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giovedì 28 luglio 2011

MONDO ARABO IN RIVOLTA XXII, di Pier Francesco Zarcone


Frastuoni siriani, silenzio arabo, attivismo turco

Siria: come prima, più di prima
Nulla di nuovo nella tragica situazione siriana. La repressione continua indifferente a tutto, le proteste proseguono senza esiti concreti, la morte fa il suo bottino e le carceri si riempiono.
In termini di forza materiale è palese che il regime bāthista resta il più forte, e ancora mantiene margini di consenso, per quanto non precisabili quantitativamente. Sul piano internazionale continua a essere appoggiato da Iran, Cina e Russia. I Venerdì restano giorni di fuoco, teatro di proteste di piazza ormai simili a liturgie tanto sanguinose quanto sterili.
Il resto del mondo arabo sostanzialmente tace, assiste ma non aiuta. Poiché nei casi estremi si finisce sempre con l’affidarsi a qualche “santo” disponibile, oggi l’opposizione siriana può solo sperare - e null’altro – nell’apparizione di un “santo in uniforme”, salvo poi pagargli il conto, magari salato. Auspicare la comparsa del solito “salvatore” è, politicamente, il segnale di una ripiegamento a cui al massimo potrebbe fare seguito una tipica situazione “gattopardesca”: sostituire un dittatore con un militare che dovrebbe l’ascesa al potere – mediante golpe, o persuasione armata - non già alla forza popolare, bensì al fatto di essere esponenziale delle Forze Armate.

Speranze e realtà
In buona sostanza oggi sembra proprio che solo un intervento da parte dell’esercito regolare possa mettere fine al regime della “dinastia repubblicana” fondata dal defunto Hafiz al-Assad. Parliamo di esercito regolare poiché finora la punta di diamante della repressione è stata la IV Divisione comandata in via esclusiva e autocratica da Maher al-Assad (fratello del Presidente) unitamente a forze speciali del regime.
Rivoluzione in arabo (fonte: nombreenarabe.blogspot.com)
Comunque sia, se l’opposizione siriana (o parte di essa) fa conto sulle possibilità offerte da presunte divisioni al vertice del regime, allora non può dirsi che in questo sia molto aiutata dall’Occidente, atteso che le sanzioni di Usa e Ue di recente hanno colpito proprio Habib e Raja.Sembra che taluni esponenti dell’opposizione (non si sa quanto rappresentativi) vedano come depositari delle loro speranze (o illusioni?) due generali di “alta patente”, come si suol dire: ‘Alī Habib, Ministro della Difesa, e Daūd Raja, capo di Stato Maggiore. Il primo dei due è alauita come gli Assad; il secondo è ortodosso di rito greco. Ambedue godono fama di non essere pregiudizialmente ostili all’Occidente, e il secondo comandò il contingente siriano inserito nell’alleanza che partecipò alla Prima guerra del Golfo. Il fatto che nessuno dei due sia sunnita può attestare che la maggioranza religiosa del Paese non conta molto in seno alle Forze Armate.
Ma anche a prescindere da ciò la cosa è delicata per i problemi esistenti sul tappeto. Quand’anche sia dato individuare segnali di qualche “dolore di pancia” nelle alte sfere delle Forze Armate – resta l’incognita circa l’effettivo interesse di esponenti della cupola militare a uscire allo scoperto; interesse che difficilmente acquisirebbe la necessaria corposità senza la sicurezza di avere con sé la stragrande maggioranza delle Forze Armate.
Pur ipotizzando l’appoggio di tale stragrande maggioranza dei militari – il “salvatore con le stellette” avrebbe di fronte solo due opzioni:
a)      il colpo di Stato per deporre Bashar al-Assad; dopo di che, però, dovrebbe vedersela con le potenti truppe del fratello Maher, che sono una cosa a parte rispetto all’Esercito in termini di comando;
b)      convincere il Presidente a cedergli il potere e godersi all’estero le ricchezze accumulate; tuttavia si dovrebbe svolgere con successo analoga opera di convincimento anche verso Maher al-Assad (consistente incognita).
In entrambi i casi – se non tutto andasse liscio come l’olio – sarebbe reale il rischio di una guerra civile con le Forze Armate spaccate in due. C’è qualcuno che se la sente?

L’attivismo turco
A differenza dei paesi arabi la Turchia si agita e si muove. È cosa buona, ma diciamo subito che nell’azione del  governo di Ankara (che continua a reprimere la minoranza curda) la bontà occupa (se lo occupa) un posto del tutto minimale: in realtà il governo turco fa politica con i piedi per terra nel quadro delle sue attuali linee strategiche. Ciò non toglie che i profughi siriani fuggiti in Turchia abbiano trovato una sistemazione provvisoria che i profughi e gli irregolari che sbarcano in Italia nemmeno si sognano (campi profughi attrezzati comprensivi di posti sanitari).
Certo, non tutto è fatto di rose e fiori, a prescindere dal fatto che un profugo, se non riesce a tornare in patria e a trovare una stabile sistemazione nel paese ospitante, sempre profugo è. E poi si deve considerare la particolare situazione della regione cui sono approdati questi profughi: la regione di Hatay. Terminata la Prima guerra mondiale, essa è diventata parte della Turchia solo nel 1939, dopo aver avuto un’amministrazione internazionale. Ma questo risultato la Siria non l’ha mai accettato. Inoltre, nella zona di Hatay i turcofoni, pur detenendo le leve dell’economia e dell’amministrazione, sono solo maggioranza relativa rispetto agli arabofoni, a loro volta minoranza assai consistente. Si tratta, quindi, di una zona dai delicati “equilibri” etnico/politici. Infine c’è il fatto che Turchi e Arabi non si amano eccessivamente, il che proietta le ombre di una non facile convivenza per un periodo imprecisato..
La politica puramente repressiva di al-Assad di fronte alle agitazioni interne ha fatto sfumare – per il momento – le manovre turche per la prospettiva di una sostituzione, nell’area Vicino-Oriente, dell’asse con Israele. Ovviamente la Siria – ma anche l’Iran – era una palusibile candidata.

L’intento turco di egemonizzare la Siria
Per forza di cose con l’attuale regime siriano non c’è più possibilità di manovra. Ma con un futuro regime siriano non bāthista ogni possibilità è aperta. L’oggettivo ripresentarsi di una prospettiva neottomana viene a costituire un elemento psicologico/culturale per il futuro condizionamento della Siria, che fa da superstruttura alla materiale massima importanza per Ankara di un certo tipo di rapporti con i paesi vicini (e più deboli) a vantaggio della politica commerciale turca. Non si dimentichi che proprio grazie a questi rapporti l’economia turca ha potuto fare fronte in modo ottimo alla crisi economica mondiale.
Così, mentre a Damasco al-Assad si è infilato in una situazione politica senza uscite, ad Ankara il premier Erdoğan – pensando al futuro - può giocare a fare il liberale con l’opposizione siriana, innanzi tutto non sbarrandole le porte di quel serbatoio umano che sono i campi profughi.
Se in questa fase il governo turco riuscisse a imporre alla Siria una zona-tampone alla frontiera, allora metterebbe a segno un’ulteriore mossa a favore sia del suo prestigio sia della capacità di condizionare la Siria; con questo regime o con un altro.