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sabato 13 aprile 2013

DJANGO UNCHAINED (Quentin Tarantino, 2013), di Pino Bertelli

 L’uomo è fatto del legno col quale s’innalzano i roghi...
conosco solo un dovere, quello di amare.
(Albert Camus)






I. Apologia della mediocrità

A vedere in profondità il cattivo edonismo filmico di Tarantino, non è difficile scorgere la celebrazione della società affluente e l’insieme del suo cinema non si sbarazza della cultura predominante
— come in molti hanno scritto — ma resta imprigionato nello spettacolare integrato che produce e la sua “rivolta” è l’evasione dalla realtà che giustifica la forma “più povera” della consolazione popolare.


L’unico film che l’ha spaventato in vita sua — dice Tarantino — è stato un cartone animato, Bambi (1942)... afferma di avere pianto per ore e ore... forse non si è più ripreso da quella visione e per questo continua a fare film adatti all’arte celestiale del botteghino (che tutto assolve o condanna se la risposta del pubblico non decuplica l’investimento produttivo). Gli affari sono affari e anche a un immortale del cinematografo — Charlie Chaplin — prima di ogni cosa artistica interessava quanti dollari poteva fare un film. Il “vagabondo” di Chaplin era un morto di fame finto... la grandezza estetica di Charlot tuttavia era autentica. Un po’ poco, forse.


La macchina/cinema (quello di Tarantino è un ingranaggio ben oliato della burocrazia hollywoodiana) è una fabbrica di mistificazioni che riduce ciascuno al ruolo di spettatore passivo. Il condizionamento deve essere rovesciato nel suo contrario, Guy Debord, diceva... perché lo spettacolo non ha alcun bisogno della realtà, giustifica in termini puramente estetici il prodotto/merce come oggetto di largo consumo. Nei film di Tarantino regna la felicità obbligatoria e ogni rivolta è declamatoria... si resta annichiliti a vedere questa immensa prostituzione filmica/architetturale che in tanti (pubblico e critica) hanno confuso con la genialità del fuori gioco. Vero niente. Il cinema di Tarantino è una giungla organizzata di segni che portano al consenso e al successo di un dispositivo che è il risultato e il progetto del modo di produzione predominante. Il modello di domesticazione dell’immaginario collettivo è servito.

Per non dimenticare. La critica italiana — la più servizievole, corrotta, imbecille del mondo —... esperta in leccate televisive o da “tappeto rosso”... prona a tutti i santi comandamenti della politica di riferimento che foraggia giornali, festival, premi e anche le cimici maleodoranti che si annidano nei saperi accademici... ha visto nel film di Tarantino quello che non c’era, il capolavoro. Il fascio culturale/politico dei critici è variegato ma Tarantino li mette d’accordo tutti. Così si accodano a dispensare stellette, acclamazioni, genialità esplosive ad un film che a giusto vedere è più una sorta di videogioco che un’opera cinematografica magnificata a tal punto da non credere che parliamo della medesima cosa... ci si affranca a un film soltanto se — allo stesso tempo — ci si affranca all’estetica/etica dell’autore... ogni film è un attentato contro l’innocenza della merce o equivale alla lordura di un imbroglio attinto dal regno delle apparenze.

Il fare-cinema di Tarantino è un’apologia della mediocrità... sotto ogni aspetto strutturale/filosofico ciò che corre nella cinevita del regista statunitense è l’abuso del paradosso, non della provocazione, né del disgusto di aver compreso che il pubblico gioca con le immagini nel senso che conviene e il demiurgo sfrutta con abilità e astuzia questa inclinazione all’incuriosità (sintomo di una malattia più grave, quella della visione genuflessa diffusa). Là dove s’incomincia ad esclamare, là dove le parola s’infiamma, là dove l’immagine include il frastuono del nulla... si direbbe che il genio abbandoni i propri angeli tremendi (Rilke) e fuoriesca il moralista becero, al servizio di ogni causa, di ogni libro-paga, banditore di virtù consacrate alla scelleratezza dei valori dominanti. L’esercizio del potere, come il profeta della macchina/cinema non si concilia molto con il rispetto per l’intelligenza e la bellezza dell’uomo.


II. Django Unchained

Django Unchained affastella una storiella di poco conto (e ci vogliono 165 minuti di noia mortale per guadagnare l’uscita del cinema). Siamo negli Stati del Sud, alla vigilia della guerra civile. C’è il cacciatore di taglie di origine tedesca, dottor King (Christoph Waltz), che viaggia su un risibile carretto da dentista che farebbe invidia alle parodie-western di Franchi-Ingrassia. Ci sono i fratelli Brittle che il dottor King vuole ammazzare per riscuotere il premio. C’è Django (Jamie Foxx), lo schiavo negro che viene liberato dal dottor King e in cambio delle catene spezzate dovrà portarlo nel covo dei fuorilegge. King e Django viaggiano attraverso l’America selvaggia... Django impara i ferri del mestiere... gli schiavi negri sono brutalizzati dai cani del padrone e la moglie di Django (Kerry Washington) è segregata e torturata, ma comunque conserva una bella tinta. La trattativa per riscattarla è qualcosa che ha dell’incredibile... DiCaprio fa l’aristocratico di campagna e mostra di non sapere quello che fa... Foxx e Waltz si adeguano alla spazzatura generale e sembrano capitati in un altro set... il vecchio “zio Tom” (servizievole, spia e aguzzino) scopre che la negretta è la moglie di Django e la sparatoria finale fa sprofondare il film all’inferno ma senza ritorno. Muoiono tutti quelli brutti o imbarazzanti ai fini del discorso, il negro si riprende la moglie a vanno al galoppo verso una vita più luminosa.

