La maggioranza della Cgil e l’accordo separato di Cisl e Uil
Dopo l'accordo agli stabilimenti Fiat di Pomigliano e Mirafiori, che hanno sancito per quei lavoratori la fine del Ccnl (Contratto collettivo nazionale) e dello Statuto dei lavoratori, la strategia politica della Confindustria e del Governo procede senza soste nell'estensione dei contenuti dell'accordo a tutto il resto del mondo del lavoro. Infatti, la stessa sorte – subire, cioè, un accordo capestro stile Fiat - è toccata ai lavoratori del Pubblico impiego e in questi giorni ai lavoratori del Commercio. Appare evidente che dopo il terzo accordo sindacale separato, dove Cisl e Uil dimostrano sempre di più essere complici del progetto politico messo in campo dalla Confindustria, la strategia politica decisa al congresso nazionale della Cgil di riconquistare l'unità sindacale con Cisl e Uil su basi e regole diverse da quelle definite da Cisl, Uil, Governo e Confindustria, è definitivamente tramontata.
Dopo l'accordo agli stabilimenti Fiat di Pomigliano e Mirafiori, che hanno sancito per quei lavoratori la fine del Ccnl (Contratto collettivo nazionale) e dello Statuto dei lavoratori, la strategia politica della Confindustria e del Governo procede senza soste nell'estensione dei contenuti dell'accordo a tutto il resto del mondo del lavoro. Infatti, la stessa sorte – subire, cioè, un accordo capestro stile Fiat - è toccata ai lavoratori del Pubblico impiego e in questi giorni ai lavoratori del Commercio. Appare evidente che dopo il terzo accordo sindacale separato, dove Cisl e Uil dimostrano sempre di più essere complici del progetto politico messo in campo dalla Confindustria, la strategia politica decisa al congresso nazionale della Cgil di riconquistare l'unità sindacale con Cisl e Uil su basi e regole diverse da quelle definite da Cisl, Uil, Governo e Confindustria, è definitivamente tramontata.
L'errore di analisi politica da parte della maggioranza della Cgil sull'accordo separato che Cisl e Uil hanno firmato con Governo e Confindustria sulle regole della contrattazione a gennaio del 2009 è stato quello di credere che quell'accordo - che in peggio seguiva la logica concertativa del luglio ‘93 istituendo l'Ipca [Indice dei prezzi al consumo armonizzato per i paesi dell’Unione] sul calcolo del salario e il sistema delle deroghe sulla parte normativa - sarebbe stata solamente una parentesi facilmente recuperabile e non invece un progetto politico ben preciso, funzionale al padronato per distruggere i diritti dei lavoratori e superare così la crisi economica.
Era evidente che né il Governo e la Confindustria, né tantomeno Cisl e Uil, erano disposti a mediare con la Cgil sui sacrifici che il padronato italiano chiede ai lavoratori. Semplicemente, la vecchia concertazione sindacale degli anni ‘90 e primi anni duemila, per il padronato è praticamente sepolta. Per questo al tavolo delle trattative nei confronti della Cgil, la quale era disposta a rinunciare a una parte della sua linea politica per non rimanere fuori dagli accordi sindacali (come dimostrato alla Fiat e nella trattativa del Commercio), Cisl e Uil hanno presentato il conto: o la Cgil firma tutto quanto già stabilito nelle linee guida della riforma contrattuale e riconosce gli accordi alla Fiat, oppure è fuori dal tavolo delle trattative.
Per ripararsi dalla crisi economica - che ovviamente non colpisce solo i lavoratori, ma comincia anche a minare la stabilità delle burocrazie sindacali - Cisl e Uil hanno coscientemente scelto una precisa strada da percorrere che porta dritto verso la trasformazione dal sindacato contrattuale al sindacato corporativo dei servizi. Una trasformazione che, dentro la logica degli enti bilaterali (strutture paritetiche formate da sindacalisti e rappresentanti dei padroni), fa diventare il sindacato un certificatore delle scelte legislative compiute dai governi della borghesia affossando definitivamente la contrattazione e la democrazia sindacale. Tale obbiettivo, di portare in dote al capitale la fine del sindacato contrattuale e conflittuale, Cisl e Uil l'hanno barattata con il Governo in cambio di una presenza stabile del loro apparato burocratico dentro le strutture degli enti bilaterali e dentro gli enti statali regionali dove, attraverso la gestione dei corsi di formazione, Cisl e Uil gestiscono notevoli risorse economiche che garantiscono la sopravvivenza dei privilegi dei loro parassitari apparati burocratici.
