Attualmente la
situazione politica è tale che l’unico paese arabo in qualche modo definibile
“democratico” è il Libano, per quanto per i nostri standard in realtà si tratti
di una democrazia assai imperfetta, quanto meno a motivo dei vincoli
confessionali sanciti costituzionalmente - e questo dice molto.
Se qui ci occupiamo
del mondo arabo non è per semplificazione, e ancor meno per volerlo considerare
esponenziale dell’Islam, ma perché il deficit democratico è principalmente arabo piuttosto che strettamente
musulmano. Sarebbe fuorviante ritenere che il resto del mondo musulmano
presenti le condizioni democraticamente disastrose di paesi come Pakistan e
Afghanistan (sull’Iran si dovrebbe fare un discorso a parte, poiché lì, detto
in sintesi, siamo di fronte a una “democrazia totalitaria”). Ci sono infatti
anche dei paesi islamici che, per quanto suscettibili di un’infinità di
considerazioni critiche, tutto sommato sembrano dei paradisi politici se paragonati all’insieme
dei paesi arabi: si pensi alla Turchia, alla Malaysia, all’Indonesia, al
Senegal, all’Albania. I paesi ex coloniali dell’Africa costituiscono tutti dei
casi a parte, per specifiche ragioni storiche ed etniche.
Prima di procedere,
un’ulteriore avvertenza: pur essendo ormai abituale parlare di “paesi arabi”,
tuttavia si tratta di un’espressione erronea, giacché i popoli etnicamente
arabi vivono essenzialmente nella Penisola arabica, in Giordania e in parte in Iraq.
Per il resto esiste una mistura etnica tale da risultare ben più corretta
l’espressione “paesi arabofoni” (circa 200 milioni di persone).
Scrittura e lingua come barriere antipopolari
Per quanto la cosa
possa sembrare sconcertante, in realtà ha una rilevanza tutt’altro che
secondaria, al punto che taluni intellettuali arabi vi vedono addirittura la
fonte di quell’arretratezza culturale che alimenta l’arretratezza politica e,
in definitiva, lo stato critico delle loro società. Nell’Occidente europeo, e
sul piano culturale, il processo di formazione di quella che chiamiamo “società
civile” non si è avvalso tanto dell’esistenza di varie persone colte, dei loro
circoli e delle loro università, quanto e soprattutto della circolazione e
diffusione delle idee, favorite dalle caratteristiche della scrittura e delle
lingue, e poi dalla stampa. Ciò vuol dire che la circolazione delle idee a
livello diffuso da noi è iniziata davvero con le pubblicazioni - utilizzanti un
alfabeto tecnicamente semplice come quello latino - in lingue “volgari”;
cioè lingua locali in grado di diventare
strumento di comunicazione di massa, idonea a coinvolgere quanti sapevano
leggere e non facevano necessariamente parte dei circoli degli intellettuali
“praticanti”. Tale indispensabile presupposto è mancato invece nel mondo arabo,
e per lo più manca tuttora. Si tratta di un aspetto che in genere “specialisti”
e commentatori erroneamente non prendono in considerazione.
Ai fini del
mantenimento dell’assetto autocratico i governanti hanno accuratamente
conservato una caratteristica preislamica del Vicino Oriente e dell’Egitto: la
scrittura e la lingua come barriere per impedire un’emancipazione culturale
estesa, e quindi il pericoloso virus del pensiero autonomo.
La prima barriera
sta nella scrittura araba. Non perché l’alfabeto arabo sia particolarmente
difficile da imparare, per quanto tecnicamente più complesso dell’alfabeto
latino; ma perché - a parte il Corano e i libri infantili - si usa scrivere
solo le consonanti (sono 28, comprensive di quelle che foneticamente sono
definite vocali lunghe). Le 3 vocali (brevi) della fonetica sono omesse nella
scrittura. L’elemento aggravante è dato dal fatto che da una determinata radice
(fatta di sole consonanti, ovviamente) derivano parole e verbi nella stessa
fascia di significato. Ne deriva l’esistenza di una serie di gruppi di
consonanti identici, ma dal significato variabile a seconda delle vocali che vi
si inseriscano. Per capire un testo qualsiasi il lettore deve conoscere quali
siano le vocali inseribili in un determinato gruppo consonantico e sceglierle
sulla base della comprensione del contesto. Il quale, però, è fatto ugualmente
di soli gruppi di consonanti! Un esempio per capirci: la parola ktb può voler dire kitab (libro), kâtibu (scrittore),
kataba (egli ha scritto), katb (scrittura) e così via. Se non si
possiede un certo livello di erudizione la predetta capacità di intuizione
risulta azzerata. Poiché pure i giornali sono scritti con questo non-agevole
sistema, l’entità del problema è chiara.
