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sabato 3 settembre 2011

LA POLONIA, DA ROSA LUXEMBURG A SOLIDARNOŚĆ (SULLA POLONIA, 1), di Michele Nobile

INTRODUZIONE A UNA SERIE DI ARTICOLI SULLA POLONIA.

1. Da Solidarność a Rosa Luxemburg.
Trent’anni or sono la Polonia era scossa dal più grande e radicale movimento di massa di lavoratori dell’Europa postbellica, sia a oriente che ad occidente dell’Elba. Nel vivo della lotta il movimento diede vita a un Sindacato indipendente, che in pochi mesi crebbe all’altezza di dieci milioni di persone. In polacco si diceva Solidarność.  
Occorre guardarsi dal confondere Solidarność del 1980-81 con quel che la sigla venne a significare al termine del decennio. Il primo fu il movimento dell’intera classe solidale, un organismo che catalizzò la volontà di cambiamento sociale e politico della società che scendeva in campo. In quella situazione critica rivendicazioni politiche ed economiche si saldavano e tendevano a radicalizzarsi; venne anche abbozzato un modello di autogestione socialista (1) che non venne messo alla prova a causa del golpe del generale Jaruzelski. Lo stesso golpe era la definitiva dimostrazione che ad essere in gioco era la natura del potere: o dei lavoratori o della burocrazia sedicente socialista.
Quella fallita rivoluzione antiburocratica polacca era il culmine di una serie di rivolte contro il regime: 1956, 1970, 1976, passando attraverso il movimento più limitato del 1968. Tutte dimostrazioni di come i grandi fenomeni storici nascano, anche in regimi detti totalitari, dalle viscere della società, dai bisogni primari ma anche dalla fiera volontà di riconquistare dignità. In tutte le rivolte dei salariati polacchi, e più che mai nel 1980-81, si esprimeva la contraddizione tra il dominio di un partito che pretendeva di esercitare il potere per conto del proletariato e i bisogni e la volontà dei lavoratori e delle lavoratrici in carne ed ossa.
Retrospettivamente quella fu l’ultima occasione del XX secolo, e una delle più grandi, nella quale i salariati europei fossero gli iniziatori e i protagonisti di una possibilità di cambiamento storico; ed è per questo che dal movimento polacco si possono trarre preziose lezioni, sia per quel che concerne la dinamica della mobilitazione sociale e della radicalizzazione politica, sia per l’esito di una «rivoluzione autolimitata» (2).

Il movimento di Solidarność fu anche l’inizio di una fine: della fine delle dittature burocratiche che passavano per «socialismo reale».
Con altri interni di natura economica, i fatti della Polonia furono un segnale che avvertiva i vertici dirigenti sovietici che il regime si avvicinava «alla frutta» e che «qualcosa» andava fatto. Iniziò Andropov, già capo del Kgb. Poi Gorbaciov mise in movimento un processo che, proprio perché partiva dall’alto, ebbe l’effetto non intenzionale di far collassare il vecchio sistema centralistico, ma senza che fossero pronte una sua variante decentralizzata (ammesso che questa fosse concretamente possibile, e la storia dice di no) o un’alternativa socialista posta dal basso.
Fu su quel collasso che s’innestò l’iniziativa per la restaurazione del capitalismo, questa deliberata e ponderata,  di buona parte della nomenklatura sedicente «comunista». Al di là dell’imprenditoria mafiosa, in Unione Sovietica una borghesia non esisteva: andava «inventata» ex novo. Membri della nomenklatura manageriale, politica e scientifica, con un ruolo di rilievo per i «giovani» del Komsomol, si valsero della loro quota di potere per appropriarsi delle imprese, convertendosi da «compagni» a padroni (3). Ciò poté accadere anche perché Solidarność era stato sconfitto nel 1980-1981, e in Unione Sovietica e nei suoi satelliti mancò un grande movimento di lotta del suo genere.