L’attorialità di Jamie Foxx (Django), Christoph Waltz (il dottor King), Leonardo Di Caprio (Calvin Candie), Samuel L. Jackson (Stephen), Kerry Washington (Broomhilda), Walton Goggins (Billy Crash)... è a dire poco bovina, specie Foxx, Di Caprio e Jackson... forse solo Waltz (comunque sempre sovra le righe) riesce a tratteggiare il personaggio con una qualche capacità comunicazionale. Del cameo di Tarantino è meglio lasciar perdere. Sfonda la porta del ridicolo abituale alla sfornata degli spaghetti-western all’italiana, Django (1966), di Sergio Corbucci, incluso. Il film di Corbucci, interpretato da Franco Nero (che Tarantino filma in una breve sequenza del tutto inutile alla peculiarità del film), è un pistolero taciturno, senza cavallo, porta la sella sulla spalla e trascina una cassa da morto con dentro una mitragliatrice... in 93 minuti fa quasi cinquanta morti. Insopportabile.
Del resto, l’ondata commerciale degli spaghetti-western ci ha sempre procurato un certo ribrezzo per tanta faciloneria e trasandatezza filmica.... per Sergio Leone sarebbe giusto sospendere il giudizio, ma a vedere fino in fondo la sua valenza estetica, scorgiamo che era abbastanza giocata sulla maniera, sull’accattivante, sulla mitografia raggelata o convulsa dell’epopea western, e nulla o poco aveva a che vedere con i grandi film di John Ford, Delmer Daves, Anthony Mann, Howard Hawks, John Huston, Michael Mann, George Stevens, Fred Zinnemann... e anche i western “minori” di Burt Kennedy, William A. Wellman, Budd Boetticher, Samuel Fuller, Raoul Walsh, Sam Peckinpah, Clint Eastwood... raggiungono vette espressive sconosciute tanto a Tarantino che a Leone. Il grande western (che ha affascinato la nostra infanzia e non ci ha più lasciati) è lo scenario/luogo selvaggio dove una sorta di Prometeo a cavallo che dal nulla viene e nel nulla va, non accetta la morale comune e non riconosce niente al di sopra di sé, sovente nemmeno l’amore. È un solitario e ciò che persegue eternamente è la bellezza, la giustizia, la libertà.

In Django Unchained violenza e umorismo (di bassa lega) si confondono... le pistolettate, i morti ammazzati, i negri serventi, i cattivi e i buoni si affastellano in sequenze girate con l’occhio rivolto al consenso e perfino DiCaprio è fuori ruolo, non è un cattivo credibile, ma sopra ogni cosa Django/Foxx non riesce a convincere nemmeno i ragazzini delle periferie metropolitane... tanto è imbambolato con le   pistole nelle mani (e la dentiera al vento)... uno sguardo di Alan Ladd, una camminata di Gary Cooper, una sparatoria di Paul Newman bastano a cancellare via l’intera catenaria filmica di Tarantino. Quando non si possiede tutta la meravigliosa disinvoltura dei maestri, e cioè quando l’intelligenza della proprie frontiere creative è sconosciuta, i piccoli epigoni si accontentano di rovistare nel cestino degli scarti. Il film si chiude sulle note di Freedom (Richie Havens) e niente poteva essere meno appropriato per questo film dell’inno di Woodstock (1969)... roba da bassa macelleria.
La sceneggiatura di Tarantino è slabbrata, i dialoghi quasi da operetta. I frequenti salti narrativi non aiutano a comprendere né il cartolinesco delle immagini, né il chiacchericcio da artigiano distratto che urla troppo perché non ha da dire niente. La fotografia di Robert Richardson è molto televisiva, si vede che il film è destinato alle tv di tutto il mondo e segue i movimenti di macchina con ruffiana raffinatezza. Il montaggio di Fred Raskin è sgangherato e insieme ai costumi di Sharen Davis, riportano all’approssimazione filmica degli spaghetti-western ai quali nelle interviste si richiama sempre Tarantino.

Il Far West non c’è nel film di Tarantino... manca il senso del paesaggio, la forza dell’avventura, il coraggio della diversità come nutrimento di un pensare, gioire, soffrire all’interno di una concezione tragica del reale. La lotta per la libertà di un uomo o di un popolo è il luogo in cui si fa il pensiero. Rifiuto di ogni autorità in materia di filosofia o rivoluzione dell’esistenza. Solo l’uomo in libertà è il creatore dei propri valori. Nel West che conta, l’individuo è la misura del vero, del buono e del bene e tutto unicamente in funzione del proprio arbitrio... l’istante liberato è la sola dimensione del reale che si trascolora in storia.
Django Unchained è un film sbagliato, scritto male, filmato peggio... c’è una beatitudine contemplativa di fondo, un oracolare buffonesco, un’ascesi della violenza gratuita (i duelli sono estremizzati fino al riso involontario) e tutto è addossato ad una storiellina dove i negri buoni vincono, i bianchi cattivi perdono e i “fuori gioco”  (il cacciatore di taglie) muoiono dopo aver mostrato di essere uomini sprezzanti  della vita (ma affascinati dall’odore dei soldi)... insomma, Tarantino è un furbacchione senza talento che ha la pretesa di comprendere la pelle della frontiera americana, peccato che non sembra sapere che nel selvaggio West anche l’ultimo dei banditi o la puttana di saloon sono investiti di dignità filosofica e insegnano ciascuno a vivere come a morire. Nel cimitero del cinema tarantiniano sono resuscitati gli utensili delle belle carogne che hanno disseminato in princìpi e formule l’ossario della scatola delle illusioni, dove il rituale rende l’intelligenza offesa nel regno della stupidità.

Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 13 volte febbraio, 2013.


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