Le barriera linguistica
E poi c’è la
barriera della lingua vera e propria, cosa che da noi i più non si
aspetterebbero, giacché per luogo comune nei paesi arabi si parla… arabo.
Magari! In realtà in quelle regioni è generalizzato il fenomeno della diglossia (duplicità di lingua), nella
realtà diventata triglossia, giacché
quando si parla genericamente di lingua araba si deve aver chiaro che in uno
stesso paese esistono tre distinte forme di arabo: l’arabo classico, i dialetti
locali e l’arabo standard moderno.
L’elemento
linguistico che accomuna (formalmente) il mondo arabo è l’arabo classico,
lingua semita fortemente imparentata con l’ebraico e l’aramaico. Si basa su
quella che in origine era la lingua parlata dalla tribù dei Quraish della Mecca, cui apparteneva
Muhammad, e nella quale è scritto il Corano. Le conquiste islamiche nel Vicino
Oriente e nell’Africa settentrionale hanno diffuso questa lingua che ha dato
espressione a tutte le opere poetiche e colte della civiltà arabo-islamica, ed
è a tutt’oggi la lingua della cultura e delle professioni liberali. Una lingua
che da 15 secoli non ha subìto modifica alcuna, ha una grammatica notevolmente
complicata e un lessico incredibilmente tanto ricco quanto avulso dalla vita
moderna/contemporanea. Per quanto l’arabo classico sia la lingua delle persone
colte, sono in pochissimi a padroneggiarla senza svarioni, e comunque non la
conosce affatto come minimo il 50% degli Arabi (anche perché è questo il tasso
attuale di analfabetismo).
Trattandosi di una
lingua che nel complesso è reale strumento di comunicazione solo per i membri
di un’élite ristretta, la comunicazione quotidiana e informale - cioè la vera
comunicazione di massa - da secoli si avvale dei “dialetti locali”, che in
realtà sono vere e proprie lingue derivate dall’arabo classico (così come dal
latino sono nate le lingue neolatine), e sovente diverse da regione a regione
dello stesso paese (per esempio il dialetto di Damasco non è lo stesso di
Aleppo). Si tratta di lingue non scritte, che si apprendono in famiglia, ma che
non hanno posto nelle scuole, nemmeno nelle materne e nelle primarie, essendo
considerate ufficialmente delle lingue imperfette. Concezione diffusasi anche a
livello popolare, cioè presso le “vittime”.
Se una persona sa
solo l’arabo classico è certo che la gente del popolo non lo capirà, ma il
problema della comunicazione riguarda pure i dialetti: per esempio, un
marocchino e un egiziano che fra loro usassero le rispettive parlate non si
capirebbero affatto, a motivo di una diversità linguistica paragonabile a
quella fra italiano e rumeno. Oggi la cinematografia e la televisione hanno
aumentato la comprensione dei dialetti egiziano e siriano, ma nell’insieme la
situazione non è variata di molto. Non è quindi casuale o erroneo che
nell’edizione 2001 del World Almanac and
Book of Facts per la prima volta sia stato escluso l’arabo (cioè quello
classico) dalle 15 lingue più parlate nel mondo, mentre nel settore delle
lingue parlate da più di 2.000.000 di persone siano stati inseriti i vari
dialetti arabi.
Poiché - come detto
- l’arabo classico in realtà è conosciuto bene solo da pochi, le persone colte
per capirsi fra loro imparano e usano il cosiddetto “arabo standard moderno”,
cioè una leggera semplificazione dell’arabo classico, oggi prevalente nei
giornali arabi, nelle istituzioni e nella letteratura non-religiosa. Tuttavia
sia dall’arabo classico sia dall’arabo standard la gente del popolo che non
abbia continuato adeguatamente gli studi è sostanzialmente tagliata fuori e (a
parte il problema dei soldi per comprare i libri) non può accedere alle opere
prodotte nel proprio paese, a quelle straniere tradotte e quindi alle idee ivi
contenute.
Dalla linguistica
colta vengono ricavati molti termini usati per tradurre concetti politici
moderni derivati dall’Occidente, ma con il limite della mancanza di vera
corrispondenza fra questi ultimi e una lingua dal lessico antico che ha
centinaia di vocaboli per indicare il dromedario e specificarne le caratteristiche,
ma pressoché niente per aspetti politici essenziali. Ne deriva che le
traduzioni di termini riguardanti la teoria e la pratica politica di un paese
moderno sono inadeguate e fanno pensare al noto aforisma secondo cui chi parla
male pensa anche male. Alcuni esempi: la politica è siyâsa, parola che implica però il guidare e il condurre; per la
sovranità si fa ricorso a siyâda, che
vuol dire padronanza; la cosa pubblica è al
maslaha al’âmma, cioè interesse comune; cittadino non ha un vero
equivalente, perché la parola usata - muwâtin
- vuole dire in realtà compatriota. E fermiamoci qui per non
appesantire.