Nel rapporto sopra segnalato tra il movimento polacco e i confusi tentativi di riforma dall’alto condotti da Gorbaciov si riaffermava l’interazione tra rivoluzione russa e polacca, un postulato del socialismo rivoluzionario polacco e russo prestalinista; e quel postulato non era altro che la forma moderna e rivoluzionaria di un antico nesso tra la storia della Polonia e quella della Russia; che poi è, in una prospettiva storica più ampia, una non semplice interdipendenza tra le sorti delle aree polacca, baltica, russo-ucraina e tedesca.
Almeno dal Medioevo il territorio polacco ha fatto da ponte e da porta tra l’Europa occidentale, in particolare l’area tedesca, e la Russia, divenendo poi una preda, un punto focale di convergenza di aspirazioni imperiali e catalizzatore di tensioni internazionali, ma anche un serbatoio di energie e di grandi personalità rilevanti per la storia dei paesi sia a occidente che a oriente della Polonia. Si trattava (e si tratta) di una particolare posizione geopolitica e anche di una posizione culturale e politica.
Non si tratta di assumere delle entità «naturali» precostituite, ma di considerare il processo storico di costruzione degli Stati e delle identità nazionali dell’Europa centrale, orientale e settentrionale, con multidimensionali effetti sulle altre parti del continente e su scala mondiale.
Basti pensare alla costruzione degli imperi asburgico e russo, ai tentativi imperiali della Svezia e dei Turchi ottomani, all’emergere della potenza prussiana, fino al patto tra Hitler e Stalin, all’esplosione della seconda guerra mondiale e, infine, ai negoziati tra gli Alleati: tra il 5 e il 10 febbraio 1945 il destino della Polonia fu il singolo argomento più controverso alla conferenza di Yalta, oggetto di scambio con altre questioni e poi tra i primi motivi della «guerra fredda».
Vent’anni fa siamo stati testimoni dell’ultimo momento, per ora, di questo processo: la fine dell’Unione Sovietica e del blocco economico e militare «socialista», la conseguente indipendenza delle repubbliche ex sovietiche, la trasformazione sociale in senso capitalista di questi paesi, la riunificazione della Germania.

Quel che oggi s’intende per Polonia, non solo per i confini statali ma come composizione etnica e religiosa, la Polonia dei polacchi e dei cattolici, fu il prodotto di un processo il cui «tocco» finale venne dalla Seconda guerra mondiale e, più precisamente, dell’azione combinata della Germania di Hitler e dell’Unione Sovietica di Stalin. L’effetto più duraturo prodotto dal nazismo sul quadro umano del territorio polacco fu la distruzione della sua componente ebraica; l’opera dello stalinismo contro il popolo polacco iniziò con la quarta spartizione della Polonia nel 1939, ben prima che essa divenisse un «socialismo di Stato». Un evento regionale, per il quale la Polonia scontava, ancora una volta, la sua particolare posizione geopolitica, ma che si tramutò immediatamente in guerra continentale e mondiale.

Quello polacco è uno dei migliori punti di vista per comprendere nella sua globalità la natura reazionaria della politica estera sovietica dopo Lenin e, nella fattispecie, di Stalin in persona.
Ma la Polonia non è stata solo una preda della quale raccontare una storia di declino, smembramento e oppressione. Essa ha prodotto due fenomeni, molto diversi, ma di grande valore internazionale, che si collocano, stranamente, all’inizio e alla fine della traiettoria del movimento operaio e socialista novecentesco.
Il primo è la nascita della Socialdemocrazia del regno di Polonia (Sdkp, poi del regno di Polonia e di Lituania, Sdkpil), la cui ragion d’essere era l’indissolubilità tra rivoluzione russa e polacca. Mente di quel partito fu Rosa Luxemburg, che diede il meglio di sé nell’ambito del movimento operaio tedesco, la prima a formulare una coerente prospettiva rivoluzionaria in Europa occidentale, una donna che, unica tra i socialisti del suo tempo, all’occorrenza poteva suonarle e cantarle a dovere anche a Lenin e Trotsky. Dell’altro, il movimento di Solidarność, ho già accennato. Non posso fare a meno di pensare che Rosa e i suoi compagni sarebbero stati fieri di quel possente esempio di autorganizzazione dei lavoratori, e che avrebbero lavorato con tutte le loro forze perché il processo rivoluzionario antiburocratico procedesse fino in fondo.

