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domenica 2 ottobre 2011

INTERVENTO ALL’ASSEMBLEA DEL 1º OTTOBRE «NOI IL DEBITO NON LO PAGHIAMO» (Roma, teatro Ambra Jovinelli), di Andrea Furlan

(per ragioni di tempo – troppi iscritti a parlare – non ho potuto fare il mio intervento. Questa è la sintesi scritta)

Come sarebbe "non remo più"? Insomma, siamo o non siamo sulla stessa barca?
Considero importante l'aver promosso questa giornata politica di discussione tra soggetti diversi in seno a ciò che resta della ex estrema sinistra italiana per verificare la possibilità della costruzione di un movimento anticapitalistico nel nostro paese che si dimostri capace di fronteggiare l'attacco ai diritti e alle condizioni materiali dei lavoratori, scatenato dalla Confindustria e dal Governo italiano.
Questa possibilità è il solo motivo che mi indusse a firmare l'appello promotore della giornata odierna. Sostengo questo perché nutro seri dubbi su varie questioni contenute nell'appello originario, e sue due in modo particolare. E poiché considero fondamentale la costituzione di un movimento politico che riattivi nel nostro paese il conflitto di classe,  ritengo che tale processo si debba fondare su basi politiche e teoriche solide.
Quando si asserisce che bisogna lottare contro il "Governo Unico delle Banche" (che è un’astrazione inesistente e non corrispondente alla realtà), si afferma in pratica la fine dell'autonomia politica ed economica degli Stati nazionali che compongono l'unione Europea i quali avrebbero perso loro sovranità in favore della BCE. Questa opererebbe come il grande fratello che impone alle singole borghesie nazionali e agli Stati la propria politica economica e sociale. Non è così.
Anzi, su questo versante, la questione è diametralmente opposta. La Comunità Europea continua ad essere la pura sommatoria – ancora nemmeno federativa - delle singole borghesie nazionali più forti le quali, mantenendo la piena autonomia politica, decidono in quella sede le misure comuni da adottare nella situazioni di crisi economica del sistema capitalistico, mantenendo un accordo di fondo sul fatto che le misure di austerity o i costi sociali della crisi vadano gravati sulle spalle dei lavoratori, paese per paese. Per quanto riguarda l’Italia, ognuno può vedere che non vi è alcuna contraddizione importante fra le posizioni della Confindustria e la BCE, vale a dire la portavoce sul piano economico-finanziario degli Stati imperialistici europei, ma vi è invece una sostanziale convergenza riguardo ai soggetti sociali che devono pagare i costi principali della crisi (lavoratori, pensionati, precari, migranti ecc), le strategia di risanamento del bilancio ecc.
Ne abbiamo avuto una conferma recente con la lettera della BCE firmata congiuntamente da Trichet e Draghi pubblicata dal Corriere della Sera cioè dal quotidiano della grande borghesia italiana (ed è quindi risibile che qualcuno ancora la chiami “lettera segreta”), nella quale emerge in tutta la sua chiarezza la totale assonanza di idee e obbiettivi che accomunano la Confindustria italiana e la BCE. Divergenze potevano esservi, forse, sui tempi di realizzazione della manovra economica, ma non certo sulla natura dei tagli e sulla sostanza antipopolare e antisindacale.
Da questo punto di vista dobbiamo constatare che la borghesia è l'unica classe che dimostra storicamente di saper fare tesoro degli errori commessi. Mentre nel passato, in momenti di grave crisi economica, le singole economie capitalistiche venivano lasciate a se stesse o addirittura si cercava di approfittarne in termini di concorrenza e accaparramento di fette di mercato, ora si assiste a una politica di “concertazione” e anche di relativo aiuto reciproco, allo scopo di mitigare la violenza esplosiva delle contraddizioni interimperialistiche. Diciamo per brevità che è una ricaduta della cosiddetta “globalizzazione” (termine non più di moda, al contrario di quanto accadeva ancora una decina di anni fa). Lo si vede chiaramente nell'aiuto che l’Unione Europea garantisce agli Stati che sono in maggiori difficoltà (come nel caso della Grecia) con prestiti e altre forme d’intervento concordato. La lettera di Trichet-Draghi ne è un altro esempio sul piano delle “direttive” piuttosto che sul piano dell’intervento finanziario diretto.   
L'altra questione concerne la cancellazione del debito o la sua moratoria. Su questo argomento tra di noi non devono esserci ambiguità. La crisi economica è la crisi del capitalismo e dello Stato borghese. E’ la borghesia italiana che ha contratto il debito con le banche estere ed è lei e solo lei che deve pagarlo se vuole o non pagarlo se non vuole o se le viene concesso. Non è un debito dei lavoratori, non è un nostro debito e non abbiamo ragione di intervenire (a parole, perché nei fatti l’impotenza è d’obbligo) sui tempi, i modi, il pagamento o il non-pagamento del debito.