La non-risolvibilità attuale del problema della
comunicazione linguistica
Nel 2006 Sherif
Shubashy, viceministro egiziano della Cultura, si dovette dimettere dalla
carica per le tempestose reazioni dei tradizionalisti e degli ambienti
religiosi a un suo libro che metteva in evidenza il problema affrontato nel
paragrafo precedente e chiedeva un’accorta semplificazione linguistica.
Nell’Impero ottomano un fenomeno analogo è esistito fino ai primi degli anni
’20 del secolo scorso. Pure lì esisteva la diglossia, con la corte del Sultano
e le persone colte che parlavano e scrivevano in lingua ottomana (un misto di
arabo, persiano e turco, con strutture grammaticali e sintattiche di origine
arabo/iranica) e usavano l’alfabeto arabo. Il tutto era incomprensibile per il
popolo. Mustafá Kemal Atatürk fece piazza pulita, introducendo l’alfabeto
latino, bandendo la lingua ottomana e sostituendola col volgare turco, depurato
dalle strutture e parole arabe e persiane. A dire il vero un rovescio della
medaglia c’è stato, giacché tutta la documentazione e il patrimonio culturale
scritti in ottomano sono andati perduti per il comune cittadino turco, diventando
oggetto di studio per pochi specialisti; tuttavia, in questo modo la Turchia
non solo è entrata a far parte del circuito comunicativo del mondo
contemporaneo, ma altresì ha eliminato per la popolazione le barriere di
scrittura e lingua e il loro deleterio potere.
L’impresa di
Atatürk non era e non è riproducibile nel mondo arabo, e d’altro canto si è
avvalsa di condizioni particolari e specifiche solo della Turchia e della
situazione creatasi con la sconfitta nella Prima guerra mondiale. Quel periodo
è stato l’epoca aurea del nazionalismo turco, forte della vittoria nella guerra
d’Indipendenza contro la Grecia alleata della Gran Bretagna, dell’abbattimento
del sultanato e del califfato islamico. Le proteste alle innovazioni venivano
solo dai settori reazionari, peraltro sconfitti in quella fase. Tutt’altra cosa
nel mondo arabo. Innanzi tutto nei governanti troviamo l’assoluta mancanza di
interesse pratico a cambiare la situazione. Il vero problema sta qui, più che
nella forte opposizione degli ambienti tradizionalisti religiosi (e oggi dei
radicali salafiti), basata sull’essere alfabeto arabo e arabo classico la
scrittura e la lingua del Corano. Siffatta motivazione sarebbe però facilmente
aggirabile da parte di governanti che avessero a cuore lo sviluppo dei propri
paesi; aggirabile e ribaltabile, giacché si potrebbe sostenere che proprio a
causa di tale sacralità di scrittura e lingua sarebbe meglio evitarne l’uso in
scritti profani, o comunque diversi dalla parola di Dio.
Un’altra
consistente opposizione viene dagli ambienti intellettuali gelosi della propria
superiorità; essa è motivata diversamente, in quanto per costoro si tratta di
mantenere - con la conoscenza e l’uso (più o meno corretto) dell’arabo classico
- uno strumento di potere e di esclusione per gli altri. Comunque questo
insieme fa sì che le cose continueranno inalterate per un tempo ancora
indefinibile e le persone di cultura non dovranno cessare di imparare - come
strumento indispensabile - una o più lingue europee, sperando poi di trovare in
loco i libri che servono e di non ricevere una visitina della polizia qualora
dispongano di televisione satellitare.
Censura e analfabetismo di ritorno
I problemi, ad ogni
modo, non stanno solo nella scrittura e nella lingua. C’è anche da considerare
la deleteria e durevole influenza dei regimi autocratici (laici o religiosi che
siano) sulla diffusione della cultura e sull’insegnamento scolastico,
soprattutto universitario. L’esercizio della censura e le persecuzioni (ben
maggiori rispetto al periodo coloniale) verso i liberi pensatori hanno creato e
consolidato l’intuibile danno di una certa sclerosi culturale. Essa si riflette
nel desolante panorama statistico del raffronto fra il volume di traduzioni
effettuate annualmente in un qualsiasi paese europeo e quello (ai minimi
termini) annualmente realizzato nell’intero mondo arabo.