Il mio proposito è di trattare in una serie di articoli quattro momenti rilevanti della storia polacca per il movimento operaio e rivoluzionario, e non solo di questo: il significato del Sdkp e di Rosa Luxemburg; gli effetti dello stalinismo per la Polonia, dal massacro del Partito comunista polacco (Kpp) al patto tra Hitler e Stalin e alla Seconda guerra mondiale; la crisi socioeconomica del regime di Gierek, legata a una strategia di integrazione commerciale nel mercato capitalistico; la vicenda e l’interpretazione di Solidarność.
Ciascuno degli interventi ha una sua autonomia ma nel loro insieme esemplificano la prospettiva complessiva, geografica e storica. Perché i termini di questa siano chiari occorre una premessa sulla posizione del regno polacco-lituano prima delle spartizioni alla fine del XVIII secolo.

2. Premessa storico-geopolitica.
Quando si pensa alla Polonia degli ultimi due secoli l’immagine che affiora è quella di una nazionalità oppressa e di un’esistenza statale mai veramente indipendente: la vita dello Stato polacco nel periodo fra le guerre mondiali fu breve: su esso gravava la spada di Damocle della rinascita dell’imperialismo germanico e l’infido cinismo della politica estera staliniana, doppiamente minaccioso perché praticato da uno Stato che era russo e pure d’altra «specie» sociale; quanto alla sovranità della Polonia «socialista», essa era ovviamente limitata dagli interessi strategici sovietici, garantiti dai carri armati in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968.
Eppure, questa visione negativa o per sottrazione non è che il risultato degli effetti delle contraddizioni accumulatesi in un’epoca di successo e di espansione di un regno che non ebbe uguali nell’Europa centro-orientale tra il XIV e i primi anni del XVII secolo.

Tra la fine del XIV secolo e la prima metà del XVII l’Unione polacco-lituana, dal 1569 Confederazione polacco-lituana (la Rzeczpospolita), giunse a coprire un immenso territorio: era il più grande regno europeo, di fatto un impero multietnico e multiconfessionale a cavaliere tra il centro e l’oriente del continente europeo.
Nella sua massima espansione la Confederazione si stendeva sulla lunga costa baltica, dal Golfo di Danzica a quello di Riga nella loro interezza, fino alla costa del Mar Nero compresa tra le foci del Dnepr e del Dnestr, vicino alla penisola di Crimea; il confine più occidentale seguiva l’ampia ansa del Warta, e poi, grosso modo, i confini orientali degli attuali Stati di Slovacchia, Ungheria, Romania, Moldavia. A est comprendeva quelli che oggi sono gli Stati di Lettonia, Bielorussia e gran parte dell’Ucraina, protendendosi oltre Smolensk fino a circa 200 chilometri da Mosca. La dinastia degli zar Romanov iniziò dopo la cacciata di truppe polacche da Mosca, che l’occuparono dal 1610 al 1612. Per secoli fu la nobiltà polacco-lituana il nemico «naturale» dei contadini ucraini e della Russia bianca.
Nella Confederazione convivevano cattolici, ortodossi, uniati (dal 1596), ebrei e mussulmani; nel ‘500 la nobiltà aderì in massa alla Riforma e nel 1573 uno Statuto di tolleranza, a lungo confermato da ogni sovrano eletto, garantì la libertà di fede religiosa. Solo sotto il «diluvio svedese» del secolo successivo la nobiltà tornò al cattolicesimo e a una pratica controriformistica. 

Se la Rzeczpospolita non fosse stata ridimensionata e, infine, del tutto soggiogata, la carta politica e la storia dell’Europa sarebbero state completamente diverse.
Non si tratta, però, di assumere lo spazio «polacco» come un’entità data e di considerare i soli rapporti di potenza tra la Rzeczpospolita e i regni vicini. Il destino dell’impero polacco-lituano non fu meccanicamente determinato dal crescere della pressione delle potenze emergenti; esso risultò dall’interazione tra le sue peculiari caratteristiche interne e il processo di formazione degli Stati europei moderni di Russia, Prussia, Svezia, Austria-Ungheria, ai quali va aggiunto il conflitto con l’impero ottomano.

