INTRODUZIONE A UNA SERIE DI ARTICOLI SULLA POLONIA.
1. Da Solidarność a Rosa Luxemburg.
Trent’anni
or sono la Polonia era scossa dal più grande e radicale movimento di massa di
lavoratori dell’Europa postbellica, sia a oriente che ad occidente dell’Elba. Nel vivo della lotta il movimento diede vita a
un Sindacato indipendente, che in pochi mesi
crebbe all’altezza di dieci milioni di
persone. In polacco si diceva Solidarność.
Occorre guardarsi dal confondere Solidarność del 1980-81 con quel che la sigla venne a
significare al termine del decennio. Il primo fu il movimento dell’intera
classe solidale, un organismo che catalizzò la volontà di cambiamento sociale e
politico della società che scendeva in campo. In quella situazione critica
rivendicazioni politiche ed economiche si saldavano e tendevano a
radicalizzarsi; venne anche abbozzato un modello di autogestione socialista (1)
che non venne messo alla prova a causa del golpe
del generale Jaruzelski. Lo stesso golpe era
la definitiva dimostrazione che ad essere in gioco era la natura del potere: o
dei lavoratori o della burocrazia sedicente socialista.
Quella fallita rivoluzione antiburocratica polacca era il
culmine di una serie di rivolte contro il regime: 1956, 1970, 1976, passando
attraverso il movimento più limitato del 1968. Tutte dimostrazioni di come i
grandi fenomeni storici nascano, anche in regimi detti totalitari, dalle
viscere della società, dai bisogni primari ma anche dalla fiera volontà di
riconquistare dignità. In tutte le rivolte dei salariati polacchi, e più che
mai nel 1980-81, si esprimeva la contraddizione tra il dominio di un partito
che pretendeva di esercitare il potere per conto del proletariato e i bisogni e
la volontà dei lavoratori e delle lavoratrici in carne ed ossa.
Retrospettivamente quella fu l’ultima occasione del XX
secolo, e una delle più grandi, nella quale i salariati europei fossero gli
iniziatori e i protagonisti di una possibilità di cambiamento storico; ed è per
questo che dal movimento polacco si possono trarre preziose lezioni, sia per
quel che concerne la dinamica della mobilitazione sociale e della
radicalizzazione politica, sia per l’esito di una «rivoluzione autolimitata»
(2).
Il movimento di Solidarność fu anche l’inizio di una fine: della fine delle dittature
burocratiche che passavano per «socialismo reale».
Con
altri interni di natura economica, i fatti della Polonia furono un segnale che avvertiva i vertici dirigenti
sovietici che il regime si avvicinava «alla frutta» e che «qualcosa» andava
fatto. Iniziò Andropov, già capo del Kgb. Poi Gorbaciov mise in movimento un
processo che, proprio perché partiva dall’alto, ebbe l’effetto non intenzionale
di far collassare il vecchio sistema centralistico, ma senza che fossero pronte
una sua variante decentralizzata (ammesso che questa fosse concretamente
possibile, e la storia dice di no) o un’alternativa socialista posta dal basso.
Fu
su quel collasso che s’innestò l’iniziativa per la restaurazione del
capitalismo, questa deliberata e ponderata,
di buona parte della nomenklatura sedicente «comunista». Al di là
dell’imprenditoria mafiosa, in Unione Sovietica una borghesia non esisteva:
andava «inventata» ex novo. Membri della nomenklatura manageriale, politica e
scientifica, con un ruolo di rilievo per i «giovani» del Komsomol, si valsero
della loro quota di potere per appropriarsi delle imprese, convertendosi da
«compagni» a padroni (3). Ciò poté accadere anche perché Solidarność era stato sconfitto nel 1980-1981, e in Unione
Sovietica e nei suoi satelliti mancò un grande movimento di lotta del suo
genere.
Nel rapporto sopra segnalato tra il movimento polacco e i
confusi tentativi di riforma dall’alto condotti da Gorbaciov si riaffermava
l’interazione tra rivoluzione russa e polacca, un postulato del socialismo
rivoluzionario polacco e russo prestalinista; e quel postulato non era altro
che la forma moderna e rivoluzionaria di un antico nesso tra la storia della
Polonia e quella della Russia; che poi è, in una prospettiva storica più ampia,
una non semplice interdipendenza tra le sorti delle aree polacca, baltica,
russo-ucraina e tedesca.