Circa
l’insegnamento universitario valga per tutti un solo esempio, l’Egitto di
Nasser: le università egiziane sono state di ottimo livello fino al golpe
militare che nel luglio del 1952 depose re Faruk. Dopo, nello spazio di un
mattino, Nasser fece espellere dall’insegnamento ben 60 professori
universitari, distruggendo così l’educazione superiore del paese, emarginò i
grandi scrittori e nazionalizzò giornali e case editrici per non avere problemi
di critica dall’interno. Da questo degrado non ci si è più sollevati. Si
capisce quindi come mai nessuno scrittore arabo tragga guadagni decenti dalla
pubblicazione delle proprie opere, a meno che esse non vengano tradotte
all’estero.
Non deve neppure
essere trascurata la specificità delle condizioni sociali delle popolazioni. Se
è vero che nel mondo arabo si legge assai poco, si deve considerare - oltre a
quanto finora detto sul problema culturale - che leggere libri implica disponibilità
di tempo e denaro. La povertà dilagante porta a privilegiare il soddisfacimento
della sopravvivenza quotidiana. Esigenza che coinvolge anche diplomati e
laureati, che il mercato locale del lavoro non è assolutamente in grado di
inserire e in cui s entra disponendo di appoggi familiari e clientelari, vuoi
politici vuoi tribali. Quindi non devono ingannare le statistiche ufficiali che
alzano i tassi di alfabetizzazione limitandosi a considerare solo chi ha
compiuto la scuola dell’obbligo, ma senza considerare l’analfabetismo di
ritorno.
Alla origini dell’autocrazia araba
Con la morte del
profeta Muhammad - la cui grande autorità era transitoria, cioè legata alla sua
permanenza in vita - l’Islam avrebbe dovuto essere vissuto come una fede non
istituzionalizzata sotto un’autorità religiosa. Invece è avvenuto il contrario.
Sul piano storico la ricorrente citazione occidentale di una mancanza di
separazione tra sfera politica e sfera religiosa nell’Islam è una pista che non
porta da nessuna parte, per il semplice motivo che nel mondo arabo-musulmano le
due sfere in realtà sono distinguibili, quand’anche riunibili a seconda delle
circostanze. Non va trascurato che da tempo immemorabile esistono due tipi di
norme giuridiche: quelle religiose della sharía
e quelle civili emanate dai governanti temporali, il kanûn. Sultani, Padisha, Emiri e Capi di Stato non sono figure
religiose, quand’anche il potere politico si sia sempre voluto collegare con la
sfera religiosa per colmare vuoti di legittimità (o dubbie legittimità) e per
ragioni di dominio. D’altro canto il Corano, riflettendo per forza di cose la
natura e le situazioni delle società e degli esseri umani nella penisola araba
di quel tempo - allorquando lo Stato ancora non esisteva - non ne preannunciò
la sua futura costituzione e inoltre nulla dice circa le strutture e le
modalità di gestione di una società organizzata politicamente. Talché possiamo
tranquillamente dire che nella ricerca delle origini dell’autocrazia araba si
trovano elementi e situazioni preesistenti all’avvento dell’Islam, e poi
assorbiti.
La creazione di
strutture politiche inglobanti la società, o a essa sovrapposte, è
essenzialmente cominciata dopo la morte di Muhammad, come esigenza prodotta
dalla grande espansione territoriale armata dell’Islam. Parallelamente c’era
stata la scelta di personaggi di vertice quali successori del Profeta. E
“califfo” (khalifa) vuol dire proprio
questo. Si tratta di un’istituzione priva di basi coraniche, non necessaria
alla vita delle comunità musulmane, ma all’epoca ritenuta fondamentale per il
mantenimento della compattezza (innanzi tutto politica) della comunità islamica
in espansione. Il califfo era nello stesso tempo massima autorità spirituale e
capo politico. Questo (semplifichiamo un po’) è durato fino al declino del
califfato abasside di Baghdad, per il fatto che obtorto collo i califfi - ormai indeboliti politicamente e
militarmente - furono costretti a conferire l’autorità politica (il sultanato)
a capi militari turchi, le cui truppe costituivano ben più del nerbo degli
eserciti califfali.
I primi Califfi,
però, erano espressione o di piccole città mercantili - isole in un mondo
beduino, e quindi nulla sapevano di come organizzare istituzionalmente un
impero. Per colmare la lacuna dovettero avvalersi di quanto a loro
disposizione, cioè imitare le strutture degli imperi con cui erano venuti a
contatto: Bisanzio e la Persia sassanide. Cioè due realtà fortemente
autocratiche, con monarchie sacralizzate e propense a strumentalizzare e
subordinare il fatto religioso. Quindi nel neonato mondo islamico il califfo
assunse prestissimo connotazioni bizantino-persiane a corredo delle sue dubbie
connotazioni islamiche di base. Infatti, se è vero che Muhammad era stato nello
stesso tempo guida religiosa e capo della comunità musulmana (umma), tuttavia per il fatto di chiudere
una catena di profeti, a stretto rigore non avrebbe dovuto avere successori per
lo meno nella funzione religiosa. Da qui l’arbitrarietà dell’autorità religiosa
dei califfi.
