Il 12 ottobre il premier turco Recep Tayyip Erdoğan ha iniziato al Cairo un
trionfale tour che dall’Egitto lo
porterà in Tunisia e poi in Libia. Si tratta di un evento di estrema importanza
politica, attestante l’esattezza dell’uso da noi fatto dell’aggettivo
“neo-ottomana” per qualificare l’attuale strategia turca nei rapporti internazionali.
Oltre a riproiettarsi sui Balcani, vale a dire, la Turchia (ormai potenza
regionale di tutto rispetto ai livelli militare ed economico) si propone come
punto di riferimento per gli sbocchi delle rivolte arabe, in palese alternativa
all’Iran e non certo in sintonia con gli interessi Usa o dell’Ue nell’area.
La rottura con Israele
La sostanziale rottura dei rapporti con Israele – vecchia alleata di
Ankara, ma ormai ingombrante concorrente (come meglio diremo) – appartiene alla
stessa logica. Qui la faccenda si fa interessante, ed è teoricamente
suscettibile di sviluppi finora non previsti. In Turchia brucia ancora il
ricordo dei 9 cittadini ammazzati dagli israeliani sulla Mavi Marmara, insieme alle rifiutate scuse di Israele, e quindi la
sfida di recente lanciata da Erdoğan ai sionisti – fare scortare dalla marina
militare turca un prossimo convoglio umanitario verso Gaza – finisce con
l’assumere una triplice finalità: galvanizzare l’opinione pubblica interna,
ormai attestata su posizioni anti-israeliane; affermare la Turchia quale
sostenitricee della causa palestinese; evidenziare la differenza rispetto agli
Stati arabi - finora collezionatori di brutte figure, o peggio.
A quest’ultimo riguardo c’è da notare che se effettivamente la marina turca
scorterà il prossimo convoglio “umanitario”, allora Ankara passerà dalle parole
ai fatti, giacché le opzioni possibili si riducono a tre: a) di fronte al
blocco israeliano il convoglio fa marcia indietro, e allora per la Turchia
sarebbe una tale brutta figura da mandare all’aria tutta una strategia globale
di politica estera; b) gli Israeliani fanno passare il convoglio; è chiaro
quali sarebbero l’effetto altamente positivo per la Turchia e il grado di
galvanizzazione dei Palestinesi e del mondo arabo in generale; inoltre tra le
conseguenze cio sarebbe anche una diminuzione del prestigio dell’Iran; c) gli
israeliani non cedono e le navi militari turche intervengono con le armi.
Questa opzione costituirebbe un disastro per Israele: disastro militare e
politico dalle conseguenze non predeterminabili.
Ma non si tratta solo di
questioni ideali
La presa di posizione turca contro Israele non rientra solo nel quadro
della strategia verso il Mediterraneo islamico, ma si inserisce anche –
strumentalmente – nelle relazioni con l’Unione Europea e nella politica
energetica di Ankara. Sono quindi in ballo questioni rilevanti, foriere di
sviluppi non secondari.
Esaminiamole separatamente, pur essendo oggettivamente intrecciate.
Notoriamente la Turchia continua a fare anticamera per entrare nell’Ue, e
questo da molti anni. Dopo che nel 2005 la Turchia era stata riconosciuta come
“candidata”, le trattative si sono arenate. Tuttavia, prima di esprimere
apprezzamento per la pazienza turca si devono fare alcune considerazioni.
Il partito Akp di Erdoğan – cosiddetto “islamico moderato” – ha tratto
vantaggi notevoli dall’apertura delle trattative con l’Ue, innanzi tutto ai
danni dell’opposizione laica per il fatto di potersi presentare – grazie a esse
– come realtà politica ritenuta affidabile dall’Europa benché di matrice
musulmana. Vantaggi sia politici sia economici, ma nel frattempo gli interessi
del governo turco si sono rivolti a un orizzonte che va al di là di un’Europa
sorda e muta e lo sbandierato europeismo degli inizi si è assai affievolito.
D’altro canto oggi non può dirsi proprio esaltante entrare in un contesto come
l’Ue, in forte crisi economica aggravata da inesistenti basi politiche
unitarie. Rinunciare formalmente alla candidatura vorrebbe dire per Ankara
sottoscrivere una sconfitta storica. Cosa da evitare, esistendo un’esigenza
politica da realizzare a medio termine (così spera Erdoğan) e un possibile
pretesto per assumere verso l’Europa un’atteggiamento duro non collegato
formalmente al tuttora denegato ingresso della Turchia nell’Unione.
Quale sia l’esigenza politica da concretizzare è presto detto: alle ultime
elezioni il partito di Erdoğan ha vinto di nuovo, e con più del 40% dei voti,
ma senza conseguire quella maggioranza che gli consentirebbe di modificare la
Costituzione, ovviamente nel senso di renderla un po’ meno laica. I successi
della politica neo-ottomana e le prese di posizione verso l’Ue a tutela degli
interessi nazionali possono servire per le prossime elezioni.
