove lo Stato sociale appare storicamente meno
formato ( ma senza lasciare immuni gli altri) o quasi eufemistico, e che hanno
prevalentemente subito, o condiviso in posizione svantaggiosa, la decisioni e gli interessi dei paesi
più forti nello scacchiere monetarista globale.
La periferia-sud dell’impero dell’Euro dove crisi, debito
e saccheggio della cosa pubblica sarebbero più evidenti, dimostrerebbero in
particolar modo il fallimento e la follia strutturale del pensiero economico
egemone.
A questo pensiero unico degli ultimi decenni, si incarica insomma
di rispondere criticamente da tempo, ma in Italia soprattutto ultimamente, un
fiorire di economisti, dotti od improvvisati, neo- keynesiani,
altercapitalisti, nazionalisti antieuropeisti , critici del monetarismo ecc, in
un dibattito che si ricentra sui
concetti di “sovranità” e Stato Sociale.
In Italia il successo del M5S ha negli ultimi tempi contribuito a ridare fiato a questa critica del pensiero
economico dominante (curiosamente sia in contrasto al grillismo, sia in
appoggio) tutta collocabile nell’ambito culturale del social-nazionalismo di
matrice più o meno keynesiana. Una critica per anni rimasta in qualche retro
bottega accademico o nei sottoscala di partitini post-comunisti e neofascisti:
i primi costretti al ruolo di testimonianza mentre per sopravvivere dovevano
aderire al liberismo ferocemente programmatico della sinistra cosiddetta
“democratica”, i secondi a strepitare l’eterna re-invenzione del nemico assoluto di turno, di
qualche feticcio in grado di incarnare ciò che non funziona più, dall’immigrato
alla “Roma ladrona”, dal complotto plutocratico crucco alla congiura finanziario-ebraica
o anglosassone-atlantica: in
generale opponendo una idea di “società di mercato”, di capitalismo,
socialmente responsabile per effetto di politiche neo dirigiste su base
nazionale contro il cattivo capitalismo atlantico-mondialista rapinatore e
senza limiti.
Nel M5S la rilevanza quantitativa di questa pseudo critica
economica, che ha preso in particolar modo il tornante dell’opposizione
all’Euro ed alla politica economica germano centrica, è avvenuto anche per
effetto della crescita rapida del movimento il cui programma in campo economico
era massimamente confuso e composto su istanze anche diverse e contraddittorie,
orientato a dare risposte concrete rapide e ad effetto piuttosto che ad
organizzarle coerentemente, sia a causa della pressione emergenziale
determinata dalle politiche di austerity, sia a causa della riduzione a slogan
elettorali di una materia necessariamente complessa.
A differenza di altre istanze più innovative presenti nel
M5S (come le tendenze di appoggio ai movimenti locali difensivi che, al di là
di ogni richiesta di tutela nazional-statalista, inquadrano globalmente i problemi di ciò che concerne la loro
opposizione, o il modello di
diretta autogestione comunitaria dei territori, tendenze tutte in profondo
contrasto con l’idea forte di una politica economica orientata semplicemente
attorno al concetto, da sempre reazionario, degli “interessi nazionali”, anche quando questi risultino una
misera buffonata) la critica
economica più presente nelle aree di confronto del movimento è regressiva come
tutte le critiche che, scambiando effetti per cause, propone miracolistiche soluzioni
palliativo.
Tutto si risolverebbe, e questa sarebbe l’opposizione e la
critica fondamentali da fare al “pensiero unico” liberista-monetarista, se si esce dall’Euro, se si recupera sovranità
nazionale, se si
stampa denaro rimettendo in campo qualche baraccone di Stato con finalità
sociali per foraggiare la ripresa del capitale nazionale: un programma
social-nazionale che in generale viene condiviso dagli apologeti della crescita
(più ortodossi keynesiani) come dai keynesiani apocrifi della “decrescita”,
moralizzatori ed eco compatibili, gli uni con una impostazione che vede nel
risparmio di risorse una sorta di modello di deflazione virtuosa l’uscita dalla crisi, gli altri al
contrario “inflazionisti ad oltranza”, che tentano una paradossale quadratura
del cerchio, salvare il fallimento epocale della civilizzazione del denaro e
della merce con più
denaro e più merce,
solo di “marca” nazionale, protezionistico e regolato nella sua dinamica da
autorità “sovrane”.