Almeno dal Medioevo il territorio polacco ha fatto da
ponte e da porta tra l’Europa occidentale, in particolare l’area tedesca, e la
Russia, divenendo poi una preda, un punto focale di convergenza di aspirazioni
imperiali e catalizzatore di tensioni internazionali, ma anche un serbatoio di
energie e di grandi personalità rilevanti per la storia dei paesi sia a
occidente che a oriente della Polonia. Si trattava (e si tratta) di una
particolare posizione geopolitica e anche di una posizione culturale e
politica.
Non si tratta di assumere delle entità «naturali»
precostituite, ma di considerare il processo storico di costruzione degli Stati
e delle identità nazionali dell’Europa centrale, orientale e settentrionale,
con multidimensionali effetti sulle altre parti del continente e su scala
mondiale.
Basti pensare alla costruzione degli imperi asburgico e
russo, ai tentativi imperiali della Svezia e dei Turchi ottomani, all’emergere
della potenza prussiana, fino al patto tra Hitler e Stalin, all’esplosione
della seconda guerra mondiale e, infine, ai negoziati tra gli Alleati: tra il 5
e il 10 febbraio 1945 il destino della Polonia fu il singolo argomento più
controverso alla conferenza di Yalta, oggetto di scambio con altre questioni e
poi tra i primi motivi della «guerra fredda».
Vent’anni fa siamo stati testimoni dell’ultimo momento,
per ora, di questo processo: la fine dell’Unione Sovietica e del blocco
economico e militare «socialista», la conseguente indipendenza delle
repubbliche ex sovietiche, la trasformazione sociale in senso capitalista di
questi paesi, la riunificazione della Germania.
Quel che oggi s’intende per Polonia, non solo per i
confini statali ma come composizione etnica e religiosa, la Polonia dei
polacchi e dei cattolici, fu il prodotto di un processo il cui «tocco» finale
venne dalla Seconda guerra mondiale e, più precisamente, dell’azione combinata
della Germania di Hitler e dell’Unione Sovietica di Stalin. L’effetto più
duraturo prodotto dal nazismo sul quadro umano del territorio polacco fu la
distruzione della sua componente ebraica; l’opera dello stalinismo contro il
popolo polacco iniziò con la quarta spartizione della Polonia nel 1939, ben
prima che essa divenisse un «socialismo di Stato». Un evento regionale, per il
quale la Polonia scontava, ancora una volta, la sua particolare posizione
geopolitica, ma che si tramutò immediatamente in guerra continentale e
mondiale.
Quello polacco è uno dei migliori punti di vista per
comprendere nella sua globalità la natura reazionaria
della politica estera sovietica dopo Lenin e, nella fattispecie, di Stalin in
persona.
Ma la Polonia non è stata solo una preda della quale
raccontare una storia di declino, smembramento e oppressione. Essa ha prodotto
due fenomeni, molto diversi, ma di grande valore internazionale, che si
collocano, stranamente, all’inizio e alla fine della traiettoria del movimento
operaio e socialista novecentesco.
Il primo è la nascita della Socialdemocrazia
del regno di Polonia (Sdkp, poi del regno di Polonia e di Lituania, Sdkpil), la cui ragion d’essere era l’indissolubilità
tra rivoluzione russa e polacca. Mente di quel partito fu Rosa Luxemburg, che
diede il meglio di sé nell’ambito del movimento operaio tedesco, la prima a
formulare una coerente prospettiva rivoluzionaria in Europa occidentale, una
donna che, unica tra i socialisti del suo tempo, all’occorrenza poteva suonarle
e cantarle a dovere anche a Lenin e Trotsky. Dell’altro, il movimento di Solidarność, ho già accennato. Non posso fare a meno di
pensare che Rosa e i suoi compagni sarebbero stati fieri di quel possente
esempio di autorganizzazione dei lavoratori, e che avrebbero lavorato con tutte
le loro forze perché il processo rivoluzionario antiburocratico procedesse fino
in fondo.
