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mercoledì 5 ottobre 2011

USCIRE DALL'EURO O ENTRARE ALLA NEURO?, di Michele Nobile


(In relazione all’articolo di Moreno Pasquinelli, «La madre dei dottrinari è sempre gravida»*, con premessa fatta di considerazioni generali su come nella sinistra italiana non si faccia seria polemica politica). 

La polemica è il pepe della discussione politica, non fosse altro perché costringe a chiarire le proprie posizioni, ad approfondirle, oppure a rivederle, quando si è onesti. Per quanto mi riguarda è sempre bene accetta, anche perché è un bene rarissimo e stimolante.

Purtroppo, però, la sinistra post-Pci è da decenni disabituata a condurre polemiche in modo serio. Anzi, si può tranquillamente dire che se si tratta di manovre interne e di dichiarazioni estemporanee di basso cabotaggio, senza respiro strategico, fioccano editoriali e articoli; mentre, a fronte di una critica esterna radicale e argomentata, l’atteggiamento è semplicemente il silenzio. Un omertoso silenzio.
Uno spettacolare esempio della capacità di costruire e mantenere negli anni il silenzio è il modo nel quale Verdi, Pdci, Prc e gruppetti contigui - con il Manifesto e Liberazione - finsero (e ancora fingono) d’ignorare l’esistenza del libro I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale» (a cura di Roberto Massari, Massari editore, Bolsena 2007). Il libro fu recensito dal Corriere della sera, dal Giornale (sorvolo qui su recensioni minori, radio e televisioni locali), e si vendette in qualche migliaio di copie: ma neppure una parola, assolutamente nulla, apparve sul Manifesto e Liberazione, neanche una drastica stroncatura, magari solo per rispondere alle recensioni di due grandi organi della stampa borghese, tra cui il più importante quotidiano italiano (recensioni politicamente «interessate», forse, ma corrette). Giunse solo un gentilissimo ringraziamento autografo, per l’invio del libro, da parte dell’allora Presidente della Camera e principale indiziato del libro (Fausto Bertinotti).
Durissimo nel giudizio a partire dal titolo, nel merito delle questioni il libro fu però scritto con metodo scientifico. Tutto è documentato, l’argomentazione rigorosa e pacata: la ricostruzione delle giravolte politiche, della manipolazione linguistica, del peso del finanziamento pubblico e delle carriere dei forchettoni rossi, le tensioni interne, le responsabilità al femminile. Obiettivamente ciò ne fa un volume indispensabile, non solo per il militante politico, ma anche per lo studioso di scienze politiche che sia interessato alla cosiddetta «sinistra radicale» del tempo.

Per chi dispone di una seppur piccola nicchia nel mercato editoriale e politico l’arma migliore, ancorché la più disonesta, è senz’altro il silenzio. Nella società dello spettacolo il silenzio equivale a una condanna a morte virtuale. Per fortuna, però, il silenzio non impedisce alla realtà di fare il suo corso o per lo meno non sempre. Nelle elezioni del 2008 l’elettorato, disgustato dall’opportunismo politico e dalla palese degenerazione di questa sottocasta della Casta politica, punì duramente la sedicente «sinistra radicale», cacciandola dal Parlamento. Le valutazioni dei circa due milioni di elettori che si astennero giustamente dal votare per Prc, Pdci e Verdi erano le stesse anticipate ne I Forchettoni rossi. E a me piace pensare che a qualche migliaio di quegli elettori il nostro libro può aver fornito argomenti razionali e documentati, superiori alla legittima reazione istintiva e disperata. Oggigiorno può ancora fornire argomenti per non ricadere nella medesima trappola.

A sinistra della sinistra forchettonica non è che la situazione del dibattito sia migliore. Siamo molto al di sotto di quanto sarebbe necessario per costruire un’area anticapitalistica. Ha dell’incredibile vedere come possano ancora sussistere residui togliattiani, nostalgici di Berlinguer e dell’Unione Sovietica o addirittura dello stalinismo. Per altri versi, il dato essenziale è la frammentazione e una sostanziale autoreferenzialità, negata ma praticata nei fatti, e la persistente inclinazione alla presentazione elettorale, con quel che ne consegue in termini di ambiguità politica o di settarismo partitico.

