Un requiem per la rivolta libica?
Pur sperando che non vada a finire così, indubbiamente in questo paese il quadro è cambiato. Gheddafi è in marcia su Bengasi e ha “ripulito” la parte occidentale della costa. Una rivolta all’inizio apparentemente inarrestabile ora ha di fronte a sé la prospettiva della disfatta e della più crudele repressione. Cinicamente parlando, il Colonnello ha avuto il “buon senso” di utilizzare il mare di denaro su cui naviga per fondare la forza armata del suo regime su corpi scelti di membri della sua tribù e su un robusto corpo di mercenari stranieri assai ben pagati e armati.
Ormai è certo che i ribelli libici da soli – cioè senza almeno adeguati rifornimenti di armi e munizioni - non ce la fanno. Sull’ipotesi teorica di un intervento diretto di potenze imperialiste già ci si è espressi in senso negativo e motivato. Però i ribelli hanno bisogno di aiuti esterni, altrimenti Gheddafi vince. Resta la domanda su cosa si dovrebbe fare in siffatta situazione? Al di là della verbale e reiterata esistenza di più opzioni, e dei vuoti inviti a Gheddafi perché se ne vada, le potenze imperialiste non stanno andando. Così evitano di combinare ulteriori guai. Si capisce pure la ragione dell’inattività, al di là dell’iniziativa diplomatica francese concretizzatasi nel riconoscimento del consiglio rivoluzionario di Bengasi (iniziativa unilaterale dal sapore di prenotazione di concessioni petrilifere in caso di vittoria, o resistenza, dei ribelli; ma nulla di più).
Già impegnate in Iraq e Afghanistan, le potenze occidentali non se la sentono (anche economicamente) di aprire un terzo fronte, pur sapendo che un Gheddafi vittorioso presenterà il conto a chi lo ha “mollato” dopo aver fatto affari con lui e averlo coccolato. In base all’atteggiamento complessivo di tali potenze, e alle cose da loro dette e non dette, si può pensare che siano in gioco alcuni fattori senza i quali si capirebbe poco: la diffidenza per i ribelli libici dei quali non si sa molto e la loro appartenenza a un mondo fortemente tribalizzato (col rischio di una ripetizione del caos somalo); la presunzione/speranza che la fine della crisi libica normalizzi i prezzi petroliferi; e per finire l’interesse ad avere qualcuno disposto a essere il disumano (ma utile) custode della costa sud in funzione anti-immigrazione verso l’Europa.
In fondo è l’ennesima dimostrazione di come per l’imperialismo i dittatori di un certo colore, pur se figli di puttana, siano sempre “i propri” figli di puttana, e di come risulti più “proficuo” che la democrazia borghese resti confinata nel “primo mondo” e i diritti umani siano alibi per operazioni economicamente proficue.
Questa critica non è necessariamente in contraddizione con il giudizio negativo circa un intervento diretto dell’Occidente, se procediamo nel senso di dare una risposta alla domanda sul “che fare”. In realtà il soggetto collettivo suscettibile di agire, e a cui potrebbero essere forniti i necessari supporti, ci sarebbe: la Lega Araba. Questo organismo alla fine ha chiesto all’Onu l’instaurazione di una no fly zone. Si tratta di un’iniziativa non riducibile alla mera dichiarazione di interdizione di uno spazio aereo, poiché senza una rapida e adeguata preparazione militare - distruzione dei sistemi radar e contrarei, e della capacità operativa dell’aviazione locale - tutto rimarrebbe senza effetto. Ma ancora non si capisce chi vi dovrebbe provvedere? Forse gli occidentali? Un’ulteriore dimostrazione di ipocrisia, perché prima che l’Onu si muova (e noi sappiamo da sempre che l’Onu si muove solo per sedare le rivolte, non per incoraggiarle), e che dopo il suo “via” lo facciano gli incaricati dell’esecuzione, Gheddafi avrà già vinto.
In realtà ben pochi griderebbero allo scandalo se la Lega Araba avesse deciso di provvedere essa stessa alla bisogna, ricevendo dagli occidentali tutte le informazioni idonee a preparare la no fly zone. E in concreto si potrebbe dare l’incarico esecutivo all’Egitto, dotato di un’aviazione rispettabile. Parallelamente non dovrebbe essere difficile rifornire celermente i ribelli degli armamenti di cui necessitano, giacché se è l’aviazione di Tripoli ad “ammorbidirne” le posizioni, in concreto sono gli armati di Gheddafi a conquistarle. Ma si può tranquillamente scommettere che ciò non accadrà. Le conseguenze non si limiteranno al territorio libico o alle reazioni vendicative di Gheddafi all’esterno del suo paese, bensì il fatto stesso della sua vittoria avrebbe conseguenze pesanti e negative nei paesi – come lo Yemen, per esempio – in cui da settimane il popolo cerca di mandare a casa il dittatore locale. Sarà quindi la Libia lo scoglio su cui si infrangerà l’ondata della ribellione araba che, nel suo complesso e nella sua pericolosa dinamica, non è stata mai vista di buon occhio dall’Occidente?