La cecità politica del gruppo dirigente di maggioranza della Cgil, che ancora oggi continua a perseguire in modo scellerato il "patto per lo sviluppo" con la Confindustria, tentando di riagganciarsi al nuovo corso della concertazione, ha consentito al Governo e al padronato di conseguire indisturbati importanti risultati che hanno determinato - con l'adozione di provvedimenti come il collegato al lavoro, la riforma contrattuale, gli accordi di Mirafiori e Pomigliano - un pauroso spostamento dei rapporti di forza tra le classi a favore del sistema delle imprese scaricando i costi della crisi economica sui lavoratori.
Il triangolo Cgil-Pd-Governo
La Cgil di Susanna Camusso, continua a fare finta che non vi sia un legame organico sul piano degli obbiettivi, tra il Governo Berlusconi e la Confindustria di Emma Marcegaglia. Tale atteggiamento politico è riconducibile al rapporto quasi strutturale che l'apparato burocratico della Cgil continua ad avere con il Pd ovvero con l'altra parte politica che organicamente rappresenta gli interessi della borghesia italiana. Infatti, come possiamo vedere e constatare, la polemica politica della Cgil è rivolta quasi esclusivamente verso le scelte compiute dal Governo in materia di lavoro come se tali scelte, che rappresentano palesemente gli interessi della Confindustria, siano compiute dal governo contro i voleri della Confindustria stessa. Su questo versante sono esplicative alcune dichiarazioni del segretario del Pd Bersani il quale asserisce che con il governo Berlusconi non si possono fare le riforme sul lavoro di cui necessita il paese.
Quali siano le "riforme" che il Pd vuole davvero realizzare, lo ha chiarito esaustivamente il suo gruppo dirigente quando sulla partita del referendum truccato di Mirafiori, quasi all'unanimità, si è schierato a favore del piano Fiat elaborato da Marchionne. In precedenza invece, aveva elaborato una proposta di legge che tuttora giace in Parlamento firmata da dirigenti del calibro di Nerozzi e Ichino, dove il Pd dichiara apertamente la sua disponibilità a discutere con Confindustria e Governo la destrutturazione completa dello Statuto dei lavoratori che verrà sostituito dallo Statuto dei lavori appoggiando in pieno la proposta Sacconi per abolire definitivamente l'art. 18.
La stessa risposta tardiva e insufficiente della Cgil recentemente proclamata dalla Camusso, che contro la logica degli accordi separati ha indetto lo sciopero generale nazionale di quattro ore che si terrà il prossimo 6 maggio, è la testimonianza oggettiva della precisa volontà politica di indirizzare la protesta dei lavoratori unicamente contro il Governo. Mentre è facilmente deducibile che le imprese non soffriranno nessun disagio da uno sciopero che non sarà in grado di paralizzare il paese come invece si dovrebbe fare. La finalità dello sciopero come del resto è già accaduto in altre occasioni, è finalizzato a convincere la Confindustria della necessità di costruire un tavolo di confronto con la Cgil per la costruzione di quel "patto per lo sviluppo" che, nelle intenzioni della Camusso, deve servire per riattivare un modello concertativo che consenta alla Cgil di moderare i sacrifici dei lavoratori senza che ciò possa costituire un ostacolo alla concorrenzialità delle aziende italiane sul mercato globale.
Passività de “La Cgil che vogliamo”
Di fronte a questo quadro, la politica della minoranza della Cgil organizzata in area programmatica denominata "La Cgil che vogliamo", rappresenta una debole risposta alla deriva imboccata al congresso di Rimini da parte del gruppo di maggioranza della Cgil che si appresta lentamente a trasformarsi in un sindacato corporativo come Cisl e Uil. D'altronde, non è un mistero per nessun lavoratore che pezzi importanti di alcune Camere del lavoro o intere categorie della Cgil, vogliono anch'esse diventare un sindacato dei servizi - sempre per tutelare gli interessi dell'apparato burocratico minacciato dalla crisi - e inseguire su questa strada Cisl e Uil.