In un regno combattente come quello polacco-lituano, situato in una posizione di «frontiera» (per intendersi: nel 1385, al momento dell’unione personale con il regno polacco, il Granducato di Lituania era ancora pagano e si estendeva già fino al Mar Nero, comprendendo Smolensk) tra il Baltico, l’area russa e quella danubiana, la nobiltà (la szlachta) era eccezionalmente numerosa come, per analoghe ragioni, nella Castiglia-Aragona e in Ungheria: per il XVIII si stima fosse circa l’8-10% della popolazione, non meno del 6%; inoltre, la nobiltà era formalmente egualitaria, in quanto giuridicamente non stratificata. Ma le proprietà terriere dei magnati erano enormi, i villaggi sottoposti alla loro signoria si contavano a centinaia e a decine le città, la loro forza militare sovente non era inferiore a quella del re; al contrario, i redditi dei piccoli nobili potevano non differire da quelli di un contadino ricco, e i più poveri tra loro essere del tutto privi di terra.

La Confederazione polacco-lituana fu la terra classica di un fenomeno che, in tempi differenti tra il XVI e la metà del XVII secolo, fu comune a tutta l’Europa a est dell’Elba: la riduzione in servitù dei contadini che, per essere tardiva rispetto all’Europa occidentale, nella storiografia si indica come «seconda servitù della gleba». Questo fu il vero spartiacque della storia sociale europea: mentre in occidente i rapporti servili si trasformavano e in alcune zone diedero luogo alla formazione del capitalismo agrario basato sul lavoro salariato, nella zona orientale la «seconda servitù» compromise per secoli la formazione del capitalismo agrario e industriale. In Polonia i contadini furono formalmente asserviti nel 1496, con gli statuti di Piotrkow, legalmente messi a morte secondo l’arbitrio signorile nel 1574, sottoposti a schiaccianti tributi in lavoro e in natura.

Ma, mentre per opposti motivi in tutta l’Europa i regni si trasformavano gradualmente in senso assolutistico, riducendo i poteri politico-militari della nobiltà per concentrarli nel sovrano, formando apparati burocratici e fiscali che permisero di centralizzare una parte dei tributi per finanziare la formazione di grandi eserciti, nella Rzeczpospolita questo non accadde.
Nel 1454 le necessità della lotta contro l’ordine teutonico portarono il sovrano del regno polacco-lituano a ridurre i poteri dei magnati feudali a favore della nobiltà meno ricca; ma questo accadde consentendo anche alla piccola nobiltà di partecipare ai «parlamenti» locali o sejmiki. Nel 1492 venne convocato il primo «parlamento» centrale, il Sejm e nel 1505 la monarchia venne privata della possibilità di prendere decisioni senza il suo consenso.
Di modo che nell’epoca di Luigi XIV, di Pietro il grande, di Federico I di Prussia e dei Wasa svedesi, la Confederazione rimase formalmente una monarchia ma era la szlachta a scegliersi il re, quasi sempre straniero e quindi con debole base di potere interna. Mentre nel resto d’Europa i sovrani mettevano a tacere o non convocavano più i «parlamenti», istituzioni tipiche del pieno feudalesimo, nella Confederazione trionfò il «parlamentarismo» nobiliare più estremo, al punto che il veto di un singolo deputato bastava a bloccare una proposta di legge o misura fiscale (il liberum veto, utilizzato per la prima volta da nel 1652). Ogni sovrano doveva sottoscrivere dei precisi patti, e tra questi era previsto il diritto nobiliare di «confederarsi» per opporsi con la forza delle armi al sovrano: diritto che non rimase solo sulla carta.

Dalla Guerra dei trent’anni (1618-1648) la Rzeczpospolita uscì meno forte, con la perdita della Livonia, ma relativamente bene: relativamente, s’intende, rispetto alla Germania e alla Boemia, dove le perdite umane ammontarono a un terzo della popolazione, in alcune zone alla metà. Ma quella terribile guerra, oltre a segnare la fine delle aspirazioni imperiali della Spagna e a definire il sistema degli Stati europei fino a Napoleone, fu anche la fornace nella quale, sotto la pressione dei tercios asburgici e degli eserciti svedesi, venne accelerato lo sviluppo dell’assolutismo. I nemici russi o svedesi che la Polonia-Lituania aveva affrontato e battuto nel XVI e ancora nei primi del XVII secolo non erano più la stessa «cosa», nonostante gli ussari polacchi fossero ritenuti la miglior cavalleria pesante del continente e nel 1683 dessero il contributo decisivo alla sconfitta degli Ottomani sotto le mura di Vienna assediata.
A metà del secolo la Confederazione divenne un grosso e grasso vaso d’argilla posto tra spigolosi vasi di ferro, progressivamente ridotto da una serie ininterrotta di guerre, in parte sovrapponentesi e, in effetti, momenti di un unico processo: ribellione cosacca e contadina in Ucraina (1648-57), guerra con la Russia (1654-67), concomitante «diluvio svedese» del 1655-61, fino alla «grande guerra del Nord» del 1700-21, che pose fine all’imperialismo svedese a vantaggio di quello russo; senza dimenticare il perdurante conflitto con gli ottomani. La Rzeczpospolita fu devastata, con effetti terribili, da eserciti svedesi, russi, austriaci, prussiani, danesi, posta in gioco di una partita che veniva giocata da Parigi a Mosca. La battaglia della Poltava (1709) segnò la fine dell’imperialismo svedese e la definitiva affermazione della Russia come potenza continentale, di cui la Rzeczpospolita divenne un protettorato di fatto.

