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mercoledì 7 settembre 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XXIII, di Pier Francesco Zarcone


Per un imperdonabile mio errore di posta elettronica è stato pubblicato come 23° articolo sul mondo arabo non il testo che segue, ma un materiale preparatorio tratto da un giornale quotidiano. Mi scuso con la Redazione e in modo particolare con i lettori, ammesso che ciò sia possibile. (Pier Francesco Zarcone)

Libia: premesse “a futura memoria” sui prossimi sviluppi

Praticamente finito Gheddafi, si aprono i giochi tra i vincitori
Indipendentemente dai possibili “colpi di coda”, la conquista di Tripoli dovrebbe aver posto fine a un regime durato 41 anni. A questo punto è d’obbligo chiedersi problematicamente cosa accadrà dopo. La Libia è un contesto tutto particolare, anche all’interno del cosiddetto mondo arabo (che in realtà ha come elemento unitario solo la religione) e in più non siamo in presenza di rivoluzione sociale: su queste basi un atteggiamento diffidente è giustificato.
Al momento si può solo prendere atto della caduta di un tiranno sanguinario e folle, restare in attesa degli sviluppi successivi e cercare intanto di individuare i problemi esistenti. Ma per quel paese non si può escludere un futuro anche peggiore, giacché l’esserci stata una rivolta popolare lascia impregiudicato cosa ci presenti la Libia con la parola “popolo” (peraltro una fra le meno chiare del lessico politico, senza che i vari connotati ideologici a essa dati siano di utilità per definirne il contenuto, che poi tutti tirano dalla propria parte). Se a questo si aggiunge che le sollevazioni contro i tiranni possono avere le più svariate connotazioni politiche, allora si capisce meglio perché nelle precedenti corrispondenze si sia evitato l’abbandono a prematuri entusiasmi e si sia preferito tentare analisi degli avvenimenti e valutazioni magari un po’ freddine.

Uno scenario difficile con la prospettiva di una democrazia importata e artificiale
Il dopo-Gheddafi si presenta estremamente difficoltoso, e tale da motivare l’espressione - coniata all’interno della Nato appena si è profilata la vittoria - “successo catastrofico”. Cerchiamo dunque di capire meglio.
Una marea di “se” ipotetici sta di fronte ai vincitori in relazione alla loro capacità/possibilità di costruire “una” Libia. Non è casuale se non parliamo di ricostruzione della Libia, poiché dopo tanti anni di regime gheddafiano da costruire c’è tutto, e da ricostruire poco e niente. Gheddafi col suo pensiero “verde” (da lui definito “Terza Teoria Universale”) e sotto l’apparenza di una pseudodemocrazia diretta - che, sotto il suo dominio personale, non è stata nè democrazia né qualcosa di diretto, bensì devastazione istituzionale per una “libera tirannia” - ha demonizzato e bandito tutte le realtà e le istituzioni che, piaccia o no, permettono di parlare di “società moderna”. Niente Costituzione, niente partiti (nemmeno il partito unico), niente Parlamento, la stampa pubblicabile solo a cura dei “comitati popolari”. In poche parole, mancanza totale delle strutture idonee a svolgere le funzioni basilari di uno Stato e mancanza dell’indispensabile psicologia della cittadinanza. Su questa base la democrazia rappresentativa viene a essere impiantata sul nulla e partire dal nulla.