Totalmente concepita entro gli schemi formali dello stesso
pensiero economico politico che contesta, come vedremo, le critica
social-nazionale non offre della moderna società industriale produttrice di
merci, del capitalismo della nostra epoca, che una analisi di configurazione parziale e mal compresa.
Giacché nel capitalismo possono esserci modi diversi di
accumulazione del valore, di trasformazione del denaro in altro denaro, di
utilizzazione del lavoro-merce, ciò che in questi modelli di contestazione del
liberismo si crede eternamente di dover cambiare è solo la quantità, qualche rara volta la qualità, della
produzione capitalistica e soprattutto a chi – ceti, classi, o nazioni – dovrà
andare il frutto di questa, vale a dire come cambierà la “distribuzione” di ciò
che la società industriale, conservata assolutamente nelle sue leggi di fondo,
fornisce.
La distribuzione entro il quadro dell’attuale modo di
produzione dovrebbe andare in queste pie intenzioni riformiste a tutti o alla
maggior parte (nessuno deve rimanere indietro!) ma il social-nazionalismo deve
necessariamente prescindere da elementi
programmatici fortemente internazionalisti, o da una analisi più profonda della
crisi in atto, visto che contro la globalizzazione liberista oppongono, tutti,
un ritorno alla “sovranità produttiva” su base nazionale: questa pare unica
chiave di volta dell’opposizione al disastro sociale del capitalismo
contemporaneo. Non è un caso che il tema delle immigrazioni è quello più
dolente e scottante per gli economicismi a caccia di tutela da parte dello
Stato, mostrando la profonda similitudine fascisteggiante, da destra a
sinistra, di questa pseudo critica della società di mercato.
D’altra parte la polemica contro gli aspetti speculativi,
o contro le nocività e le ingiustizie più evidenti della società di mercato, in
queste critiche è generalmente compatibile con l’elogio di un “capitalismo sano
che funziona”, rispetto a cui gli “eccessi finanziari” sarebbero malattie
esteriori, tanto quanto la corruzione o il saccheggio a fini di profitto
socialmente “improduttivo”.
L’illusione è talmente profonda da far dimenticare che
mentre corruzione, accaparramento e profitto socialmente improduttivo,
comportamenti cinici e devastatori del bene pubblico a fine privato, sono ovvi,
endemici e persino necessari in una società il cui nesso sociale centrale ed
assolutamente dominante è il denaro, la novità della crescista esponenziale della finanza
negli ultimi venti anni è un fatto reale ma esattamente all’opposto di quanto
va cianciando la critica social-nazionale o il falso anticapitalismo: non è il
peso della finanza parassitaria, del capitale fittizio, che disturberebbe il
processo di una economia capitalista che altrimenti risulterebbe “in buona
salute”, ma è l’economia del valore ormai esaurita dal suo stesso movimento
produttivo che seguita a sopravvivere, economicamente parlando, grazie alla
speculazione.
Sono i profitti speculativi e la enorme massa monetaria da questi messa in
azione che hanno sostenuto una sfiancata capacità di creare valore e profitto
da parte del capitale investito nella “economia reale”, in barba al grande
sviluppo della potenza produttiva e tecnica in quanto tali, il cui utilizzo
potenzialmente “socialmente utile” è proprio in gran parte impedito proprio dal
funzionamento della società di mercato.