Il mio proposito è di trattare in una serie di articoli
quattro momenti rilevanti della storia polacca per il movimento operaio e
rivoluzionario, e non solo di questo: il significato del Sdkp e di Rosa
Luxemburg; gli effetti dello stalinismo per la Polonia, dal massacro del
Partito comunista polacco (Kpp) al patto tra Hitler e Stalin e alla Seconda
guerra mondiale; la crisi socioeconomica del regime di Gierek, legata a una
strategia di integrazione commerciale nel mercato capitalistico; la vicenda e
l’interpretazione di Solidarność.
Ciascuno degli interventi ha una sua autonomia ma nel loro
insieme esemplificano la prospettiva complessiva, geografica e storica. Perché
i termini di questa siano chiari occorre una premessa sulla posizione del regno
polacco-lituano prima delle spartizioni alla fine del XVIII secolo.
2. Premessa
storico-geopolitica.
Quando si pensa alla Polonia degli ultimi due secoli l’immagine che
affiora è quella di una nazionalità oppressa e di un’esistenza statale mai
veramente indipendente: la vita dello Stato polacco nel periodo fra le guerre
mondiali fu breve: su esso gravava la spada di Damocle della rinascita
dell’imperialismo germanico e l’infido cinismo della politica estera staliniana,
doppiamente minaccioso perché praticato da uno Stato che era russo e pure
d’altra «specie» sociale; quanto alla sovranità della Polonia «socialista»,
essa era ovviamente limitata dagli interessi strategici sovietici, garantiti
dai carri armati in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968.
Eppure, questa visione negativa o per sottrazione non è che il risultato
degli effetti delle contraddizioni accumulatesi in un’epoca di successo e di
espansione di un regno che non ebbe uguali nell’Europa centro-orientale tra il
XIV e i primi anni del XVII secolo.
Tra la fine del XIV secolo e la prima metà del XVII
l’Unione polacco-lituana, dal 1569 Confederazione
polacco-lituana (la Rzeczpospolita), giunse a coprire un immenso territorio: era il più grande
regno europeo, di fatto un impero multietnico e multiconfessionale a cavaliere
tra il centro e l’oriente del continente europeo.
Nella sua massima espansione la Confederazione si stendeva
sulla lunga costa baltica, dal Golfo di Danzica a quello di Riga nella loro
interezza, fino alla costa del Mar Nero compresa tra le foci del Dnepr e del
Dnestr, vicino alla penisola di Crimea; il confine più occidentale seguiva
l’ampia ansa del Warta, e poi, grosso modo, i confini orientali degli attuali
Stati di Slovacchia, Ungheria, Romania, Moldavia. A est comprendeva quelli che
oggi sono gli Stati di Lettonia, Bielorussia e gran parte dell’Ucraina,
protendendosi oltre Smolensk fino a circa 200 chilometri da Mosca. La dinastia
degli zar Romanov iniziò dopo la cacciata di truppe polacche da Mosca, che
l’occuparono dal 1610 al 1612. Per secoli fu la nobiltà polacco-lituana il
nemico «naturale» dei contadini ucraini e della
Russia bianca.
Nella Confederazione
convivevano cattolici, ortodossi,
uniati (dal 1596), ebrei e mussulmani; nel ‘500 la nobiltà aderì in
massa alla Riforma e nel 1573 uno Statuto di tolleranza, a lungo confermato da
ogni sovrano eletto, garantì la libertà di fede religiosa. Solo sotto il
«diluvio svedese» del secolo successivo la nobiltà tornò al cattolicesimo e a
una pratica controriformistica.
Se la Rzeczpospolita non fosse stata ridimensionata e, infine, del tutto
soggiogata, la carta politica e la storia dell’Europa sarebbero state
completamente diverse.
Non si tratta, però, di assumere lo spazio «polacco» come
un’entità data e di considerare i soli rapporti di potenza tra la Rzeczpospolita e i regni vicini. Il destino dell’impero polacco-lituano
non fu meccanicamente determinato dal crescere della pressione delle potenze
emergenti; esso risultò dall’interazione tra le sue peculiari caratteristiche
interne e il processo di formazione degli Stati europei moderni di Russia,
Prussia, Svezia, Austria-Ungheria, ai quali va aggiunto il conflitto con
l’impero ottomano.