Capita, anche, che la polemica degeneri irrimediabilmente già dal secondo passo. È quanto accaduto in seguito al mio articolo «Tornare alla lira e cancellare il debito? Quando si vuole gestire il capitalismo meglio della propria borghesia e si finisce invece nel più ingenuo nazionalsciovinismo», nel quale ho preso posizione, in seguito a una discussione nella redazione di Utopia rossa, nei confronti delle assemblee di Roma (svolta il primo ottobre) e di Chianciano (22 e 23 ottobre, all’insegna delle indicazioni «Fuori dal debito! Fuori dall'euro!»).
Come è evidente, si è trattato di un articolo di polemica politica immediata, seria ma dura. Il taglio dell’articolo era molto diverso da quello prevalente nelle decine di articoli e saggi, e qualche libro, che nell’ultimo quarto di secolo sono andato scrivendo sull’economia mondiale del passato e del presente, inclusi alcuni «pesanti» articoli presenti nel blog di Utopia rossa sulla crisi in corso. Nella maggior parte dei casi di questi scritti l’intento politico è nei presupposti e nelle conclusioni, ma non struttura il contenuto né la forma.

Dal lato dei promotori dell’assemblea di Roma non ho avuto risposte dirette, cosa comprensibile dati anche i tempi ristretti. Posso sbagliarmi, ma mi pare che nell’assemblea sia emersa un’evoluzione nel senso che auspicavo e in qualche modo, a quel che mi si dice, i  contenuti del mio articolo sono riusciti a entrare nella discussione  (se tutto ciò è vero, e in che misura, ce lo diranno i fatti). Attenersi rigorosamente alla parola d’ordine «noi il loro debito non lo paghiamo» è cosa diversa dalla rivendicazione che «lo Stato italiano non paghi i suoi creditori»: nel primo caso ci si contrappone al padronato e allo Stato, nel secondo si difende lo Stato (imperialistico) dai suoi creditori.

Una replica al mio articolo è invece venuta dal compagno Moreno Pasquinelli, uno dei principali promotori dell’assemblea di Chianciano. Se non fosse andata persa, sarebbe stata un’ottima occasione di discussione, polemica quanto si vuole ma pertinente nel merito. E invece così non è andata e l’articolo di Pasquinelli può ben essere citato come un esempio da manuale di come non si debba condurre una polemica, o, più precisamente, di quel che è l’opposto di una polemica razionale, che si confronti con le reali posizioni dell’avversario. Si tratta di un bell’esempio di come l’esigenza garantire il proprio orticello a fronte delle critiche e di autoassolversi ricorrendo alla demonizzazione e al deliberato travisamento degli argomenti dell’avversario possano prevalere sull’uso della ragione.

Il mio articolo definiva nazionalsciovinista la rivendicazione dell’uscita dall’eurozona. Indubbiamente è un duro giudizio politico, ma non un attacco personale; mira a colpire il significato oggettivo della parola d’ordine, non la soggettività di chi la formula né la bontà delle intenzioni dei suoi sostenitori; il giudizio politico è accompagnato da argomenti, che si possono condividere o respingere totalmente, ma che per sostanza e forma rientrano nel quadro della discussione razionale. Lo stesso dicasi per il giudizio di quella soluzione come «retrograda» e «reazionaria». Sulle capacità politiche e intellettuali soggettive mi sono limitato a un garbato «ingenui», che può comunque essere ancora interpretato in termini politici e non necessariamente psicologici o personalistici.

L’articolo di Pasquinelli invece non è altro che un lungo attacco ad personam - la mia nella fattispecie - infarcito di improperi che non aiutano il lettore a comprendere i termini del dissenso. Ne è stato fatto un elenco, forse incompleto, ma certamente rappresentativo: velenoso, primitivismo politico, prolisso saggetto, corbellerie teoriche, da bocciatura secca, ultrasinistrismo teorico, indecente, la più classica delle fuffe (?), massimalismo parolaio, cazzate, puerili, pacchiano, sporco delle unghie, grossolano, volgare, capzioso, puerile (di nuovo), libello, carte false, asinerie economiche, castronerie.

Gli insulti personali che Pasquinelli mi rivolge sorprendono per varietà e numero, ma non per questo possono sconvolgermi: il callo agli insulti cominciai a farlo decenni orsono quando mi accadeva di riceverne da esponenti della Fgci o dai «marxisti-leninisti»; ma non era la norma e anche i secondi non scendevano tanto in basso, nonostante il loro riferimento ideologico allo stalinismo.
Lo stile, però, è vettore di un contenuto, la forma è essa stessa sostanza. Va quindi detto, innanzitutto, che questo stile e questa forma non sono congeniali a una polemica che abbia come fine la ricerca del vero e del giusto, per avvicinarvisi il più possibile.