I caratteri delle
monarchie bizantina e persiana - “opportunamente” prese a modello - implicavano
però che il califfo non potesse limitarsi alla guida temporale; e infatti fu l’amir al-muminin (commendatore dei
credenti). Comunque non si ebbe la subordinazione della sfera politica a quella
religiosa, bensì avvenne il contrario: nelle società arabo-islamiche fu il
potere temporale a subordinare a sé la sfera spirituale. Sintomatico che i
giudici della sharía e i predicatori
delle grandi moschee vennero nominati, pagati (e puniti, se riottosi) dal
potere temporale. Esso ha anche inventato le cosiddette “massime autorità
religiose”, indipendentemente dal fatto che l’Islam dovrebbe essere una
religione non istituzionalizzata, e quindi senza clero né autorità. Questa
situazione non è mai venuta meno: dai Califfi si passò ai Sultani, agli Emiri,
ai Capi di Stato, ma nulla è cambiato. Giustamente lo psicanalista egiziano
Mustafá Safuan ha notato che sarebbe più giusto dire che l’Islam è stato
vittima delle nazioni che ha invaso, a loro volta vittime di regimi e
amministrazioni il cui unico intento era realizzare il dominio del potere
politico su tutti gli aspetti della vita.
Va poi considerata
la situazione storico-politica dei paesi arabi prima e dopo la Prima guerra
mondiale. Prima di essa la pratica della democrazia borghese era sconosciuta:
il Marocco era una monarchia assoluta attaccata dal colonialismo
franco-spagnolo; l’Algeria e la Tunisia erano possedimenti francesi; l’Egitto
era protettorato britannico; la Libia era in mani italiane; il resto faceva
parte dell’Impero ottomano dove un processo democratico muoveva i primi incerti
passi essenzialmente a Costantinopoli, ma nelle provincie i governatori non
sapevano nemmeno cosa fosse. Dopo la Grande guerra il mondo arabo è stato tutto
diviso fra Gran Bretagna e Francia (a parte Arabia Saudita e Yemen, retti da
monarchie assolute). Ovviamente il dominio europeo non è stato una scuola di
democrazia, bensì di pratiche autoritarie. E ormai è risaputo ai più che la
democrazia rappresentativa richiede, per il suo consolidamento, un lungo
periodo di pratica autoctona. Cosa che non c’è stata dopo il conseguimento
dell’indipendenza. Forse sarebbe stato possibile in Egitto dare luogo a un
nuovo corso rispetto all’insieme dei paesi arabi mediante il partito Wafd, per quanto la corruzione che anche
lì allignava non facilitasse le cose. Comunque, il colpo di stato militare di
Nasser ha messo un punto finale sulla questione.
Utilizzando forza
bruta e religione, il potere temporale arabo ha anche impedito la formazione di
quella che noi chiamiamo “società civile”, con tutto quel che ne segue ai fini
di una più o meno corretta democrazia rappresentativa.
Negli Stati arabi gli apparati a sostegno dell’autocrazia
sono tra i più efficienti e finanziati al mondo, e i loro mukhabarat (strutture
di intelligence interna ed esterna) non
solo “sono dappertutto”, dispongono di eccezionali strutture tecnologiche e in
pratica fanno quello che vogliono ai cittadini indifesi di fronte a loro, ma
altresì possono sempre contare sulla collaborazione dei similari apparati delle
nostre democrazie occidentali. Naturalmente ciò non impedisce - per varie
motivazioni e situazioni - che nelle popolazioni dominate si verifichino improvvise
cadute della soglia del timore, e allora si hanno le sommosse, più o meno
vaste, più o meno capaci di far cadere un governo, ma mai di determinare il
crollo delle strutture di regime: quindi senza che esse si risolvano in
rivoluzioni.
In
linea di massima lo Stato arabo controlla istituzionalmente la religione,
mediante ministeri all’uopo istituiti. Abbiamo il ministero degli Affari Islamici,
con compito di costruire e mantenere le moschee, di controllare i predicatori e
di nazionalizzare periodicamente le moschee private; e il ministero dell’Istruzione
che cura il contenuto dei manuali islamici destinati all'ora di religione nelle
scuole statali. In oltre sono i governi a nominare il Gran Muftì (supremo
giudice religioso) e i membri dei comitati superiori per gli affari islamici.