E' ovvio che al momento, visti i rapporti di forza esistenti tra le classi e lo stato arretrato (men che difensivo) del conflitto sociale, questa posizione può esprimersi solo sul piano ideologico, stando ben attenti a non cadere nel nazionalismo filoborghese come fanno quei compagni o gruppi della ex estrema sinistra che si mettono a dare consigli alla borghesia italiana su come deve muoversi in questo o quel problema finanziario. I guai della borghesia italiana non ci riguardano direttamente. Noi possiamo solo tentare di contrastare il suo tentativo di far pagare i costi della crisi ai lavoratori italiani, stando anche bene attenti a quelle proposte politiche nazionalscioviniste che vorrebbero scaricare i costi della crisi italiana sui lavoratori di altri Paesi. Sostenere invece come faceva l'appello originario di questa assemblea (poi nettamente modificato nei comunicati successivi e nel titolo della giornata odierna, anche grazie alle critiche contenute nel testo di Michele Nobile, che Cremaschi ha positivamente ricordato nella sua relazione introduttiva pur non nominando l’autore) – e cioè che lo Stato italiano dovrebbe smettere di pagare il debito nei confronti della banche private, degli Stati esteri o delle agenzie internazionali - equivale a caricare la classe lavoratrice di un problema che non è il suo: e cioè il salvataggio del capitalismo e della propria borghesia nazionale dalle sue crisi. Forse del tutto ingenuamente non ci si accorge che così facendo ci si colloca in pieno all’interno delle compatibilità capitalistiche, tante volte a voce condannate.
Inoltre, non lo si dice esplicitamente ma è implicito che, se si chiede alla propria borghesia o Stato imperialistico di non pagare il debito pubblico, e quindi si suggerisce il non-rispetto sotto questo profilo di uno dei dettami più importanti di Maastricht, di fatto si sta chiedendo di essere espulsi dall'eurozona, con conseguente abbandono dell’euro per tornare alla lira o comunque a un’espressione monetaria nazionale. Anche qui l’“ingenuità” demagogica porta a non saper prevedere quali e quanti duri contraccolpi si avrebbero sul piano economico e sociale, con chiusura delle fonti di credito, crisi di settori produttivi, autarchia nel senso peggiore, nazionalistico e mussoliniano del termine.
In questo caso, non si comprende come qualcuno possa considerare la lira una moneta meno capitalistica dell'euro. O forse si pensa che in un sistema economico integralmente fondato sulla circolazione monetaria (è il caso del capitalismo e lo è ogni giorno di più), la cosiddetta economia produttiva possa essere separata dal finanziamento dell'investimento e dallo sviluppo del circuito finanziario mondiale? Si pensa veramente di poter liberare l’economica capitalistica italiana dai condizionamenti del mercato, in primo luogo del mercato dei capitali? Nella società del capitale (Italia compresa) la moneta racchiude in sé l’essenza del rapporto sociale dominante, la forma dello sfruttamento del lavoro salariato: ieri la lira, oggi l’euro, domani chissà… Durante la vigenza della lira, sempre con la scusa di dover far fronte alla crisi economica (seconda metà degli anni ‘70), il padronato italiano non è riuscito forse a togliere ai lavoratori la scala mobile dei salari e attaccato pesantemente i diritti che i lavoratori avevano conquistato con le lotte del 1968-69 e poco oltre? E il debito economico, il deficit di bilancio, le disavventure della lira ecc., non erano forse anche allora il pretesto per esigere, come nel 1992 sotto il governo Amato, i sacrifici ai lavoratori per ripianare il debito? Sacrifici che i governi democristiani e socialisti imposero con il consenso esterno del Pci e della Cgil e che poi il Pci-Pds-Ds applicò in prima persona con i governi Prodi-D’Alema-Prodi e con l’aiuto di Verdi, Comunisti italiani, Prc e l’intera casta dei Forchettoni rossi? In questa sala sono presenti vari esponenti della ex estrema sinistra che acconsentirono a quelle politiche di sacrificio dei lavoratori in nome della salvezza dell’economia italiana e che attendono solo la prima occasione possibile per provarci di nuovo. E a costoro farebbe certamente piacere che il mondo dell’opposizione sociale si avventurasse sul terreno dei “consigli” alla borghesia, invece che su quello della lotta accanita e capillare, ultradifensiva oggi che ci stanno togliendo proprio tutto, forse nuovamente aggressiva domani.