Di fronte a questa prospettiva - che a mio avviso si potrà compiere fino in fondo solo quando al governo si determinerà un nuovo quadro politico di centrosinistra - la "Cgil che vogliamo" fino ad ora non è riuscita a prendere nessuna iniziativa concreta per frenare tale processo. Infatti, l'azione politica dell'area programmatica diretta da Rinaldini, dentro e fuori la Cgil, è praticamente inesistente. Malgrado la presenza consistente di gruppi dirigenti che fanno riferimento alla "Cgil che vogliamo" in importanti categorie - come per esempio la Funzione pubblica e la Fisac (bancari e assicurativi) - l'iniziativa politica non è andata più in la del sostegno attraverso i comunicati stampa nei confronti della battaglia sindacale condotta dalla Fiom a difesa del Ccnl e dello Statuto dei lavoratori. Anzi, in alcuni rinnovi contrattuali, i dirigenti della "Cgil che vogliamo" della Fisac hanno sottoscritto insieme al gruppo di maggioranza nella loro categoria il contestatissimo accordo Unicredit che ha determinato un peggioramento normativo e salariale per tutti i lavoratori neoassunti.
Nella Filcams, invece, dove la presenza organizzata di lavoratori e dirigenti è inferiore a quella delle altre due categorie sopracitate, nell'area programmatica "la Cgil che vogliamo" che esprime alcuni dirigenti nazionali e intermedi di categoria, si è prodotta una rottura politica tra il gruppo dirigente e la base dei lavoratori a causa della scelta operata da parte dei dirigenti di gestire unitariamente le politiche della categoria insieme alla maggioranza. Tale comportamento palesemente contraddittorio ha contribuito chiaramente ad isolare nella Cgil la battaglia della Fiom. I limiti politici dell'area programmatica continuano ad essere gli stessi limiti che hanno caratterizzato negativamente le altre esperienze delle sinistre sindacali che nel corso degli anni passati si sono determinate in Cgil.
La continua mediazione tra gruppi dirigenti e la ricerca spasmodica di incarichi sindacali denotano un modo di affrontare i problemi solo ed esclusivamente dentro il perimetro delle logiche burocratiche e di apparato. Inoltre, gran parte del gruppo dirigente della "Cgil che vogliamo", continua ad avversare qualsiasi possibilità di una convergenza politica con il sindacalismo di base precludendo così una concreta possibilità di allargamento del fronte antipadronale che possa dare un sostegno attivo e concreto di unificazione alle lotte dei lavoratori. La lenta ma inesorabile deriva della Cgil verso posizioni politiche di completa collaborazione filopadronale - con l'idea della fine del sindacato rivendicativo che si appresta ad essere metabolizzata dalla stragrande maggioranza del gruppo dirigente, dimostrando in modo sempre più palese di accettare il modello di sindacato che il capitalismo italiano richiede - è un’ulteriore dimostrazione dell'impalpabilità dell'azione sindacale del gruppo dirigente della “Cgil che vogliamo”.
Sciopero a oltranza contro la logica fallimentare degli scioperi puramente dimostrativi
Anche la stessa battaglia condotta affinché la maggioranza della Cgil proclami lo sciopero generale per l’intera giornata e senza aspettare il mese di maggio, non è sostenuta da una comprensione di come si dovrebbe condurre la lotta sindacale e gli scioperi generali in modo particolare. Si continua ad accettare, infatti, la logica degli scioperi puramente dimostrativi (e questo vale sia per la Cgil, sia per il sindacalismo di base), rifiutando di impegnarsi per la convocazione di scioperi a oltranza (scioperi generalizzati) che si concludano solo col conseguimento dell’obbiettivo o con un compromesso accettabile. Meglio uno sciopero a oltranza per un obiettivo minimo, concreto, ma che duri fino a che l’obbiettivo non viene raggiunto (dando così forza e coraggio ai lavoratori per continuare e al sindacato per crescere), che non queste proclamazioni altisonanti, con o senza adunate spettacolari, che si concludono senza il conseguimento di alcun risultato concreto.
Con questa politica degli scioperi dimostrativi, i dirigenti sindacali (e del sindacalismo di base) ottengono un’esposizione mediatica per se stessi e magari ridanno un po’ di lustro all’apparato, ma allo stesso tempo contribuiscono a demolire lo stato d’animo degli scioperanti (che tornano a casa senza risultati tangibili) e anche a svuotare le tasche (le ritenute sul salario) di quegli strati d’avanguardia che partecipano a tutti gli scioperi, pagando dei prezzi altissimi (ma anche riducendosi per numero mano a mano che continua questa politica spettacolare dimostrativa ma inconcludente).