Riflessioni provvisorie (forse) sugli eventuali sbocchi “democratici” nei paesi arabi liberati
In una precedente corrispondenza si era parlato dell’assenza, a breve o medio termine, di prospettive di rivoluzione sociale (in senso proprio) nei paesi arabi in cui la rivolta ha avuto successo e in quelli dove è ancora in corso. Sembrano essere in atto processi volti all’instaurazione di formali democrazie rappresentative di tipo borghese, magari più effettive dei sistemi fasulli messi in atto dai dittatori deposti o da deporre. Meglio che niente, si potrebbe dire, e restano nell’angolo i favorevoli (come chi scrive) a quella che una volta si chiamava “democrazia diretta” (detta pure dai comunisti greci nel secolo scorso “laocrazia”). Certamente l’avvento della democrazia rappresentativa costituisce un miglioramento rispetto alle tiranniche e sanguinarie autocrazie arabe; pur tuttavia dal punto di vista della sinistra rivoluzionaria ben se ne conoscono insufficienze, limiti e anche pericoli per l’emancipazione popolare. Resta comunque il fatto che non tutti i sistemi rientranti nella categoria “democrazia rappresentativa” sono uguali fra loro: alcuni sono meglio, altri peggio.
A questo punto si impone una riflessione (sia pur sommaria) su alcuni fondamentali problemi con cui avranno pesantemente a che fare i processi politici nel mondo arabo - a prescindere dal fattore “radicalismo islamico” – tenuto conto di un elemento fondamentale: la democrazia rappresentativa contraddice se stessa (ovvero è di pura facciata) quando mancano il rispetto per gli avversari (sui nemici si potrebbe fare un discorso a parte) e lo spazio per la cosiddetta “dialettica politica”. In un linguaggio meno aulico ciò significa che prendere a mazzate per strada (o peggio) gli avversari è fuori dalla normale logica democratica. Quindi, la manifestazione delle donne cairote dell’8 marzo, interrotta dall’arrivo di un’orda di uomini minacciosi e pronti a usare le mani, non è una bella premessa per l’avvento di uno stato di cose diverso dal passato..
Veniamo ora al resto dei problemi in campo. La prima questione è che nei due paesi liberatisi del proprio dittatore la cosa è riuscita grazie all’atteggiamento assunto dai rispettivi eserciti (per quanto si trattasse di dittatori di estrazione militare, passati dalla caserma al palazzo presidenziale). Pensare a un prossimo futuro libero da pretese politiche dei militari pare un po’ azzardato, soprattutto in Egitto (ma non solo), dove generali e alti ufficiali gestiscono anche un rilevante potere economico, in buona parte autonomo. Nell’equazione politica da risolvere in un futuro prossimo venturo si tratta di un fattore M di un certo peso.
Ma altre incognite sussistono, e provengono dalle realtà socio/culturali dei vari paesi arabi. In primo luogo, si deve considerare un elemento comune sia alle dittature sia ai vertici delle democrazie borghesi corrotte: gli apparati repressivi, cioè, non svolgono mai un ruolo esclusivo per il mantenimento “dell’ordine”; esiste infatti uno strumento aggiuntivo dall’importanza non trascurabile, il cui nome è mantenimento della popolazione nel degrado culturale e/o nell’oscurantismo. E si tratta di una situazione definibile di massa.
Si tenga poi presente che – nel bene o nel male – la democrazia rappresentativa (di matrice borghese, non dimentichiamolo) si basa sull’atomizzazione individuale. Sempre attuali restano le pagine di Marx sul significato di metafora socio/economica del mito del “buon selvaggio” coniato nella fase iniziale del capitalismo. Non pare proprio che ciò operi nelle società arabe. Questo ci porta a un dato che non sarebbe specifico del mondo arabo se lì non si presentasse con una particolare valenza quantitativa e qualitativa: si tratta della particolare disomogeneità interna a dette società, pur essendo queste realtà collettive differenti fra di loro se singolarmente considerate in modo globale. Non si tratta, certo, di una caratteristica esclusiva a questa parte di mondo, presentandosi ogni società al suo interno disomogenea in modo maggiore o minore. Basti pensare all’incidenza delle diversità regionali sui piani economico, sociale e culturale; alla diversità fra grandi città, città di provincia e campagne; nonché alle interrelazioni fra tutti questi fattori.