La fase politica attuale vede il movimento dei lavoratori sulla difensiva. Ma in realtà il fronte è ancora più arretrato visto ciò che sta accadendo sul piano dell’occupazione, dei diritti del lavoro, delle pensioni, della sanità, delle scuola ecc. senza che vi sia una risposta generale da parte di alcune categorie lavorative importanti, che invece avrebbero i numeri e le forze per contrastare il piano del capitale italiano (benedetto dalla BCE) ma non lo fanno perché a questo si oppongono le direzioni sindacali (oltre al PD e ai partiti limtrofi). Non viene fatto nulla di concreto per fermare l'attacco governativo e padronale, a parte alcuni inutili scioperi (inutili perché privi di obiettivi concreti da raggiungere, puramente dimostrativi), alcuni cortei e qualche fiammata di collera popolare. La verità è che i lavoratori italiani si trovano in netta difficoltà a fronteggiare l'attacco padronale a causa della scelta politica operata dal più grande sindacato italiano, la CGIL, avendo questa alle spalle decenni di politica concertativa e avendo ormai deciso di accettare la sostanza dell’attacco padronale come hanno dimostrato gli accordi sottoscritti il 28 giugno e il documento economico redatto insieme alla Confindustria il 4 agosto.
 A fronte di tale situazione, la nostra azione politica non può essere demagogica. E quanta demagogia si è sentita oggi in questa sala… Non ci vuole niente a spararle grosse, ricevere gli applausi e sentirsi così esonerati dall’indicare i passi concreti con cui avviare una vera lotta difensiva, concreta, autogestita e di massa, dei lavoratori e delle lavoratrici italiane. Nella fase attuale non c’è posto per i sogni e i grandi proclami su cosa debba fare o non fare la BCE, la borghesia italiana o i suoi governi. Se non riparte la lotta rivendicativa dal basso in alcuni settori importanti, ci si dovrà limitare al terreno della propaganda che, per essere efficace, dovrà essere costruita su pochi ma qualificanti punti comprensibili all’intero mondo del lavoro, immigrati compresi: 1) difesa della contrattazione nazionale, 2) difesa dello Statuto dei lavoratori, 3) difesa dello stato sociale (sanità in primo luogo), 4) difesa dei beni pubblici (acqua, servizi, territorio), 4) difesa del potere d’acquisto del salario, 5) autorganizzazione di massa contro il precariato, 6) difesa della democrazia a partire dai luoghi di lavoro (come si può venire a spararle grosse su presunte “Repubbliche” indipendenti in Sardegna o in Val di Susa quando un importante sindacato di base - i Cobas della scuola - da anni non riesce nemmeno ad avere il diritto di assemblea nell’orario di lavoro?) In poche parole bisogna lottare contro gli effetti immediati della crisi cercando di costruire una prospettiva all’interno di tale lotta. Il resto sono chiacchiere, demagogia.
Per quanto concerne invece la proposta organizzativa del movimento, sono convinto che ci dobbiamo dotare di una struttura realmente aperta e democratica, dove vi sia il rispetto totale delle varie sensibilità politiche presenti al suo interno, ma dove le decisioni siano realmente discusse e prese collettivamente indipendentemente dalla corrente politica d’appartenenza. Vi è l'esigenza ormai molto diffusa di uscire una volta per tutte dalla dinamica degli intergruppi in cui le singole soggettività politiche utilizzano il movimento per la crescita interna del proprio gruppo o miniapparato. A questo riguardo sono molto pessimista, anche in considerazione di come si sono svolte le ultime iniziative di lotta, le convocazioni di scioperi scriteriati e l’iter che ha preceduto questa stessa assemblea. Sappiamo quali gruppi politici sono prevalenti al suo interno e la cosa non ci tranquillizza affatto.
Nella situazione attuale, che vede la democrazia diretta in continuazione violata, concretamente e ideologicamente, dobbiamo reagire e dimostrare ai giovani, al mondo del lavoro fisico e mentale, agli immigrati, alle donne e alle comunità in lotta che siamo portatori di una nuova maturità politica: la maturità di chi vuole realmente costruire un movimento antagonistico che si dimostri all'altezza dello scontro di classe in atto in Italia e nel mondo, che si accrediti come un valido punto di riferimento per le lotte attuali e quelle future che prima o poi riprenderanno con o senza di noi.
Ovviamente, tutto ciò potrà essere possibile solo se si sgombra il campo dalle velleità elettoralistiche che hanno provocato le più grandi sconfitte di questi ultimi anni, in primo luogo sul piano etico, ma poi anche sul piano dell’analisi teorica e della formulazione di prospettive. Anche in questa assemblea c’è chi già pensa a come si riuscirà a votare ancora una volta per il Centrosinistra o per appendici del centrosinistra. E magari chi non ci pensa oggi, finirà col farlo – all’insegna della famigerata politica del meno peggio – alle prossime elezioni politiche. E a queste derive non c’è antidoto possibile al di là della crescente radicalizzazione delle lotte, la massima democrazia diretta e, diciamolo, anche l’egemonia di un’intelligenza politica in grado di capire quali siano i compiti della borghesia, quali dei lavoratori e l’abisso che passa tra i due.
Andrea Furlan
(RSA Filcams – CGIL)