Già con
l’istituzione del califfato e poi col pervasivo ruolo acquisito dalla categoria
dei dottori della Legge (gli ulamâ)
si era verificata una sorta di istituzionalizzazione del potere spirituale, in
termini più di dominio che di potere in senso stretto, con la conseguenza della
socializzazione/laicizzazione di un ambito che avrebbe dovuto essere e restare
spirituale. Da qui l’ulteriore e inevitabile conseguenza dell’assurgere in
primo piano dell’imperativo sociale di norme aventi base e finalità religiose
sono divenute invece essenzialmente sociali. Non rispettarle pone in essere una
devianza che è lesiva insieme di società e fede. E, tutto sommato,
immediatamente lesiva della società e quindi della fede. Come segno di religiosità
si è così privilegiato, assolutizzato e sanzionato il rispetto di norme e
precetti che, fra quelli coranici e quelli prodotti dalla giurisprudenza della sharía non sono pochi, giacché una
rilevante componente dell’Islam - come dell’Ebraismo - è fatta di norme
inerenti al vivere socio/famigliare. In questo senso ha molto giocato la
mentalità indotta dagli Arabi nel corso dei secoli, la quale privilegia come
non mai l’esteriorità, che nel caso in specie diventa il diffuso rispetto di
certe pratiche formali e delle tradizioni socio/famigliari legate alla
religione.
Il problema della democrazia
La degradazione
culturale derivante dal controllo statale e il disastro politico si sono
ovviamente accresciuti in conseguenza della globalizzazione, che ha investito
la vita di tutti i giorni in ogni suo aspetto, sconvolgendo abitudini e
tradizioni. Si è realizzata una situazione complessiva per cui - come ha
sottolineato Fu’aad Zakariyya - le masse popolari sono portate a intendere il
futuro solo come ritorno a un glorioso passato, con la conseguenza di perdere
di vista la potenzialità delle prospettive a venire; e il presente si
pietrifica nella glorificazione del passato come idoneo a lenire le ferite
dell’oggi. In una tale dimensione psicologica non stupiscono le brecce aperte
dal radicalismo religioso e politico, che nelle sue componenti più estreme
teorizza proprio la riproposizione del passato come realtà palingenetica. In un
tale ambiente è facile per i partiti religiosi candidarsi per il potere e poi
assurgere a nuovi tiranni.
A questo punto va
posta in tutta la sua pienezza il problema della democrazia araba, di cui
l’Occidente si limita ad apprezzare solo la pratica formale delle elezioni. In
un romanzo dell’egiziano Tawfiq al-Hakîm compare un commissario di polizia di
un villaggio dell’interno che da un lato si vanta di garantire il libero
esercizio del voto e dall’altro, dopo le votazioni, distrugge le schede e le
sostituisce con quelle opportunamente votate da lui e dai suoi compari. La
democrazia borghese si basa sui concetti di nazione e di cittadino, che non è
facile individuare nella dimensione politica dei paesi arabi, dove spesso e
volentieri si intende la democrazia come shûra,
cosa erronea ed equivoca. La shûra,
infatti, non solo è un organismo consultivo tribale, ma altresì rientra nel
quadro di una forma di governo in cui il governante agisce come titolare di una
curatela sul popolo; concetto del tutto contrario alla teoria politica della
democrazia borghese. La concezione per cui il cittadino non deve ignorare la
legge (qui lasciamo da parte la critica che se ne può fare) risponde proprio
all’esigenza teorica di una cittadinanza in grado di intervenire con autonomia
nell’azione politica.
L’azione
brutalmente repressiva dei regimi arabi ha fortemente inciso sulla mentalità
spicciola delle persone favorendo la rassegnazione e scoraggiando l’assunzione
di responsabilità personali. L’inshallah
(se Dio vuole) ripetuto in ogni circostanza, soprattutto quando si assume un
impegno, lo attesta al di là dell’aspetto formalmente fideistico. Del pari è
significativo che nel parlar comune egiziano una delle espressioni più usate
sia taqriban (all’incirca,
pressoché); notava Mustafá Safuan che questa è la risposta che si riceve anche
dopo aver domandato se Tizio si trova in ufficio!
La prospettiva
dello Stato islamico non risolve nulla, bensì mantiene le masse nell’identica
condizione subordinata, giacché si basa sulla mistificazione che Dio avrebbe
delegato la conoscenza della Verità globale ai reggitori di esso. Nulla di
diverso dalle situazioni attuali, non essendovi reggitore arabo che non
pretenda di far risalire (o derivare) il suo potere da un principio superiore,
divino o laico che sia.