Ma questo è solo l’inizio. Fatto ancor più grave, molto più grave degli insulti, è la sistematica deformazione di quanto da me scritto. Deformazione, anzi, non rende l’effettiva gravità del procedimento.
In realtà Pasquinelli mi attribuisce, direttamente o indirettamente, concetti che non solo poco o nulla hanno a che fare con l’oggetto del contendere, che non solo non ho mai pronunciato o scritto in quell’articolo, ma che sono in radicale antitesi con quanto da me detto, scritto e fatto in quasi quarant’anni di cosciente vita politica trascorsi sempre dalla parte della rivoluzione e senza grandi svolte o pentimenti ideologici. La cosa è senza giustificazioni perché Pasquinelli può anche non conoscere né la mia persona né i miei scritti, ma conosce più che bene Utopia rossa: e poiché si tratta di una corrente politica internazionale di cui faccio parte da quando essa mosse i primi passi meno di una quarantina d’anni fa, avrebbe avuto a disposizione qualche strumento teorico in più per evitare di attribuirmi in modo così spregiudicato e frettoloso concetti e posizioni che non appartengono né a me né a questa associazione politica.

Ho rilevato ben tredici passi puntuali nei quali Pasquinelli letteralmente inventa le mie posizioni o, per il contesto, fa in modo che il lettore possa ritenerle mie:
1) per me «ogni difesa della sovranità nazionale (...) sarebbe passatismo, far girare indietro la ruota della storia»;
2) per me «ogni suo atto [della borghesia], per quanto indesiderato, sarebbe non solo irreversibile, ma avrebbe, suo malgrado, una destinazione funzionale progressista»;
3) avrei un «atteggiamento indifferentista o disfattista rispetto a tutte le vicende politiche che esulino dai "puri" rapporti tra capitale e lavoro»;
4) per me «il movimento rivoluzionario non deve impicciarsi delle grandi questioni politiche ed economiche che sconvolgono le società borghesi»;
5) per me «i rivoluzionari debbono farsi i cazzi loro»;
6) per me «occorre infischiarsene se il sistema secerne un qualche fascismo»;
7) sono assimilato  a «certi ultrasinistri» che rifiutano «di difendere le lotte di liberazione nazionale» (menzogna colossale smentita, tra l’altro, dal secondo punto della Dichiarazione di principi di Utopia Rossa e, in tempi recentissimi, da un mio articolo del 17 settembre 2011, giusto dodici giorni prima dell’articolo di Pasquinelli: «Rosa Luxemburg e la questione nazionale (sulla Polonia, 2)», utopiarossa.blogspot.it;
8) esprimerei il «rifiuto della lotta politica tout court, osannando di converso la lotta sindacale»;
9) ragionerei «Come se ogni proletariato, dal momento che in potenza è portatore del socialismo, fosse non solo unilinearmente condannato a questa missione, come fosse socialismo in atto»;
10) sarei soggetto al «feticismo della lotta sindacale»;
11) per me «gli operai dovrebbero limitarsi a farsi fantomatici fatti loro, aggrappandosi ai loro specifici interessi corporativi»;
12) con la conseguenza di «giammai» opporre «un programma politico per un'uscita rivoluzionaria dalla crisi»;
13) respingerei riforme migliorative nell’ambito del capitalismo.

Ho rilevato questi passi perché ciascuno di essi può agevolmente essere smentito con articoli, documenti e addirittura interi capitoli di miei libri. Ma forse è più utile accennare all’effetto d’insieme, all’architettura complessiva del testo di Pasquinelli.

Pasquinelli mi associa a «Giuliano Ferrara, a Nichi Vendola, a Prodi o a Trichet»: la cosa è talmente comica che può solo far ridere (anche perché quei quattro, a loro volta, non sono associabili tra loro se non a costo di violente forzature della storia, della teoria e dell’attualità politica). Se si volesse restare sulla stessa lunghezza d’onda, si potrebbe allora associare Pasquinelli e chi sostiene l’uscita dall’eurosistema a Roberto Fiore e a Forza nuova, a Marine Le Pen e al Front National, insomma alla destra fascista o fascistoide, razzista e xenofoba. Ma forzando un altro po’ anche ai fautori di un nuovo zecchino aureo padano.  
Stando al metodo impiegato, a posizioni invertite Pasquinelli certamente mi assimilirebbe ai fascistoidi; ma io non mi sogno neanche di seguirlo su questa strada, preferendo mantenere l’attenzione sull’oggetto in discussione e sulle posizioni da lui realmente sostenute. Ciò non toglie che in sede di analisi, potrei anche fornire delle spiegazioni del perché la feccia della reazione europea sia antieuro e sia nazionalista anche in campo monetario, riconducendo il tutto alla tradizionale difesa della sovranità di uno Stato imperialistico.