In un regno combattente come quello polacco-lituano, situato in una
posizione di «frontiera» (per intendersi: nel 1385, al momento dell’unione
personale con il regno polacco, il Granducato di Lituania era ancora pagano e
si estendeva già fino al Mar Nero, comprendendo Smolensk) tra il Baltico, l’area
russa e quella danubiana, la nobiltà (la szlachta)
era eccezionalmente numerosa come, per analoghe ragioni, nella
Castiglia-Aragona e in Ungheria: per il XVIII si stima fosse circa l’8-10%
della popolazione, non meno del 6%; inoltre, la nobiltà era formalmente
egualitaria, in quanto giuridicamente non stratificata. Ma le proprietà
terriere dei magnati erano enormi, i villaggi sottoposti alla loro signoria si
contavano a centinaia e a decine le città, la loro forza militare sovente non
era inferiore a quella del re; al contrario, i redditi dei piccoli nobili
potevano non differire da quelli di un contadino ricco, e i più poveri tra loro
essere del tutto privi di terra.
La Confederazione polacco-lituana fu la terra classica di un fenomeno
che, in tempi differenti tra il XVI e la metà del XVII secolo, fu comune a
tutta l’Europa a est dell’Elba: la riduzione in servitù dei contadini che, per
essere tardiva rispetto all’Europa occidentale, nella storiografia si indica
come «seconda servitù della gleba». Questo fu il vero spartiacque della storia
sociale europea: mentre in occidente i rapporti servili si trasformavano e in
alcune zone diedero luogo alla formazione del capitalismo agrario basato sul
lavoro salariato, nella zona orientale la «seconda servitù» compromise per
secoli la formazione del capitalismo agrario e industriale. In Polonia i
contadini furono formalmente asserviti nel 1496, con gli statuti di Piotrkow,
legalmente messi a morte secondo l’arbitrio signorile nel 1574, sottoposti a
schiaccianti tributi in lavoro e in natura.
Ma, mentre per opposti motivi in tutta l’Europa i regni si trasformavano
gradualmente in senso assolutistico, riducendo i poteri politico-militari della
nobiltà per concentrarli nel sovrano, formando apparati burocratici e fiscali
che permisero di centralizzare una parte dei tributi per finanziare la
formazione di grandi eserciti, nella Rzeczpospolita questo non accadde.
Nel 1454 le necessità della lotta contro l’ordine teutonico portarono il
sovrano del regno polacco-lituano a ridurre i poteri dei magnati feudali a
favore della nobiltà meno ricca; ma questo accadde consentendo anche alla
piccola nobiltà di partecipare ai «parlamenti» locali o sejmiki. Nel 1492 venne convocato il primo «parlamento» centrale,
il Sejm e nel 1505 la monarchia venne privata della possibilità di prendere
decisioni senza il suo consenso.
Di modo che nell’epoca di Luigi XIV, di Pietro il grande, di Federico I
di Prussia e dei Wasa svedesi, la Confederazione rimase formalmente una
monarchia ma era la szlachta a
scegliersi il re, quasi sempre straniero e quindi con debole base di potere
interna. Mentre nel resto d’Europa i sovrani mettevano a tacere o non
convocavano più i «parlamenti», istituzioni tipiche del pieno feudalesimo,
nella Confederazione trionfò il «parlamentarismo» nobiliare più estremo, al
punto che il veto di un singolo deputato bastava a bloccare una proposta di
legge o misura fiscale (il liberum veto,
utilizzato per la prima volta da nel 1652). Ogni sovrano doveva sottoscrivere
dei precisi patti, e tra questi era previsto il diritto nobiliare di
«confederarsi» per opporsi con la forza delle armi al sovrano: diritto che non rimase solo sulla carta.
Dalla Guerra dei trent’anni (1618-1648) la Rzeczpospolita uscì meno
forte, con la perdita della Livonia, ma relativamente bene: relativamente, s’intende,
rispetto alla Germania e alla Boemia, dove le perdite umane ammontarono a un
terzo della popolazione, in alcune zone alla metà. Ma quella terribile guerra,
oltre a segnare la fine delle aspirazioni imperiali della Spagna e a definire
il sistema degli Stati europei fino a Napoleone, fu anche la fornace nella
quale, sotto la pressione dei tercios
asburgici e degli eserciti svedesi, venne accelerato lo sviluppo
dell’assolutismo. I nemici russi o svedesi che la Polonia-Lituania aveva
affrontato e battuto nel XVI e ancora nei primi del XVII secolo non erano più
la stessa «cosa», nonostante gli ussari polacchi fossero ritenuti la miglior
cavalleria pesante del continente e nel 1683 dessero il contributo decisivo
alla sconfitta degli Ottomani sotto le mura di Vienna assediata.