Popoli tagliati
fuori dai circuiti culturali produttori di idee e altresì senza che da essi
derivi una “atmosfera” diffusa la quale, pur banalizzandone i contenuti,
comunque in certo qual modo ne sedimenti qualcosa negli immaginari collettivi;
popoli sotto una pesante influenza religiosa che politicamente dà ai governanti
come punto di forza un detto del profeta (opportunamente non interpretato)
secondo cui si deve ubbidire a chi ha la carica della direzione (ûlû al-amr); popoli che a buon bisogno
nemmeno sono in grado di capire il Corano che leggono; popoli senza coscienza
di classe, ragion per cui la stragrande maggioranza dei lavoratori non ha idea
di percepire un salario a cui ha diritto, ma
ritiene di riceve quanto Dio si degna di fargli avere; popoli che vedono
i propri bisogni sociali negletti dai governanti mentre organizzazioni
islamiche (come la Fratellanza Musulmana) si danno da fare per una loro
soluzione seppur parziale e temporanea; popoli che vedono i propri governanti
umiliarsi di fronte agli Stati Uniti la cui retribuzione per tale umiliazione è
la garanzia di indifferenza alla corruzione e alle ingiustizie; popoli educati
a non pensare, di modo che l’adesione alla democrazia borghese (ovvero il
sentirla come esigenza) riguarda solo una minoranza acculturata; popoli in
questa situazione, quindi, perché non dovrebbero vedere nell’Islam l’ultimo
ideale rimasto e conseguibile, almeno fino a che non sentano sulla loro pelle
l’incapacità operativa dei governi islamici?
Per finire, ma non da ultima, l’economia
I sistemi economici
dei paesi in questione sono socialmente disastrosi, ricchi solo di deficit
strutturali e nell’insieme in situazione di stretta dipendenza dall’Occidente,
talché le economie arabe sono prevalentemente di esportazione di materie prime
e di consumo. Hanno fatto assai bene a pochi e molto male ai popoli le scelte,
imposte dall’Occidente ai governi arabi “amici”, in favore del neoliberalismo
col suo corredo di privatizzazioni, di apertura ai capitali stranieri, di
rinuncia a qualsiasi intervento di pianificazione e di massiccia disoccupazione.
Dall’emigrazione che essa produce derivano problemi notevoli di depauperamento
socio/culturale, venendo meno settori interi della classe media e della
potenziale futura classe dirigente. Ad avvantaggiarsene nel breve tempo è
naturalmente l’autocrazia locale
A quanto sopra si
aggiunga la fondamentale scarsità delle risorse idriche. Certi paesi fanno
ricorso agli impianti di desalinizzazione, tuttavia si tratta di una tecnologia
costosa e attualmente non in grado di fornire una soluzione globale al problema.
Non ci si deve quindi meravigliare se l’autosufficienza alimentare resta ancora
un miraggio, e si deve ricorrere all’importazione, soluzione non certo a
buon mercato. La mancanza di un vero
sistema industriale autoctono è un ulteriore aspetto del problema economico, e
ancora una volta si deve ricorrere alle importazioni. Il che non riguarda solo
i beni strumentali, o certi prodotti finiti, ma altresì tutto quanto riguarda
la produzione e distribuzione di energia, i trasporti, le comunicazioni, energia,
i macchinari per costruzioni, ecc. Inoltre laddove sussistono realtà
industriali produttive di beni e servizi esse devono fare i conti con la
mancanza di mano d’opera qualificata; deficit che si intreccia col problema
tragico, cronico e crescente della disoccupazione di massa. Tanto più che le
società dell’interno – arcaicamente contadine e tradizionali – sono scollegate
rispetto ai settori industriali esistenti e in un certo modo è prevalente
l’autoconsumo.
È utile ricordare che ben 11 Stati arabi - sono 16 in tutto - hanno
un’economia incentrata sulla esportazione di gas e petrolio, e i relativi
introiti incidono nell’ambito di quelli da esportazione per una percentuale che
va dal 70 al 90. Il grande e lucroso business
energetico è avvenuto in questi paesi nella totale inesistenza di un apparato
industriale e di un sistema fiscale decente, di modo che è questo vuoto a
legittimare quanti parlano di “maledizione del petrolio” nei paesi non
sviluppati. Qui la produzione di ricchezze enormi (di cui si appropriano in
pochi o pochissimi), in classi dirigenti avide e miopi fa sì che non ci si
preoccupi di incrementare gli
investimenti industriali e agricoli, fino a impedire lo sviluppo di tali
due settori. Alla già citata sostanziale inesistenza della cosiddetta “società
civile” si deve aggiungere che nei paesi arabi le economie di mercato lasciano
a dir poco perplessi, non esistendo un’imprenditorialità autonoma, che cioè
produca e distribuisca in virtù della propria forza economica e della propria
capacità organizzativa. Gli operatori economici, nella stragrande maggioranza,
o dipendono dallo Stato e dal settore petrolifero, o sono a essi collegati, o
rappresentano imprese estere; e in genere non hanno a che fare con il rischio
di impresa. Infine Stato petrolifero vuole dire Stato fortemente centralizzato,
con una burocrazia tanto pletorica quanto corrotta, e un apparato poliziesco di
tutto rispetto.