Per cominciare possiamo notare come per i commentatori del
punto di vista nazional-sociale-keynesiano il negativo da contestare e superare
è prodotto indefessamente da qualche forma di scambio ineguale non regolato o regolato male, quando non
semplicemente “parassitato” da forme di diretta corruttela politica, che inficerebbe
la superiore e in se stessa perfetta dinamica dello scambio, quale si manifesterebbe
invece dove lo Stato-nazione ed il mercato ne fossero liberati: se si
interrompe la corruzione, si bastonano i cattivi finanzieri con la tuba e il
clic speculativo, si spezzano le reni ai criminali, agli evasori, agli elusori,
si limita l’egoismo di mercato dell’1% a favore dell’egoismo di una più ampia
percentuale di “cittadini” (figura generica ed astratta di ogni sociologismo
borghese) tornerà il buon capitalismo dei padri di famiglia oculati,
risparmiatori o investitori in deficit spending alla bisogna, duri coi fannulloni, gli sregolati, comprensivi
e tutelanti con chi riga dritto, lavora e crede nel programma degli “interessi
nazionali”.
Questa maniera paternalista viene affiancata spesso da
misurate iniziative liberiste, che cercano di coniugare paternalismo
social-nazionale ad elementi di “liberismo democratico”. In generale nella
richiesta meno tasse -meno monopoli si trova tutto ciò che si ha da contestare alla
forma sociale di mercato presa nelle sue componenti storicamente consolidate,
che sono Capitale, Stato, Denaro, Merce, Lavoro salariato.
Condite il tutto con un po’ di class action e di ecologismo
salutista da palestra anni venti ed otterrete anche il minestrone del
ricettario economico a 5Stelle.
Una forma o l’altra di scambio ineguale promanante da
interessato laissez-faire affaristico delle classi abbienti, o la sua
regolazione artata da parte delle “economie monetarie dominanti” (come è oggi
per tutta la pletora di economisti anti-euro anti-Germania) sarebbe alla base
della oppressione economica come della distorsione di un possibile armonico
sviluppo del lavoro e dei mercati nazionali. Ovviamente l’imposizione in forme
diverse dello scambio ineguale, dipende non dalla struttura, dal modo di funzionare, dalle
categorie di pensiero e leggi formali del modo di produzione in esame, ma da
come questa struttura è stata socialmente
e politicamente indirizzata ad interessi particolari invece che generali,
oppure, nelle formulazioni ancora più cretine, l’ineguale proverebbe dalla
stessa “natura” dell’uomo e dello scambio a cui sarebbe riducibile tutta la
dimensione economica, per cui quel che resterebbe da fare è semplicemente
“regolarlo” dirigisticamente, evitando che questa regolazione sia di parte e
penda invece per l’equità (non solo fra ceti o classi, ma anche fra Stati), per
quanto ovviamente resti difficile definire l’equità in termini assoluti in un
modello che accetta poi in toto l’antropologia borghese del soggetto economico,
a-storicamente inchiodato alla logica dell’interesse contrapposto tra “singoli
privati produttori-possessori”, alla ontologia del Robinson Crusoe da un lato
ed a quella dell’homo homini lupus dall’altro.
Per fare un esempio prendiamo l’incipit del blog del
Prof.Bagnai, un universitario che si è fatto ascoltare per le sua posizione
radicalmente anti-euro: “L’economia
esiste perché esiste lo scambio, ogni scambio presuppone l’esistenza di due
parti, con interessi contrapposti: l’acquirente vuole spendere di meno, il
venditore vuole guadagnare di più. Molte analisi dimenticano questo dato
essenziale”. In questa sintesi lapidaria della
antropologia economica borghesotta alla Robinson Crusoe ed alla Homo homini
lupus, dove, notiamo, si pretende con enfasi di parlare della “economia” in generale
ricordando che si dimentica “questo dato essenziale”, si dovrebbe perlomeno
ricordare che nello scambio si scambiano sì valori, quantità di valore
astratto, ma che a parte i prodotti finanziari puri (ed alla fine, e proprio
appunto traumaticamente, anche questi), essi sono direttamente “incarnati” o direttamente
“incarnabili” in beni, siano merci fisiche o servizi, e questi ultimi né vanno
al mercato da soli, sulle loro gambe, dove incontrano i Robinson della domanda
e dell’offerta coi i loro “interessi contrapposti”, né si presentano nelle mani
dei Robinson che li scambiano dopo essersi auto-generati.