A metà del secolo la Confederazione divenne un grosso e grasso vaso
d’argilla posto tra spigolosi vasi di ferro, progressivamente ridotto da una
serie ininterrotta di guerre, in parte sovrapponentesi e, in effetti, momenti
di un unico processo: ribellione cosacca e contadina in Ucraina (1648-57),
guerra con la Russia (1654-67), concomitante «diluvio svedese» del 1655-61,
fino alla «grande guerra del Nord» del 1700-21, che pose fine all’imperialismo
svedese a vantaggio di quello russo; senza dimenticare il perdurante conflitto
con gli ottomani. La Rzeczpospolita fu devastata, con effetti terribili, da eserciti svedesi, russi,
austriaci, prussiani, danesi, posta in gioco di una partita che veniva giocata
da Parigi a Mosca. La battaglia della Poltava (1709) segnò la fine
dell’imperialismo svedese e la definitiva affermazione della Russia come
potenza continentale, di cui la Rzeczpospolita divenne un protettorato di fatto.
La peculiarità polacca fu che la resistenza della grande nobiltà alla
centralizzazione del potere, la fronda, non venne spezzata ma, al contrario, si
rafforzò per tutto il periodo. Il nocciolo della questione era fiscale: le
necessità della guerra avevano portato, nel XVI secolo, a usare le terre del
sovrano come garanzia dei prestiti. Per legge un quarto dei redditi delle terre
reali in concessione avrebbero dovuto essere versati nel tesoro reale; in
pratica ciò non accadde, a tutto beneficio dei magnati, i più grandi creditori.
La monarchia giunse a rinunciare alle sue pretese, rafforzando ulteriormente il
potere oligarchico e la sua rete clientelare.
Nell’economia mondiale dell’epoca la posizione della Confederazione era
quella di granaio d’Europa: ciò assicurava notevoli rendite ai signori, ma in
forza del potere di pressione nobiliare sugli asserviti, dello sfruttamento
estensivo, di una politica antiurbana, invece che delle migliorie produttive.
La szlachta sviluppò un’ideologia
fortemente esclusivistica, il mito della sua discendenza dalla conquista
sarmatica, che ne legittimava il potere differenziandola etnicamente dai non
nobili.
Quella che viene indicata come l’aurea
libertas dell’aristocrazia, a volte risibilmente vista come prefigurazione
della rivoluzione americana, era dunque la particolare forma involutiva assunta
da una formazione sociale feudale nel quadro della formazione dell’economia
mondiale capitalistica.
L’aristocratica aurea libertas si
tradusse nell’utilizzo da parte dei magnati dell’appoggio delle potenze estere
nella lotta politica interna, innanzitutto per bloccare i tentativi di riforma
dell’amministrazione statale, e nella disponibilità a farsi corrompere da esse.
Le risorse economiche dei magnati, il loro controllo delle cariche pubbliche e
le loro reti clientelari potevano così servire, nello stesso tempo, sia una
causa «antinazionale» sia la competizione intraoligarchica. Questo può anche
spiegare perché, mentre l’oligarchia magnatizia nel suo insieme era abbastanza
forte da bloccare un’evoluzione assolutistica del potere dei sovrani eletti,
nessuno dei singoli magnati poté prendere il potere per via
«extracostituzionale» iniziando la costruzione di uno Stato nel senso moderno:
un apparato burocratico e fiscale nato per la guerra. Interessi interni ed
esteri convergevano nell’impedire la crescita e l’aggiornamento della forza
militare indispensabile alla sopravvivenza della Confederazione.
Nel Sejm del 1713 non si levò neanche una voce contro l’ingiunzione russa
di un limite massimo di 24 mila uomini per l’esercito della Rzeczpospolita, questo in un momento in cui l’esercito prussiano
ammontava a 80 mila soldati, l’austriaco a 100 mila e il russo a 200 mila; e in
realtà gli effettivi polacchi furono meno del tetto nominale. Perché la differenza
si facesse sentire era solo questione di tempo, essenzialmente di accordi
diplomatici e di occasioni strategiche. Per contrastare la diplomazia francese
Federico di Prussia propose nel 1772 alla zarina Caterina di spartire gran
parte del territorio della Confederazione con l’Austria; nel 1793 venne
spartita per la seconda volta.
