E se anche la Tunisia…?
Riflettendo realisticamente sulla Tunisia
È concreto il rischio che le speranze di libertà e giustizia si spengano proprio lá dove sono cominciate e hanno vinto; cioè in Tunisia.
In termini più generali, se tiriamo le somme delle situazioni dei singoli paesi arabi teatro di rivolte, senza ridare le notizie già fornite dai mezzi di comunicazione piccoli e grandi, è più che realistico considerare finita la “primavera araba”; anzi si potrebbe parlare di arrivo dei primi “rigori invernali”.
In Tunisia - il primo paese arabo a liberarsi del suo tiranno, in ciò seguìto solo dall’Egitto – le cose non vanno per niente bene. Già il rinvio delle prime elezioni libere da luglio a ottobre è grave sintomo di un persistente malessere politico foriero di esiti negativi; a ciò va poi aggiunto il riemergere quanto mai aggressivo del radicalismo islamico.
Le notizie di aggressioni a bagnanti, di intimidazioni contro feste con musica in case private e pubblici luoghi di spettacolo ormai sono diventate abituali. Le cosiddette autorità – in seguito capiremo se per loro volontà o meno – non appaiono molto attive nella difesa dei diritti (in primo luogo esistenziali) dei propri cittadini contro l’intolleranza islamica. Nel mentre il partito islamico di Gannushi sembra avere ottime prospettive elettorali.
A questo punto una riflessione s’impone.
Fin dall’inizio delle agitazioni tunisine vari commentatori (fra cui il sottoscritto) avevano sottolineato con interesse un dato oggettivo: la sostanziale assenza degli estremisti islamici nel corso degli avvenimenti, connotando la rivolta come reazione laica alla dittatura. Questo giudizio in sé non va modificato. Semmai si può imputare a quei commentatori il fatto di non averlo “storicizzato”, ovvero di averlo considerato come stabile pietra angolare sul piano delle conseguenze.
Riemerge l’estremismo islamico anche in Egitto
Detto ancora meglio, non si è considerata la possibilità, per l’estremismo islamico, di crearsi un proprio spazio di azione per imporsi sulla società tunisina (per quanto essa abbia una rilevante componente laica) anche con la violenza. E purtroppo la storia offre una vasta gamma di esempi a dimostrare che il mero fatto di essere numericamente consistenti, o addirittura maggioranza non basta a difendersi da minoranze aggressive disposte a tutto.
L’Egitto si trova in una situazione similare. La transizione sembra bloccata per colpa dei militari che la gestiscono, a piazza Tahrir sono ricominciate le manifestazioni di protesta e la Fratellanza musulmana incombe. Le aggressioni di musulmani contro cristiani copti attestano che nel milieu islamico si agitano forze poco raccomandabili.
Sebbene finora la Fratellanza Musulmana presenti ufficialmente un “basso profilo” sono in parecchi quelli che cominciano a preoccuparsi.
L’incognita elettorale
Il fatto che saranno le elezioni a sciogliere nell’immediato i nodi politici è assolutamente neutro, atteso che in Tunisia e in Egitto potrebbero vincerle i partiti islamici. Non sarebbe il primo caso di vittoria di una tirannia per via elettorale.
In tale eventualità si profilerebbe un esito pesantissimo, innanzi tutto sul piano internazionale. Se gli estremisti islamici deponessero le attuali apparenze moderate, non solo negli altri paesi arabi i regimi autoritari ne trarrebbero una rinnovata ragion d’essere, ma troverebbero con sé – e senza più scrupoli o ipocrisie “democratiche” – le potenze occidentali, al cui interno diventerebbe del tutto marginale la parte di opinione pubblica disposta a non identificare l’insieme del mondo arabo con il radicalismo islamico. Per non parlare degli scenari bellici che si potrebbero delineare per iniziativa di un Occidente sentitosi minacciato dal sud del Mediterraneo.
E sarebbe anche la fine di ogni prospettiva democratica (sia pure borghese) nel mondo arabo. Non solo per quello che vorrebbe dire l’avvento di governi radicali islamici in due paesi-chiave, ma altresì per la non remota ipotesi di colpi di stato militari e per il possibile ripetersi di scenari di tipo algerino dopo la denegata vittoria del Fronte Islamico di Salvezza sul finire del secolo scorso.
Volendo essere realisti, non ci si può limitare a ribadire che la pratica della democrazia rappresentativa ha come presupposto la libertà dei popoli nell’autodeterminarsi. Scrisse nella prima metà del secolo scorso l’anarchico spagnolo Diego Abad de Santillán che la libertà è sempre storicamente determinata. Cioè che deve fare i conti con le caratteristiche e le possibilità presentate dai singoli momenti storici a cui ci si riferisce. La cosa è magari poco esaltante, ma così è.
Questo per introdurre un’osservazione: la scelta in favore di un governo basato sulla sharía sarà pure frutto di libera scelta, ma nei fatti significa contrapposizione netta nei confronti di tutto ciò che al mondo islamico non è, oppure non è islamico radicale. Per non dire “uscita” da questo contesto con intenti virtualmente aggressivi. Se poi l’imperialismo interviene a presentare il “suo” conto con i noti sistemi, allora – spiace dirlo – ma restiamo nell’ordine delle cose.
Tutto questo, al momento, senza considerare l’intreccio con le ulteriori conseguenze derivabili dalla vittoria talibana in Afghanistan (ormai sempre più nitida) e dalle ripercussioni in Pakistan.
Notoriamente il futuro è ignoto, tuttavia l’orizzonte è pieno di nuvole nere.