Anche nel capitalismo, dove ogni valore d’uso o forma
concreta dei beni è scambiata sotto forma di valore, questo valore e questi
beni hanno bisogno dei prodotti
del lavoro e di
uno scambio di forza-lavoro, ed è
tramite il valore conferito a questo o quel lavoro che li si acquista; all’interno
della produzione avviene uno scambio particolare: chi scambia la propria forza
lavoro per un valore dato ad essa sul mercato, scambia una merce particolare,
non solo perché la sua specificità è appunto la capacità produttiva stessa, ma
perché la forza lavoro, trattandosi di persone e non di cose, è determinata
entro un peculiare “rapporto sociale” tra persone, che solo nell’immaginario
accecato dai rapporti economici di mercato appare come “rapporto tra cose”, tra
“valori astratti”: sebbene l’astrazione, ed anche l’accecamento, siano reali,
perché nulla si produce si scambia e si consuma se non attraverso il meccanismo
incentrato sul “rapporto tra cose”, e nessuna produzione sociale nel capitalismo
viene realizzata se non a partire da un investimento di valore astratto. E’ il mondo “realmente rovesciato” di
cui giustamente parlava Marx nella sua analisi sul feticismo della merce.
Tornando al nostro discorso però, persino lo scambio di
valori al massimo grado di astrazione, il denaro che crea denaro, il prodotto
puramente finanziario, per esser considerato una “ricchezza” diversa da quella
accumulabile sul tavolo da gioco del monopoli tra quattro adolescenti, necessita
di un riferimento ai beni materiali ed al loro uso e di mille altre attività concrete a suo servizio, come al lavoro
necessario a realizzarli o a realizzare tutto il contesto sociale in cui questi
valori si esprimono e si realizzano. Se per effetto di un incantesimo tutti gli
attori economici e sociali, i lavoratori e i consumatori, tranne che i broker
di borsa e le cricche di finanzieri, sparissero dal globo terrestre avrebbe
ancora un senso per broker e finanzieri “produrre valori” e guadagnare dallo
“scambio”? Per comperare cosa o investire
dove, con il saldo delle transazioni? Probabilmente non potendo mangiare denaro o impiegarlo “produttivamente”
dopo la sparizione di lavoratori e consumatori, e dopo poco tempo non potendo nemmeno
accendere il computer dove cliccare per crearlo e “prestarlo”, scenderebbero in strada ad accaparrarsi
quello che serve loro per seguitare a vivere, ma il “mondo della finanza”
cesserebbe di esistere immediatamente. Al contrario, se per incantesimo
sparissero dal mondo borse e finanzieri, e anche tutto il contante disponibile,
il mondo della produzione e del
consumo sociale, in forma diversa, seguiterebbe ad esistere. E’ all’interno
della sintesi sociale della società capitalistica che questi mondi sono invece
inscindibili e contraddittoriamente legati, come la corda al collo
dell’impiccato.
Per analizzare
il sistema liberista il più delle volte l’economista liberale di sinistra inizia
anche lui ( come il liberista ultra ortodosso) dal risultato e non dal
fondamento, ed il fondamento di un sistema produttore di merci non è il loro scambio, ma la loro
produzione, seppur sotto forma di valore ed indirizzata alla creazione di nuovo
valore: una economia è modo di produzione sociale prima che modello sociale di scambio. L’impossibilità
di pervenire ad una critica o una semplice analisi onesta della crisi economica
in atto è decretata dunque dal fatto che questa o non è colta come crisi del
modello di produzione,
o il modello di produzione non è minimamente messo in questione,
l’antiliberismo è così solitamente una forma più o meno spuria di alter-capitalismo,
con analisi per sino meno consapevoli ed esperte di quelle liberiste, dove almeno
si sa che cosa è in gioco.