Paradossalmente, la nazione polacca nacque dalla fine dell’impero
nobiliare e dalla Rivoluzione francese: un primo accenno si ebbe nel 1791,
quando il Sejm, sulle orme del nuovo costituzionalismo francese, volle
rimpiazzare la monarchia elettiva con quella ereditaria, eliminò il liberum veto e affrancò i proprietari di
terra e i cittadini che pagavano almeno cento corone. Il secondo e decisivo
passo fu nel marzo 1794, dopo la seconda spartizione, quando esplose la rivolta
di tono giacobino diretta da Tadeusz Kościuszko, ingegnere e veterano della
guerra d’indipendenza delle colonie inglesi nel Nordamerica, dove s’era
guadagnato i galloni di generale. Ma conciliare la szlachta con l’emancipazione dei servi fu impossibile. E per quel
che rimaneva della Rzeczpospolita fu la fine, definitivamente spartita tra Occidente e Oriente nel 1795.
La libertà signorile e magnatizia l’aveva condannata all’estinzione; la
rivoluzione nazionale non aveva una base sociale abbastanza ampia; il Papato
condannò sempre le rivolte polacche.
La riconquista dell’indipendenza divenne l’ideale dei più poveri tra i
nobili, che più persero dalla spartizione, e dei loro eredi.
Per estensione territoriale gravitante verso Est, per
rapporti commerciali e cultura fortemente orientata a Occidente, la posizione
dell’impero polacco-lituano ne faceva una cerniera: esso era cresciuto
riempiendo il vuoto di potere creatosi con il ritrarsi dell’orda d’oro mongola.
Quando i regni vicini evolsero verso l’assolutismo, prima
forma dello Stato moderno, quel paradiso nobiliare si trovò predisposto, per
posizione geopolitica, morfologia e struttura interna, a divenire un campo conteso tra
potenze superiori, lacerato, soggetto a influenze diverse e a trasformazioni
indotte dall’esterno.
Eppure, anche quando un’entità polacca indipendente cessò
d’esistere, non venne meno quel ruolo di cerniera o di ponte: per gran parte
del XIX secolo i democratici e i socialisti occidentali videro nella rivolta
nazionale polacca un coltello alla gola dello zarismo, mentre i patrioti
polacchi combattevano per la libertà d’altri popoli.
Note.
1) Si vedano: Zbigniew
Kowalewski, «Solidarność per il potere dei
lavoratori» e «Il comitato
regionale di Łódź di Solidarność
sulla tattica dello sciopero attivo» in Critica
comunista, nn., 15-16, marzo-giugno 1982, e dello stesso Rendez-nous nos usines!,
La Brèche, Paris 1985.
2) Jadwiga Staniszkis, Pologne. La revolution autolimitée, Presses Universitaries de
France, Paris 1982.
3)
Come negli altri paesi «socialisti», ma nel caso sovietico la cosa è
documentatissima; si veda, ad es., Revolution from Above. The demise of the
Soviet System, di David Kotz e Fred
Weir, Routledge, London, 1997; per la Polonia: J. Wasilewski, «Hungary, Poland
and Russia: the fate of nomenklatura elites», in Mattei Dogan, John Higley (a
cura di), Elites, crises, and the origins
of regimes, Rowman e Littlefield, New York, 1998.
Bibliografia.
Anderson Perry, Lo stato assoluto, Mondadori, Milano
1980.
Clemens, Diane Shaver, Yalta,
Einaudi, Torino 1975.
Davies, Norman, God's playground. A history of Poland, Columbia
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Davies, Norman, Hearth of Europe. The past in Poland’s present, Oxford
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London, 1997.
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Palmer,
Alan, Northern shores. A history of the
Baltic sea and its people, Murray, London 2006.
Staniszkis,
Jadwiga, Pologne. La revolution
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Wasilewski, J., «Hungary, Poland and
Russia: the fate of nomenklatura elites», in Mattei Dogan-John Higley (a cura
di), Elites, crises, and the origins of
regimes, Rowman e Littlefield, New York, 1998.
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com