In questi ultimi anni non sono certo mancati gli scioperi generali convocati dalla Cgil (senza contare tutti gli scioperi presuntamente “generali” convocati dal sindacalismo di base). Purtroppo, non ce n’è stato uno che sia riuscito a strappare un qualche risultato concreto per i lavoratori, sia sul terreno salariale, sia nel far ritirare al Governo le leggi sul lavoro. Questo perché la modalità con la quale gli scioperi sono stati convocati era e continua ad essere profondamente errata. Di scioperi se ne sarebbero potuti fare di meno in termini di ore perdute, ma con risultati sicuramente diversi se solo si fossero mobilitati i lavoratori su obbiettivi precisi considerati irrinunciabili (ovviamente prevedendo spazi di mediazione nella trattativa), preparandoli e chiamandoli ad una mobilitazione ad oltranza da far terminare solo quando l'obbiettivo fosse stato raggiunto.
Questa metodologia non è un parto della nostra fantasia ma è incarnata da quasi due secoli di storia del sindacalismo in Italia e nel mondo, che però in Italia non funziona più dalla metà degli anni ’70 in poi, vale a dire dagli anni in cui si è cominciato a formare l’attuale quadro dirigente della Cgil.
Caste burocratiche o autorganizzazione dal basso?
Rimango convinto, d’altro canto, che le strutture del movimento operaio dovrebbero imparare dalla borghesia come meglio si rappresentano gli interessi di classe. Difatti, mentre la borghesia riesce a coalizzarsi come classe nell'attaccare i diritti e il salario dei lavoratori, e persegue pervicacemente e senza indugi i propri obbiettivi (anche accantonando divergenze interne, come si è visto alla Mirafiori con Marchionne), la casta dirigente del movimento operaio non riesce a organizzare una resistenza politica di blocco sociale contro il padronato e i suoi governi. Non si riesce a costruire uno straccio di azione politica comune né tra le organizzazioni sindacali né tra i movimenti che in questi anni si sono contrapposti alle controriforme capitalistiche sul mercato del lavoro, della scuola e contro le privatizzazioni dei settori più o meno strategici dell'economia.
La mancanza di vittorie, sia pure parziali, sia pure minime fa sì che il movimento dei lavoratori - sul quale pesano le sconfitte subite ininterrottamente per decenni su scala nazionale e internazionale - non riesca a liberarsi dallo strapotere degli apparati burocratici per avviare un processo di autorganizzazione dal basso delle lotte. Dinnanzi all'infiammarsi della mobilitazione sociale in alcune parti dell’Europa e in Medio Oriente, la lotta di classe in Italia appare come una delle più arretrate nonostante l’alto tasso di sindacalizzazione, il numero di ore di sciopero e a fronte di un attacco padronale violento. Anche l’esperienza dei governi di centrosinistra, lungi dal favorire una crescita dell’organizzazione di classe, ha seminato demoralizzazione e ulteriore frantumazione. Un fattore, questo, che va tenuto bene a mente visto che gli stessi responsabili delle sconfitte passate continuano a proporre il ritorno a governi di collaborazione con la borghesia (quali che siano i partiti su cui si costituiranno tali governi).
Con questo orientamento prevalente nella Cgil (e a fronte dell’immobilismo in cui si trova la sua principale corrente di opposizione, la “Cgil che vogliamo”) se la lotta di classe dovesse divampare anche in Italia nei prossimi anni a causa dell'aggravarsi delle condizioni materiali e per effetto della crisi economica, non vi sono dubbi che i settori più combattivi della classe lavoratrice tenderanno a rompere con gli apparati burocratici, per adottare nuove forme di lotta. La deriva dei sindacati burocratici (Cgil compresa) verso la trasformazione in apparati di gestione corporativa e di servizi, disposti a rispondere passivamente alle esigenze del capitalismo e della sua crisi, non lascerà alternativa ai lavoratori che costruire strutture autorganizzate, sulle quali il sindacato dovrà decidere di fondarsi se non vorrà scomparire. Occorre quindi impegnarsi perché queste strutture abbiano fin dalla nascita un carattere consiliare e antiburocratico. Questo è il sindacalismo che vogliamo…
Andrea Furlan
Direttivo Filcams Cgil - Roma Centro "La Cgil che vogliamo"