La rimozione dei rapporti sociali di produzione, la
rimozione della “crisi” come di un dato proveniente dal cuore della legge
produttiva capitalista, la rimozione della discutibilità storica degli elementi
essenziali della società moderna, l’economia orientata alla valorizzazione
astratta, alla proprietà, con i suoi corollari di Stato, Capitale, Salario,
merce e lavoro merce, è rimozione culturalmente e politicamente necessaria a
suffragare l’idea del capitalismo e dei rapporti sociali in questo modello
produttivo necessari, come dato di natura, storicamente ed antropologicamente insuperabili,
inizio e fine del comportamento socio-economico della specie.
Ciò che tutte queste critiche parziali della società contemporanea
colta solo dal lato dei disastri del liberismo mostrano di pensare, come per
fede cieca in un credo, quasi teologicamente, è che gli uomini non possano
vivere se non attraverso la valorizzazione del valore, l’accumulazione del capitale
e la trasformazione del denaro in altro denaro.
Gli antiliberisti social-nazionali desiderano una qualche
forma ( desiderio in parte soggettivamente comprensibile di fronte
all’imminenza del disastro sociale ma astratto ed irrealistico) di “capitalismo
sociale”, tipo quello degli anni sessanta, ovviamente idealizzato in una sorta
di “infanzia” protetta rispetto al disastro attuale, e che non si sa bene come,
per effetto di qualche alchemica invenzione di “valore” inventato dal nulla (
dal nulla vale a dire: senza una ecatombe alle spalle come negli anni sessanta,
senza un nuovo ciclo espansivo della produzione che all’epoca richiedeva lavoro pur aumentandone la produttività
mentre oggi l’aumento di produttività espelle forza lavoro) che dunque paghi i
loro stupendi programmi costosi di pieno impiego, pianificazione ecologica e
crescita esponenziale del benessere assieme ai diritti alle garanzie, facendo
guadagnare tutti, imprenditori piccoli e grossi, lavoratori e burocrati.
L’euroscetticismo attuale così, non casualmente condiviso
dalla destra estrema alla estrema sinistra sino ad una parte di economisti
liberali ed ai movimenti di “cittadini” come il M5s in cui convivono tutte
queste tendenze, invece di riflettere consapevolmente sulle cause della crisi
ed evolvere in critica anticapitalista, finisce per riunificare la reazione
alla vulgata liberista in neonazionalismo, come sempre condito di culturalismi
deteriori. Il fallimento del progetto sociale europeo che doveva essere sostenuto
dalla moneta unica non conduce affatto ad un ripensamento anticapitalista ed
internazionalista del pensiero europeo, ma a misere varianti di
neonazionalismo populista, a cui è fondamentalmente riducibile tutta la polemica economica
promossa dal M5S, ad esempio.
Questo “fronte
nazionale” di destra o sinistra o in varianti mescolate come nel “grillismo”, dimentica così , tra le altre cose, nel
suo tentativo di salvare il “capitale nazionale” - condendo per altro il
salvataggio di nuova retorica di “paesi poveri” contro “ricchi” , di “cittadini
originari” contro “clandestini” - che
è proprio il capitale nazionale ad esempio dei paesi dell’area sud europea, Grecia,
Spagna, Italia, quello per cui l’introduzione dell’Euro è stato inizialmente
una occasione di iper-profitto: grazie all’Euro almeno sino al 2007 in questi
paesi le imprese private e i comparti pubblici hanno potuto ottenere
denaro-capitale a condizioni molto più favorevoli di quanto sarebbe stato
possibile alle loro monete in corso di forte svalutazione.
Il vento è cambiato ma era prevedibile, e per uscire dalla
crisi si deve, in questo e in quel settore, in questo e quel paese, passare per
la miseria di massa dove si era passati prima per un certo benessere
capitalistico, che nessuno si sognava comunque, né sogna adesso che è in
miseria, di mettere in discussione
nei mezzi, nei modi, nelle forme e nei principi. Se ne sogna solo il
provvidenziale “ritorno”, quando potremo ricomperare la casa e l’automobile o
il palmare o uscire in pizzeria lavorando come cani fortunati e scodinzolanti a
spese di qualcun’altro.