Che dire dei vincitori libici?
Ma i gravi problemi non finiscono qui, e in primo luogo riguardano i libici che hanno combattuto contro Gheddafi.. Che sappiamo dei vincitori? Chi sono e come si articolano? I rispettivi intendimenti sono compatibili o componibili in una pacifica dialettica politica? Che ruolo avrà la religione e che faranno i radicali islamici (o meglio, che possibilità di manovra in teoria hanno)? Poiché il Consiglio di Transizione attualmente non ha il controllo totale della Libia – e non ci si riferisce solo a Sirte, a Gadames e all’estesa parte sahariana del paese - a breve si vedrà se effettivamente la tribù degli Zentan, a cui si deve la caduta di Tripoli, non riconosce l’autorità del Consiglio di Transizione; cosa verrà fuori da una composita coalizione di ribelli comprensiva di tutto e del contrario di tutto (monarchici e repubblicani, laici e islamisti, dissidenti della vecchia guardia e ribelli dell’ultima ora) e fino a che punto giocheranno i tradizionali contrasti fra Tripoli e Bengasi e le rivalità tribali. In astratto uno scenario di decomposizione di tipo afghano aleggia sul paese.
Si dice che fra otto mesi ci sarà un’Assemblea Costituente, e fra venti mesi le elezioni politiche: prima di chiedersi se esse saranno la panacea presentata dai mass-media, si deve sottolineare la mancanza dei necessari presupposti, cioè una società civile “unitaria” alla maniera occidentale, mentre quella libica è frammentata in nuclei tribali e regionali, altresì suscettibile di ulteriori spaccature/aggregazioni per l’azione del radicalismo islamico.
L’incognita rappresentata da quest’ultimo oggettivamente esiste, e al momento non è ponderabile. Poi saranno i fatti futuri a parlare.

Pluralità di fazioni e problema islamista
Sia per le articolazioni interne ai ribelli di Bengasi, sia per la tradizionale e non sopita divaricazione fra essi e i tripolini non è azzardato prevedere – se non si arrivasse a una spartizione soddisfacente per tutte le componenti del fronte - il prossimo aprirsi di una diffusa e frammentata lotta per il potere dagli esiti non piacevoli, all’interno come all’estero. A pesare sarà certo il fatto che si deve la caduta di Tripoli agli ultimi arrivati, e non ai cirenaici, i ribelli della prima ora. Significativamente il 3 settembre il ministro degli Interni del Consiglio di Transizione, Ahmed Darrad, ha formalmente chiesto ai reparti di insorti non-tripolini di lasciare la capitale, con ciò causando gli intuibili malumori in gente che ha alle spalle una maggiore quantità di combattimenti e oggi ha sentore di misconoscimenti dei sacrifici affrontati.
Intanto il pericolo islamista, anche se non quantificabile, comincia ad apparire, e non più sullo sfondo, ma in primo piano. Per quanto discreta sia l’azione sviluppata dai circoli radicali islamici, il direttore del quotidiano londinese al-Quds al-Arabi, ‘Abd al-Bari Atwan, li ha di recente definiti “forti, ben armati e implacabilmente ostili alla Nato”. Potrebbe non sensibilizzare più di tanto l’aver deciso giorni fa il Consiglio di Transizione che la sharía sarà fonte d’ispirazione per le leggi dello Stato. Per quanto ciò possa dispiacere a laici e neokemalisti, non si tratta però di una novità nel mondo arabo, atteso che lo stesso accade per esempio in Egitto. Ma tutto sommato un po’ più preoccupante è la figura del nuovo comandante militare di Tripoli ‘Abdelhakim Belhaj (o anche Abu Abdallāh al Sadik), sospettato di rapporti con la galassia di al-Qaida.
Sarà vero oppure no? Indipendentemente da questo particolare, asserito ma non provato, il suo curriculum non è tale da rassicurare, e questo si riverbera sulle sue esibizioni verbali di moderatismo. Ex combattente in Afghanistan insieme ai Mujahiddin negli anni ‘80, nel 1995 fondò in patria il Gruppo Islamico di Combattimento Libico (Lifg), a cui si deve l’anno successivo un tentativo di uccidere Gheddafi (in quel periodo la politica del dittatore era contraria al radicalismo islamico sia perché da lui non controllato, sia per esigenze di make-up verso l’Occidente al fine di poter concludere proficui affari economico/finanziari). Nel 2004 era stato preso dalla Cia e poi consegnato a Gheddafi, dalle cui carceri era uscito nel 2008 a seguito di un’amnistia. Vuoi per il suo attuale incarico, vuoi per essere a capo di un gruppo di insorti duri e puri, oltre che ben arnati, di lui risentiremo parlare.