La peculiarità polacca fu che la resistenza della grande nobiltà alla centralizzazione del potere, la fronda, non venne spezzata ma, al contrario, si rafforzò per tutto il periodo. Il nocciolo della questione era fiscale: le necessità della guerra avevano portato, nel XVI secolo, a usare le terre del sovrano come garanzia dei prestiti. Per legge un quarto dei redditi delle terre reali in concessione avrebbero dovuto essere versati nel tesoro reale; in pratica ciò non accadde, a tutto beneficio dei magnati, i più grandi creditori. La monarchia giunse a rinunciare alle sue pretese, rafforzando ulteriormente il potere oligarchico e la sua rete clientelare. 

Nell’economia mondiale dell’epoca la posizione della Confederazione era quella di granaio d’Europa: ciò assicurava notevoli rendite ai signori, ma in forza del potere di pressione nobiliare sugli asserviti, dello sfruttamento estensivo, di una politica antiurbana, invece che delle migliorie produttive. La szlachta sviluppò un’ideologia fortemente esclusivistica, il mito della sua discendenza dalla conquista sarmatica, che ne legittimava il potere differenziandola etnicamente dai non nobili.
Quella che viene indicata come l’aurea libertas dell’aristocrazia, a volte risibilmente vista come prefigurazione della rivoluzione americana, era dunque la particolare forma involutiva assunta da una formazione sociale feudale nel quadro della formazione dell’economia mondiale capitalistica.

L’aristocratica aurea libertas si tradusse nell’utilizzo da parte dei magnati dell’appoggio delle potenze estere nella lotta politica interna, innanzitutto per bloccare i tentativi di riforma dell’amministrazione statale, e nella disponibilità a farsi corrompere da esse. Le risorse economiche dei magnati, il loro controllo delle cariche pubbliche e le loro reti clientelari potevano così servire, nello stesso tempo, sia una causa «antinazionale» sia la competizione intraoligarchica. Questo può anche spiegare perché, mentre l’oligarchia magnatizia nel suo insieme era abbastanza forte da bloccare un’evoluzione assolutistica del potere dei sovrani eletti, nessuno dei singoli magnati poté prendere il potere per via «extracostituzionale» iniziando la costruzione di uno Stato nel senso moderno: un apparato burocratico e fiscale nato per la guerra. Interessi interni ed esteri convergevano nell’impedire la crescita e l’aggiornamento della forza militare indispensabile alla sopravvivenza della Confederazione.
Nel Sejm del 1713 non si levò neanche una voce contro l’ingiunzione russa di un limite massimo di 24 mila uomini per l’esercito della Rzeczpospolita, questo in un momento in cui l’esercito prussiano ammontava a 80 mila soldati, l’austriaco a 100 mila e il russo a 200 mila; e in realtà gli effettivi polacchi furono meno del tetto nominale. Perché la differenza si facesse sentire era solo questione di tempo, essenzialmente di accordi diplomatici e di occasioni strategiche. Per contrastare la diplomazia francese Federico di Prussia propose nel 1772 alla zarina Caterina di spartire gran parte del territorio della Confederazione con l’Austria; nel 1793 venne spartita per la seconda volta.