Ai fini di un netto cambiamento della
situazione non c’è da fare affidamento sui governi del network della
Fratellanza Musulmana, perché il loro vecchio slogan “la soluzione è l’Islam”si
va rivelando per quello che è: un’esca per i gonzi. I Fratelli non hanno alcuna
intenzione di ostacolare il capitalismo selvaggio, in quanto fautori della
libera impresa e delle ristrutturazioni del neoliberalismo, e ormai in
posizione per fare propri politicamente (e non solo) gli interessi del
capitalismo arabo (di tutto, anche quello compromesso con i vecchi regimi),
indipendentemente dal fatto che si tratti di un capitalismo speculatore. A motivo dello stato attuale delle economie
dei loro paesi ricorreranno certamente ai prestiti internazionali, cosa che
provocherà le notorie conseguenze: riduzioni di salari e pensioni, mancanze di
garanzie per il lavoro e per l’azione sindacale (non che oggi ce ne siano
molte!), e così via. Gli apologeti parlano e riparlano di “capitalismo
musulmano” a beneficio dei loro credenti, ma di musulmano non si capisce cosa
ci sia, mentre resta ben saldo il capitalismo, e della specie peggiore.
Purtroppo tutto dà ragione all’orientalista Maxime Rodinson,
che nel 2004 si espresse sull’integralismo islamico rilevando che esso
«(…) è un movimento temporaneo, transitorio, ma può durare ancora trenta o cinquanta anni – non so. Nei luoghi in cui non sia al potere, si manterrà come ideale fintanto che si abbia questa frustrazione di base, questa insoddisfazione che porta le persone a compromettersi con l’estremo. È necessaria una lunga esperienza di clericalismo per disgustare (…). Questo periodo sarà dominato, per molto tempo, dai fondamentalisti musulmani. Se un regime fondamentalista musulmano registrasse fallimenti molto visibili, anche nel campo del nazionalismo, e portasse a una manifesta tirannia, questo potrà indurre molte persone a orientarsi verso una soluzione alternativa che ne denunci i difetti. Ma sarà necessario avere una soluzione credibile, entusiasmante capace di mobilitare – e questo non sarà facile».
E dall’Occidente può venire solo il peggio
I settori del mondo
arabo che sono consapevoli delle negatività sopra evidenziate non hanno
ricevuto, e non riceveranno, dall’Occidente alcun appoggio concreto e
utilizzabile; ciò in primo luogo per quanto riguarda gli Stati Uniti (pur a
prescindere dalla brutta immagine di questo paese tra gli Arabi). La risposta
del perché agli Stati Uniti (e ai loro corifei occidentali) gli innovatori
arabi non interessano affatto, anzi!, la dà Samuel Huntington nel suo The clash of civilizations and the
remaking of world order (ed. italiana, Lo scontro delle civiltà e il nuovo
ordine mondiale,
Garzanti, Milano 2000) Nel suo libro infatti chiarisce
quale sia il vero nemico strategico di tutte le società occidentali: non già
gli estremisti islamici, bensì l’Islam in quantio tale. Da qui lo scontro tra
civiltà, considerando l’Occidente e l’Islam contenitori di differenti “universi
di valore”.
La tesi di
Huntington contiene un corollario che i fatti attestano essere stato
concretamente recepito dalla Casa Bianca per la sua politica estera: se l’Islam
è nemico strategico, un alleato tattico possono essere proprio i gruppi
radicali islamici. Lasciamo stare l’ormai abusato precedente dell’Afghanistan,
o ancor prima l’appoggio dato negli anni ’50 ’60 ai Fratelli Musulmani d’Egitto
da Usa e Gran Bretagna in funzione antinasseriana, e pensiamo invece a qualcosa di più recente,
come l’appoggio ai Wahhabiti in Bosnia, Kossovo e Caucaso, per finire con i pasticci libico e siriano.
Effettivamente il radicalismo islamista, opponendosi a
tutte le componenti e forme di Islam non collimanti con le sue teorie, lo
destabilizza nell’insieme, lo mette globalmente in cattiva luce e inoltre
impedisce qualsiasi azione dei gruppi innovatori che, in caso di successo,
rafforzerebbero l’asserito vero nemico strategico degli Usa. Non vi è dubbio,
infatti, che una riscossa degli “innovatori” potrebbe avviare di nuovo le
società arabe (dopo i tentativi compiuti fra la seconda metà del sec. XIX e la
prima del sec. XX) verso una seconda fase della nahda (rinascita), con tutto ciò che di globalmente positivo ne
deriverebbe per i diretti interessati.
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