I “salvatori” europei: fonte di complicazioni
A questo punto appare problematico il ruolo delle maggiori potenze della Nato nel prossimo futuro. Questo ruolo, a seconda di come si metteranno le cose e di come dette potenze riusciranno a esercitare il loro potere, potrà essere destabilizzante o autoritativamente stabilizzatore.
Non si dimentichi mai che il regime di Gheddafi non è stato abbattuto dalla rivolta popolare: senza l’intervento militare esterno (essenzialmente di Francia e Gran Bretagna), effettuato in violazione sia del diritto internazionale sia di un ambiguo deliberato dell’Onu, già da tempo Gheddafi avrebbe massacrato i ribelli (Bengasi si salvò in corner, grazie all’intervento dell’aviazione francese che attaccò non appena il Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 19 marzo scorso autorizzò l’intervento “ a difesa dei civili”). L’intervento straniero ha del tutto rovesciato i rapporti di forza sul campo.
In buona sostanza la Nato, che ha abbattuto il regime libico, riuscirà a sostituirlo con un altro capace di prendere in pugno la situazione? Una buona parte del problema sta qui. Dalla stampa si apprende che sono in corso colloqui europei per la spartizione del petrolio libico, che a essi partecipa anche l’Italia. La Francia vorrebbe una quota del 35% per la Total, e l’Italia una forte presenza dell’Eni. Anche per il grande business della ricostruzione del paese ci sarà un’analoga quotizzazione e la Repubblica Popolare Cinese si è già affacciata con la sua candidatura.
Soffermarsi sugli aspetti etici è del tutto fuori luogo perché in assenza di quell’intervento ci sarebbero state ondate di proteste contro l’indifferenza del consesso degli Stati di fronte al massacro libico; e poiché c’è stato, implicando spese enormi, è ovvio che i “salvati” dovranno pagare il conto. Qui diciamo solo che ben difficilmente un condominio straniero di compari non dotati di pari forza (e determinazione) riuscirà a egemonizzare gli sviluppi futuri senza suscitare opposizioni: sia tra gli stessi partners, sia da parte della società libica. Quest’ultima troverà di fronte a sè aspiranti padroni europei, famelici e in lotta fra loro, con i governanti locali (che a costoro tutto devono) non certo in condizioni di fare resistenza e suscettibili di dividersi clientelarmente in rapporto ai singoli “salvatori” europei. Non è quindi esagerato prevedere una risposta dura da parte di quei settori che resteranno esclusi da un potere neocolonizzato. Il grande “ballo” deve ancora iniziare, e non si tratterà solo di “transizione”.

Un commiato?
Con un numero consistente di corrispondenze si è cercato di seguire i maggiori eventi attuali del mondo arabo commentandoli in modo da offrirne (si spera di averlo fatto) una visione diversa da quella presentata dai grandi (e vincolati) mezzi di comunicazione.
A questo punto possiamo prenderci una pausa, salvo eventi di straordinario o particolare rilievo. Infatti, chi fin qui ha avuto la pazienza di seguire i ben 23 interventi ospitati da “Utopia Rossa” ha a disposizione adeguate chiavi di lettura per continuare a commentare da sé i successivi sviluppi. Soprattutto libici, tunisini ed egiziani. E la situazione siriana? Anche per essa vale quanto detto, non solo per la sua stasi attuale. Se all’autore di questi scritti si dà licenza di indossare gli aleatori panni dell’indovino, se ne presenta la previsione: al-Assad non sarà rovesciato dalla piazza; e se le Forze Armate siriane continueranno a operare come hanno fatto finora, allora egli resterà al potere.