Paradossalmente, la nazione polacca nacque dalla fine dell’impero nobiliare e dalla Rivoluzione francese: un primo accenno si ebbe nel 1791, quando il Sejm, sulle orme del nuovo costituzionalismo francese, volle rimpiazzare la monarchia elettiva con quella ereditaria, eliminò il liberum veto e affrancò i proprietari di terra e i cittadini che pagavano almeno cento corone. Il secondo e decisivo passo fu nel marzo 1794, dopo la seconda spartizione, quando esplose la rivolta di tono giacobino diretta da Tadeusz Kościuszko, ingegnere e veterano della guerra d’indipendenza delle colonie inglesi nel Nordamerica, dove s’era guadagnato i galloni di generale. Ma conciliare la szlachta con l’emancipazione dei servi fu impossibile. E per quel che rimaneva della Rzeczpospolita fu la fine, definitivamente spartita tra Occidente e Oriente nel 1795.
La libertà signorile e magnatizia l’aveva condannata all’estinzione; la rivoluzione nazionale non aveva una base sociale abbastanza ampia; il Papato condannò sempre le rivolte polacche.
La riconquista dell’indipendenza divenne l’ideale dei più poveri tra i nobili, che più persero dalla spartizione, e dei loro eredi.

Per estensione territoriale gravitante verso Est, per rapporti commerciali e cultura fortemente orientata a Occidente, la posizione dell’impero polacco-lituano ne faceva una cerniera: esso era cresciuto riempiendo il vuoto di potere creatosi con il ritrarsi dell’orda d’oro mongola.
Quando i regni vicini evolsero verso l’assolutismo, prima forma dello Stato moderno, quel paradiso nobiliare si trovò predisposto, per posizione geopolitica, morfologia e struttura interna, a divenire un campo conteso tra potenze superiori, lacerato, soggetto a influenze diverse e a trasformazioni indotte dall’esterno.
Eppure, anche quando un’entità polacca indipendente cessò d’esistere, non venne meno quel ruolo di cerniera o di ponte: per gran parte del XIX secolo i democratici e i socialisti occidentali videro nella rivolta nazionale polacca un coltello alla gola dello zarismo, mentre i patrioti polacchi combattevano per la libertà d’altri popoli

Note.
1) Si vedano: Zbigniew Kowalewski, «Solidarność per il potere dei lavoratori» e «Il comitato regionale di Łódź di Solidarność sulla tattica dello sciopero attivo» in Critica comunista, nn., 15-16, marzo-giugno 1982, e dello stesso Rendez-nous nos usines!, La Brèche, Paris 1985.
2) Jadwiga Staniszkis, Pologne. La revolution autolimitée, Presses Universitaries de France, Paris 1982.
3) Come negli altri paesi «socialisti», ma nel caso sovietico la cosa è documentatissima; si veda, ad es., Revolution from Above. The demise of the Soviet System, di David Kotz e Fred Weir, Routledge, London, 1997; per la Polonia: J. Wasilewski, «Hungary, Poland and Russia: the fate of nomenklatura elites», in Mattei Dogan, John Higley (a cura di), Elites, crises, and the origins of regimes, Rowman e Littlefield, New York, 1998.

Bibliografia.
Anderson Perry, Lo stato assoluto, Mondadori, Milano 1980.
Clemens, Diane Shaver, Yalta, Einaudi, Torino 1975.
Davies, Norman, God's playground. A history of Poland, Columbia University Press, 1982.        
Davies, Norman, Hearth of Europe. The past in Poland’s present, Oxford University Press, Oxford 1984.
Kotz, David-Weir, Fred, Revolution from Above. The demise of the Soviet System, Routledge, London, 1997.
Kowalewski, Zbigniew, «Solidarność per il potere dei lavoratori» e «Il comitato regionale di Łódź di Solidarność sulla tattica dello sciopero attivo» in Critica comunista, nn., 15-16, marzo-giugno 1982.
Kowalewski, Zbigniew, Rendez-nous nos usines!, La Brèche, Paris 1985.
Palmer, Alan, Northern shores. A history of the Baltic sea and its people, Murray, London 2006.
Staniszkis, Jadwiga, Pologne. La revolution autolimitée, Presses Universitaries de France, Paris 1982.
Wasilewski, J., «Hungary, Poland and Russia: the fate of nomenklatura elites», in Mattei Dogan-John Higley (a cura di), Elites, crises, and the origins of regimes, Rowman e Littlefield, New York, 1998.

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