Nel mondo arabo troviamo disomogeneità che esprimono il coesistere di realtà sociali (con tutto quanto l’aggettivo implica) addirittura appartenenti a ciò che per noi occidentali sarebbero epoche storiche differenti. Oppure esprimono la commistione, in singoli settori sociali, di elementi e situazioni definibili tipiche sia dei secoli XX e XXI sia dei secoli precedenti; di un “passato” immobile, si potrebbe dire. Non ci si deve fermare alla diversità urbana esistente, per esempio, tra la yemenita Sanaa e la siriaca Damasco, perché poco significativa, ma si deve evidenziare come rapporti socio/economici di tipo “medievale” (per intenderci alla buona) e i corrispondenti orizzonti culturali non esistono solo nelle campagne, sulle montagne o nelle oasi, ma anche all’interno dei grandi contesti urbani (come Il Cairo, Algeri, o Rabat). Questi rapporti sociali arcaici appartengono al tribalismo e/o a forme di clientelismo “parafeudale” economico e politico. A ciò si aggiungano i fortissimi vincoli che fanno dipendere le persone dalla famiglia (rarissimamente mononucleare) e dal clan a cui la famiglia appartiene. E famiglie e clan in certe società arabe fanno ancora parte di una tribù. Tutti questi assetti producono una strutturazione piramidale della società al cui vertice si pongono ceti privilegiati, rimasti inalterati in Tunisia come in Egitto.
Un elemento di novità (ma dal peso ancora non determinabile) emerge oggi dalla consistente quantità di giovani i cui orizzonti in qualche modo sono stati ampliati dall’uso delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Qui sta un’incognita X che potrebbe essere rilevante, almeno in termini potenziali. Il fenomeno va seguito con attenzione, poiché le società arabe – a differenza di quelle europee – sono maggioritariamente composte da giovani. Prendiamo l’Arabia Saudita (di cui ci si riserva di parlare nella prossima corrispondenza con maggiore ampiezza), dove il 60% degli abitanti ha meno di 30 anni, l’età media dei giovani è di 19 anni, l’uso di internet nel 2010 ha avuto un aumento del 240% e riguarda almeno 3 milioni di persone.
E dulcis in fundo ci sono le chiusure e i fanatismi religiosi, da non assimilare al solito radicalismo islamico oscurantista e bombarolo. Ci si riferisce a un fattore specifico, “tradizionale” per così dire, da leggere alla luce del principio: “forse la religione non è necessariamente l’oppio dei popoli, ma presa a forti dosi fa malissimo, a chi la assume e al prossimo suo”. È un fattore che non riguarda solo i musulmani, ma anche certe minoranze cristiane. I paesi arabi ad avere tali minoranze religiose di un qualche rilevo sono Palestina, Siria, Iraq (forse ancora per poco) ed Egitto (qui addirittura si tratta del 10% circa della popolazione). Proprio in Egitto coabitano due chiusure religiose: la musulmana (ben nota) e la copta, assai meno nota ma non meno dura. Se negli ultimi giorni di lotta al Cairo si sono visti affiancati a piazza Tahir croci copte e Corani, di recente abbiamo avuto, sempre al Cairo in un quartiere popolare, una contrastata storia d’amore fra un giovane copto e una giovane musulmana sfociata in tumulti di piazza a cui hanno preso parte centinaia e centinaia di persone, finiti con la bellezza di 14 morti e qualche centinaio di feriti. Ancora un pessimo segnale.
Questo coacervo di fattori appare di tale portata da far apparire molto arduo il cammino verso sistemi democratico/rappresentativi come li intendiamo in Europa. A seconda delle forze che prevarranno, gli scenari al momento più probabili sono quello di “democrazie totalitarie” se prevalessero le chiusure di matrice religiosa, e quello di sistemi parlamentari autoritari, in particolar modo se i militari ponessero la loro ipoteca sugli attuali processi politici. Con l’aggiunta che, restando inalterata la struttura dei ceti privilegiati (in maggioranza o parassiti agrari o borghesia compradora), indipendentemente da “chi” li componga, in ambo i casi la persistenza della corruzione diffusa sarebbe tutt’altro che sorprendente. Con quel che segue.
Abbattere dittatori non è mai facile, ma ad un certo punto diventa possibile, mentre dimensionare in modo diverso le società liberatesi di costoro non è cosa fattibile dall’oggi al domani. Inoltre sussiste sempre il rischio che lo slancio popolare si spenga (anche per il popolo c’è la difficoltà del passaggio dalla condizione di sudditi a quella di cittadini) e la delusione di massa riapra la via agli autocrati del domani.
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