E i peggiori stregoni presi a rimestare in questo
pentolone sono come al solito gli economisti, riconosciuti o amatoriali: non
hanno nemmeno capito che non vi è nessuna opposizione globale tra “politica
della crescita” fondata sull’aumento del debito e “politiche di austerità”; queste
non sono che due facce della stessa medaglia, la folle amministrazione della
crisi del sistema, che è prima di tutto crisi dei meccanismi tradizionali, ed
oggi anche finanziari, di accumulazione, crisi nel cuore della produzione delle
società fondate sulla forma merce.
L’amministrazione in stato di emergenza della crisi di
scala internazionale ha questo compito paradossale: ogni nazione è incitata da
un lato ad indebitarsi per contrastare la svalutazione tendenziale del capitale
fittizio, il capitale i cui profitti hanno per altro sostenuto la produzione reale
negli ultimi due decenni e non viceversa, per puntellare così ancora il grande
magazzino dei valori, e dall’altra parte, i paesi capitalisti più avanzati sono
obbligati a condurre “politiche di austerità” torchiando le popolazioni per
poter accedere alla mascherata spettacolare globale della loro “solvibilità”.
E’ evidente che questa contradditoria politica di
simulazione poi necessita – a cominciare dai ceti più indifesi e dalla nazioni
meno ricche – di sacrifici anche
reali. Sacrifici che è giusto
combattere e rifiutare, ma per voltare pagina, non per rimettersi a scrivere
eternamente lo stesso libro: l’uscita dall’euro e la critica a quanto la moneta unica impone oggi
è dunque “di sinistra”, o meglio è un programma di emancipazione, solo se si unisce questa richiesta ad una
critica delle compatibilità capitalistiche, se al posto delle richiesta di
“sovranità nazional-popolare” si chiede “libertà” di autogestione territoriale,
federalismo radicale e apertura di confini, e si ha di tutto questo una visione internazionalista-
solidaristica, di critica globale della società di mercato. Altrimenti non è che un pericoloso
programma reazionario.
Statalisti o liberisti che siano, o misticanze degli uni e
degli altri, partigiani dell’Homo economicus o dell’Homo politicus, condividono
un’idea comune ed edificante della
“società di mercato”, quando non la scambiano direttamente – questa
formazione storica particolare della vicenda antropologica – per “natura prima”,
di fronte alla quale, inginocchiati, si sperticano in riti sacrificali e in
mantra di ogni tipo: ma dove il feticcio delle società premoderne era un modo
appunto primitivo di umanizzare la natura, dunque un modo di rendere cultura e
storia la natura stessa (per i cosiddetti primitivi non c’è assolutamente nulla
di “naturale” che interagendo con gli uomini non sia immediatamente cultura),
il feticcio “società di mercato” per le società moderne è disumanizzazione
della storia, confusione
paranoica di soggetto ed oggetto, perdita di ogni cultura in senso proprio,
risolta tutta ad economia prima, e quest’ultima, poi, a “natura”.
Sarà bene ricordare in proposito la corretta analisi di
Karl Polany:
“ Nelle società premoderne la scissione tra uomo economico e
uomo politico non esisteva. Regnava piuttosto una “unità culturale”, un “cosmo”
a cui erano sottoposte la varie attività sociali. Il sistema moderno di
produzione ha distrutto questo “cosmo” senza poter ricreare un ordine
socialmente fondato. La relazione tra la funzione dell’economia e dell’ordine
sociale è stata rovesciata: l’economia non è più una funzione della cultura
generale, ma al contrario la società umana è decaduta a semplice accessorio del
sistema economico. Ciò significa che gli uomini non hanno più alcuna coesione
al di là dell’attività economica, sono divenuti “individui astratti”, che somigliano
disperatamente ai “mondi senza finestre” del filosofo Liebniz. La loro coesione
sociale non si si fa negativamente che tramite la concorrenza economica. Il
“cosmo” culturalmente fondato è stato rimpiazzato dal denaro, in modo tale che
il denominatore comune della società non appare più essere umano, ma
“cosificato”. Una qualsiasi orda di lupi è più socialmente organizzata degli
uomini della “società di mercato”.