Il pretesto – che oltre tutto riguarda gli obiettivi della politica
energetica – non c’è bisogno di crearlo, esiste e si tratta solo di
utilizzarlo. Il suo nome è “questione cipriota”.
Che c’entra Cipro?
Cipro c’entra poiché, alla fine dei conti, se fosse risolto l’inerente
contenzioso greco-turco l’Ue richierebbe di dover gettare la maschera e dire
chiaro e tondo ai Turchi di scordarsi l’ingresso in Europa essendo musulmani.
Quindi, con evidenti ripercussioni negative in tutto il mondo islamico. Non
risolvere il contenzioso, peraltro, è utile ad Ankara per abbandonare di fatto
la candidatura europea riaffermando però l’autonomia e la dignità della
Nazione.
Il contenziosi greco-turco è diventato un vero e proprio affare
internazionale dal 1974. In
quell’anno, a seguito di un colpo di stato di destra nell’isola contro il
Presidente Makarios e finalizzato all’unione (énosis) con la Grecia (all’epoca ancora sotto il dominio dei
militari), il governo turco – presieduto dal laico Bulent Ecevit – mandò
l’esercito a invadere la parte settentrionale dell’isola con la scusa di
proteggere la locale minoranza turca lì più consistente. In quella parte
dell’isola è stata costituita una Repubblica turco-cipriota, riconosciuta solo
da Ankara. A motivo dello stato dei rapporti fra i ciprioti delle due etnie, di
riunificazione in un’unico Stato non è proprio il caso di parlare, talché si
tratterebbe di concordare un assetto cantonale o confederale che lasci autonome
le due comunità sia pure sotto il cappello di una formale aggregazione. Cosa
più facile a dirsi che a farsi, non foss’altro per il rifiuto turco-cipriota a
far rientrare (e risarcire) i greci a suo tempo fuggiti dalla parte nord.
La Repubblica di Cipro (con capitale Nicosia) a differenza dello Stato
turco del nord è internazionalmente riconosciuta, fa parte dell’Ue e nel 2012
ne assumerà la presidenza. Circa questo prossimo avvenimento Erdoğan ha già
messo le mani avanti, nel senso che fino a quando l’Ue sarà guidata da un
cipriota la Turchia non potrà collaborare con l’Unione. Infatti, il bello è che
se il contesto internazionale non riconosce la Repubblica turco-cipriota, dal
canto suo Ankara non riconosce la Repubblica con capitale Nicosia!
Si potrebbe aggiungere, per capire quale inestricabile intreccio ci sia a
Cipro, che la stessa politica di Ankara piace sempre meno ai turchi di Cipro,
ormai ridotti a 1/3 a causa della massiccia immigrazione di turchi anatolici
che – nella loro qualità di membri di uno Stato-fantoccio hanno dovuto subire.
L’Europa non si impegna per una soluzione del problema perché il suo persistere
giustifica l’esclusione della Turchia; la Turchia non può mollare per altri e
consistenti motivi: il ruolo strategico assunto dalla Turchia quale punto di
passaggio delle risorse energetiche verso l’Europa. Ebbene, la Turchia non può
lasciare il controllo delle risorse esistenti nel fondo del Mediteraneo in
prossimità delle coste cipriote: cioè gas e petrolio.
E Israele?
Sempre in relazione a queste risorse Israele svolge la sua politica in
oggettiva concorrenza con quella della Turchia, cosa che Erdoğan e il suo
governo (ma lo stesso vale per qualsivoglia governo turco) non possono
tollerare.
L’attuale “faccia feroce” turca verso Israele interviene sì dopo i fatti
della Mavi Marmara, ma successivamente all’accordo della fine del 2010 tra
Nicosia e Gerusalemme per lo sfruttamento delle risorse energetiche dei
fondali. Vero è che queste risorse si tiovano in acque che in teoria sarebbero
internazionali, ma va ricordata la contestazione di Ankara, di vecchia data,
sull’esatta definizione delle acque territoriali turche. Se si considera
l’importanza delle risorse energetiche esistenti nel mare fra Cipro, Turchia,
Libano, Israele e Gaza - il cui sfruttamento permetterebbe di creare
un’alternativa al gas russo portato da South
Stream, oltre a quelli del Caspio e dell’Iran - allora ci si rende conto
dell’enormità degli interessi in gioco.
In questa situazione per Ankara chiudere Israele in un angolo diventa una
priorità politica ed economica, e ad essere in difficoltà non sarebbero solo
gli Stati Uniti (già fortemente indeboliti nel Vicino Oriente), ma anche
l’Unione Europea, che si troverebbe a dover affrontare un’eventualità tra le
peggiori: scegliere.