L’uomo
è fatto del legno col quale s’innalzano i roghi...
conosco
solo un dovere, quello di amare.
(Albert
Camus)
I. Apologia della mediocrità
A vedere in profondità il cattivo edonismo filmico di Tarantino, non è difficile scorgere la celebrazione della società affluente e l’insieme del suo cinema non si sbarazza della cultura predominante
— come in molti hanno scritto — ma resta imprigionato nello spettacolare integrato che produce e la sua “rivolta” è l’evasione dalla realtà che giustifica la forma “più povera” della consolazione popolare.

L’unico film che l’ha spaventato in vita sua — dice Tarantino — è stato
un cartone animato, Bambi (1942)...
afferma di avere pianto per ore e ore... forse non si è più ripreso da quella
visione e per questo continua a fare film adatti all’arte celestiale del
botteghino (che tutto assolve o condanna se la risposta del pubblico non decuplica
l’investimento produttivo). Gli affari sono affari e anche a un immortale del
cinematografo — Charlie Chaplin — prima di ogni cosa artistica interessava
quanti dollari poteva fare un film. Il “vagabondo” di Chaplin era un morto di
fame finto... la grandezza estetica di Charlot tuttavia era autentica. Un po’
poco, forse.


La
macchina/cinema (quello di Tarantino è un ingranaggio ben oliato della burocrazia
hollywoodiana) è una fabbrica di mistificazioni che riduce ciascuno al ruolo di
spettatore passivo. Il condizionamento deve essere rovesciato nel suo
contrario, Guy Debord, diceva... perché lo spettacolo non ha alcun bisogno della
realtà, giustifica in termini puramente estetici il prodotto/merce come oggetto
di largo consumo. Nei film di Tarantino regna la felicità obbligatoria e ogni
rivolta è declamatoria... si resta annichiliti a vedere questa immensa
prostituzione filmica/architetturale che in tanti (pubblico e critica) hanno
confuso con la genialità del fuori gioco.
Vero niente. Il cinema di Tarantino è una giungla organizzata di segni che
portano al consenso e al successo di un dispositivo che è il risultato e il
progetto del modo di produzione predominante. Il modello di domesticazione
dell’immaginario collettivo è servito.


II. Django
Unchained
Django Unchained affastella una storiella di poco conto (e ci vogliono 165 minuti
di noia mortale per guadagnare l’uscita del cinema). Siamo negli Stati del Sud,
alla vigilia della guerra civile. C’è il cacciatore di taglie di origine
tedesca, dottor King (Christoph Waltz), che viaggia su un risibile carretto da
dentista che farebbe invidia alle parodie-western di Franchi-Ingrassia. Ci sono
i fratelli Brittle che il dottor King vuole ammazzare per riscuotere il premio.
C’è Django (Jamie Foxx), lo schiavo negro che viene liberato dal dottor King e
in cambio delle catene spezzate dovrà portarlo nel covo dei fuorilegge. King e
Django viaggiano attraverso l’America selvaggia... Django impara i ferri del
mestiere... gli schiavi negri sono brutalizzati dai cani del padrone e la
moglie di Django (Kerry Washington) è segregata e torturata, ma comunque
conserva una bella tinta. La trattativa per riscattarla è qualcosa che ha
dell’incredibile... DiCaprio fa l’aristocratico di campagna e mostra di non
sapere quello che fa... Foxx e Waltz si adeguano alla spazzatura generale e
sembrano capitati in un altro set... il vecchio “zio Tom” (servizievole, spia e
aguzzino) scopre che la negretta è la moglie di Django e la sparatoria finale
fa sprofondare il film all’inferno ma senza ritorno. Muoiono tutti quelli brutti
o imbarazzanti ai fini del discorso, il negro si riprende la moglie a vanno al
galoppo verso una vita più luminosa.

Del
resto, l’ondata commerciale degli spaghetti-western ci ha sempre procurato un
certo ribrezzo per tanta faciloneria e trasandatezza filmica.... per Sergio Leone
sarebbe giusto sospendere il giudizio, ma a vedere fino in fondo la sua valenza
estetica, scorgiamo che era abbastanza giocata sulla maniera,
sull’accattivante, sulla mitografia raggelata o convulsa dell’epopea western, e
nulla o poco aveva a che vedere con i grandi film di John Ford, Delmer Daves,
Anthony Mann, Howard Hawks, John Huston, Michael Mann, George Stevens, Fred
Zinnemann... e anche i western “minori” di Burt Kennedy, William A. Wellman,
Budd Boetticher, Samuel Fuller, Raoul Walsh, Sam Peckinpah, Clint Eastwood...
raggiungono vette espressive sconosciute tanto a Tarantino che a Leone. Il
grande western (che ha affascinato la nostra infanzia e non ci ha più lasciati)
è lo scenario/luogo selvaggio dove una sorta di Prometeo a cavallo che dal
nulla viene e nel nulla va, non accetta la morale comune e non riconosce niente
al di sopra di sé, sovente nemmeno l’amore. È un solitario e ciò che persegue
eternamente è la bellezza, la giustizia, la libertà.

La
sceneggiatura di Tarantino è slabbrata, i dialoghi quasi da operetta. I frequenti
salti narrativi non aiutano a comprendere né il cartolinesco delle immagini, né
il chiacchericcio da artigiano distratto che urla troppo perché non ha da dire
niente. La fotografia di Robert Richardson è molto televisiva, si vede che il
film è destinato alle tv di tutto il mondo e segue i movimenti di macchina con
ruffiana raffinatezza. Il montaggio di Fred Raskin è sgangherato e insieme ai costumi
di Sharen Davis, riportano all’approssimazione filmica degli spaghetti-western
ai quali nelle interviste si richiama sempre Tarantino.

Django Unchained è un film sbagliato, scritto male, filmato peggio... c’è una beatitudine
contemplativa di fondo, un oracolare buffonesco, un’ascesi della violenza
gratuita (i duelli sono estremizzati fino al riso involontario) e tutto è addossato
ad una storiellina dove i negri buoni vincono, i bianchi cattivi perdono e i
“fuori gioco” (il cacciatore di taglie)
muoiono dopo aver mostrato di essere uomini sprezzanti della vita (ma affascinati dall’odore dei
soldi)... insomma, Tarantino è un furbacchione senza talento che ha la pretesa
di comprendere la pelle della frontiera americana, peccato che non sembra
sapere che nel selvaggio West anche l’ultimo dei banditi o la puttana di saloon
sono investiti di dignità filosofica e insegnano ciascuno a vivere come a
morire. Nel cimitero del cinema tarantiniano sono resuscitati gli utensili
delle belle carogne che hanno disseminato in princìpi e formule l’ossario della
scatola delle illusioni, dove il rituale rende l’intelligenza offesa nel regno
della stupidità.
Piombino, dal vicolo
dei gatti in amore, 13 volte febbraio, 2013.
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