Questa forma di società non si è affatto sviluppata
tramite un naturale o semplicemente spontaneo diffondersi di relazioni
commerciali sempre più complesse, un processo storico lineare che andrebbe
dalle comunità di villaggio alle nazioni, ma la “società di mercato” è nata in
rottura storica con la prassi anche commerciale (ristretta ed allargata) delle
comunità premoderne, e si è formata invece proprio con e tramite l’avvento degli stati assolutistici.
All’origine della società di mercato ci sono le crescenti
esigenze di spesa militare degli stati assolutisti, che dovevano finanziare i loro apparati di dominio e
repressione, e reggere la concorrenza di eserciti sempre più efficienti
tecnicamente, mettendo a loro servizio popolazioni che per tutta l’antichità,
facessero o meno parte di imperi o signorie, avevano vissuto praticamente in
modo quasi autonomo, soprattutto nei territori non urbani; solo in questo modo
il denaro è potuto diventare il motivo sociale centrale ed il lavoro astratto
una esigenza determinante.
Per secoli il ruolo dello Stato-nazione è stato
precisamente questo, integrare a colpi di spada e fucile, lavoro coatto, schiavitù,
tortura e prigionia, le popolazioni al “mercato”. Per nulla in opposizione con
le esigenze del “profitto privato” lo Stato o “comunità nazionale” è stato per secoli, come è oggi, un pezzo
essenziale del sistema di mercato e del capitalismo, esercitando una funzione
assolutamente necessaria per l’accumulazione del capitale.
Ancora una volta dietro le pretese forme originarie del
comportamento economico non c’è funzionalismo produttivo misto a qualche sempiterna
struttura socio-economico-culturale antropologica, ma una determinata “forma di
rapporto sociale” che di volta in volta si attua storicamente, coinvolgendo
produzione sociale e cultura: la “società di mercato” non è che una forma
storicamente determinata di vita antropologica, modo di produzione e sistema
culturale.
Il problema della nostra epoca è che questo sistema, che
ha dominato negli ultimi secoli, è in profonda crisi e quindi lo sono anche le sue
categorie culturali e forme d’organizzazione di base: merce e lavoro, denaro e
Stato, concorrenza e mercato, proprietà privata, differenza di genere, di
classe, di nazione. Ma né il sistema nel suo complesso, né le sue categorie
fondanti, possono esser scambiate per la “vita umana” in assoluto, ovunque e
per sempre.
La trasformazione del sistema in crisi può dare origine a
nuove forme, migliori o peggiori, ed il problema non è questo, quanto quello
che quasi nessuno vuole fare i conti seriamente con la crisi di questo modello
di società, con l’ipotesi di una fine della società di mercato, del
capitalismo, persino quando si avrebbero motivi importanti, collettivi e
individuali, per mettergli fine superando le sue contraddizioni ed accedendo ad
una vita socialmente più emancipata. Ma non ci si vuole fare conti perché la
crisi del sistema, è sul serio strutturale, profonda, culturale e di civilizzazione, non è
“loro contro noi”, ma “noi contro noi”, l’uomo com’è è divenuto nella civilizzazione
della società di mercato e l’uomo come può essere. Così è per quasi tutti è
preferibile una riedizione del delirio
– la fuga dal mostro – piuttosto che l’ipotesi di guardarlo in faccia.