Devo dire che in quasi quaranta anni di discussioni politiche non ero mai stato sottoposto a un così lungo elenco d’insulti e a una così articolata arbitraria invenzione delle mie posizioni: il tutto fatto freddamente, stilato nero su bianco, quindi con tutto il tempo per riflettere, piuttosto che nell’animazione del confronto faccia a faccia. La reazione di Pasquinelli appare eccessivamente scomposta, furibonda e motivata da pulsioni aggressive da far pensare con qualche fondamento che il mio articolo deve aver toccato qualche nervo scoperto o qualche zona dell’inconscio, al di là del contenuto politico in quanto tale.
Giustifico così il titolo scherzoso di questo pezzo, sperando di non sembrare offensivo a mia volta o perlomeno di non essere sceso al livello di Pasquinelli.
Purtroppo, però, è talmente forte la carica politico-psicopatologica da rendere impossibile lo sviluppo di una discussione seria e l’elaborazione di una mia controreplica nel merito. Prima di discutere del debito e dell’uscita dall’eurosistema sarei costretto a correggere punto per punto le falsità e le arbitrarie deformazioni del mio pensiero, entrando in controversie astratte o pseudofilosofiche, che ci porterebbero lontani dall’oggetto del contendere. Ma forse proprio per questo Pasquinelli vi ha fatto ricorso: perché l’attenzione fosse deviata dalla sostanza dei problemi, dall’evidente matrice nazionalista delle sue posizioni e dall’incongruenza se non infondatezza delle sue indicazioni da «economista»… al posto della borghesia finanziaria.

Non scenderò quindi su tale terreno: non m’interessa rispondere agli insulti, non m’interessa discettare dei massimi sistemi (con riferimenti storici fasulli o infondati da parte del mio interlocutore), non m’interessa riempire pagine di scrittura che invece di avvicinarci alla soluzione dei problemi reali ce ne allontanino per semplice gusto della polemica oppure per nascondere la propria impreparazione teorica. Tutto ciò sarebbe inutile e io non sono minimamente interessato a condurre una polemica sterile nel peggior stile della gruppettistica. (Una gruppettistica, sia detto en passant, della quale Moreno è certamente uno degli interpreti italilani più variegati e camaleontici, ma anche più settari e autoreferenziali.)

Solo una cosa mi sento in dovere di rilevare. Il testo di Pasquinelli trasuda disprezzo verso ciò che io ho definito il sano «istinto» di classe: l’istinto che fa sì che i lavoratori possano lottare con i sindacalisti «onesti» in difesa dei loro interessi immediati che, proprio per essere tali, si contrappongono congiunturalmente agli interessi del padronato e dello Stato capitalistico, e che comportano il rifiuto di schierarsi a favore della propria impresa contro la concorrenza, di appoggiare un settore del padronato contro un altro. Notavo che, su scala più ampia, ciò implica che i lavoratori possano e debbano giustamente rifiutarsi di prendere parte per questa o l’altra opzione politica borghese o per il proprio Stato imperialistico (come è quello italiano) nelle sue beghe con altri Stati imperialistici o con le banche internazionali. A tutto ciò Pasquinelli oppone una sorta di ultraleninismo che, ripeto, trasuda disprezzo nei confronti di quelle lotte reali, che oggi mancano o sono purtroppo del tutto insufficienti, che costituirebbero la condizione elementare perché si possa resistere al feroce attacco padronale e statale. Lenin avrebbe come minimo cacciato a pedate nel sedere dalla frazione bolscevica chi avesse inteso «difendere» la «sovranità» del proprio Stato imperialistico, in questo caso proponendo l’uscita dall’eurosistema e il ritorno all’italianissima lira. Ma è il disprezzo per quelle che sono dette lotte «corporative», limitate e parziali ma pur sempre condotte da donne e uomini reali fuori degli schemi politici di compromesso di classe, che disturba. E non solo sul piano politico, bensì anche sul piano teorico e soprattutto umano.

Nell’impossibilità e inutilità di una controreplica, concludo consigliando al lettore di leggere il mio articolo incriminato ed eventualmente gli altri già presenti in questo blog, poi – rompendo un’inveterata tradizione per la quale si cerca sempre di non far leggere i testi dell’avversario – invito invece a leggere o rileggere quello di Pasquinelli e, quindi, di trarre le debite conclusioni.

5 ottobre 2011
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