Tutelare il rapporto-merce, il rapporto-capitale, a tutti
i costi, purché si seguiti a produrre e vendere valore come tramite e mezzo
univoco di socializzazione generale, a vendersi e comprarsi in eterno: l’idea
di riformare stato ed economia di mercato con la “pianificazione” (idea nel secolo
sperimentata da diverse economie pianificate il cui fallimento nella creazione
di ricchezza è stato secondo solo al loro fallimento nella creazione di una
comunità libera e giusta) significa coltivare una schizofrenia come fosse una
via di guarigione. Pensare di regolare ciò che nei suoi fondamenti stessi è cieco
ed incosciente limitando l’iniziativa privata da cui prende avvio il processo
di creazione del valore (che si vuole ad ogni costo mantenere) per gestirla in
modo programmatico è cercare di far fare a due più due cinque mantenendo lo
stesso sistema numerico in cui due più due fa quattro.
Solo gestendo in modo totalmente alternativo risorse ed
accesso ad esse, senso della produzione del lavoro, una comunità nazionale o
meglio delle libere comunità territoriali autogestite e federate potrebbero davvero prendere
misure radicali contro il grande capitale, praticamente abbandonando l’economia
di mercato, cosa che non è per nulla in questione nelle ipotesi social-nazionali,
dove mercato, lavoro salariato, merce, denaro, restano categorie indiscusse.
I privati possessori di capitale, lo Stato, la Politica, e
la Democrazia borghese, non sono in se stessi null’altro che presupposti e
risultati del rapporto sociale produttivo di valore astratto, del meccanismo
produttivo alla base della società di mercato, fanno parte totalmente del suo
movimento indirizzato alla produzione di valore per la produzione di valore,
dove tutto ciò che non valorizza il capitale è, oggi, un lusso: bisogni, beni, servizi,
ambiente, la sopravvivenza stessa è un lusso nel mondo dominato dalla forma
merce se non produce e riproduce capitale.
Il vecchio marxismo – o meglio dovremmo dire “ricardismo”,
dall’economista Ricardo piuttosto che da Marx – e i suoi relitti contemporanei, superata la visione caricaturale
della società industriale come processo di lotta di classe ( in realtà la lotta
di classe, una volta accettati i presupposti della civilizzazione industriale
di mercato, è stata una mera funzione dello sviluppo del capitale globale),
quanto le sempre rinascenti ideologie di destra estrema di per una società organicista
e gerarchica, patriarcale e fondamentalista, hanno entrambe in una qualche formulazione
nazionalista-organicista ( anche
quando la “nazione” diventa l’Europa sociale dei popoli contro il bieco
capitalismo) la ciambella di salvataggio nella tempesta determinata dallo sviluppo
del capitalismo.
Dell’organicismo nazioanal-burocratico, laico invece che
mistico, sociale e di “cittadinanza” invece che di “sangue e terra”, l’economista
borghese Keynes è stato uno degli
esponenti più eminenti tra le due guerre, oggi riesumato a piè pari ovunque si
tratti di condurre un limitato lamento al disastro liberista. Ma questo idea
feticcio del “capitalismo socialmente amministrato” , nella cui logica di
sviluppo si riuscirebbe per virtù di una “politica rinnovata” ad inferire
qualche principio etico, sociale ed organico ad una comunità, è una esperienza
che le pattumiere della storia hanno già triturato ampiamente: e non solo nel
cosiddetto socialismo reale ma in tutti i paesi – emergenti, sottosviluppati o
sviluppati - che hanno visto nella re-nazionalizzazione completa o parziale dei
mezzi di produzione l’idea, come diceva Engels, dello Stato come ”capitalista
collettivo”.
Per quale motivo oggi – di fronte ad una crisi che non è per
nulla di “ristrutturazione” della società di mercato, ma è ben più fondamentale
– dovrebbero ancora funzionare? E per chi? E per condurre a cosa? A sopravvivere
a macchia di leopardo qua e la, in questo o quel ceto di garantiti, in questa o
quella nazione con più risorse di qualche tipo, entro la forma produttiva della
merce e del capitale, del lavoro-merce e dello Stato?
Quello che cade, spingilo più in basso.
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