CONTENUTI DEL BLOG

martedì 26 febbraio 2013

I RISULTATI ELETTORALI CONFERMANO E ACCELERANO IL DISFACIMENTO DEL SISTEMA PARLAMENTARE ITALIANO, di Michele Nobile

In modo che può dirsi esplosivo, queste elezioni hanno confermato la tendenza emergente negli ultimi anni: quasi 12 milioni di cittadini si sono rifiutati di baciare la mano che li ha bastonati e che continuerà a farlo, se infine non sarà fermata.
Sulle politiche del 2008 gli astenuti sono aumentati di oltre un milione e mezzo. Ciò corrisponde a un aumento di sei punti di percentuale, un balzo enorme: i precedenti scatti dell’astensionismo, nel 1979 dopo il fallimento del berlingueriano «compromesso storico» e nel 1996 dopo il primo governo Prodi, furono di tre punti di percentuale.
Con le schede bianche e nulle il totale dei non-votanti dovrebbe salire a oltre 13 milioni, quasi un terzo dell’intero corpo elettorale.

Il minimo storico di partecipazione alle elezioni politiche
Quello del 2013 è il minimo storico di partecipazione alle elezioni politiche della Repubblica italiana: e se qualche decennio fa forse avrei potuto considerare questo dato ambiguo oggi, invece, in pieno regime postdemocratico, ritengo di dover gioire, come dovrebbe gioire chiunque abbia in odio il capitalismo e le sue istituzioni.
Astenendosi, una parte crescente della cittadinanza italiana ha consapevolmente rifiutato di partecipare al rito di legittimazione della casta partitico-statale. Questi cittadini hanno almeno intuito la natura postdemocratica del regime e ne hanno tratto la logica conseguenza: lo boicottano. Hanno rifiutato l’inganno della società dello spettacolo e del marketing politico, non si sono prestati a consolidare un determinato assetto del governo oligarchico dello Stato.
Astenersi è stato un atto minimo di dignità e di consapevolezza politica; ed è un passo avanti per riaffermare, contro la casta politica e l’istituzione che la rappresenta, che le vie per l’espansione della democrazia e per la difesa e l’allargamento dei diritti sociali non solo passa fuori del Parlamento ma, oramai, gli si contrappone.
Inoltre, sia pur in minor misura, anche nel voto per il Movimento 5 stelle si esprime il rifiuto netto della casta, se non anche dell’istituto parlamentare (in regime postdemocratico).
Ebbene, se all’astensione sommiamo il voto per il Movimento 5 stelle, si deve dire che quasi metà dei cittadini italiani si sono espressi in modo inequivocabile contro l’insieme dei partiti di governo o che hanno governato (inclusi verdi, sinistra post-Pci e ultimi arrivati della pseudo «società civile»).

La crisi di rappresentatività del sistema dei partiti
Occorre comprendere bene le implicazioni di questo fatto enorme: sulla base di queste elezioni la crisi di rappresentatività del sistema dei partiti, l’autentico sovrano politico, ha fatto un salto di qualità. Forse neanche ai tempi di Tangentopoli, che pure portò al crollo della Democrazia cristiana e del vecchio centrosinistra, la crisi di rappresentatività fu tanto grave. Allora lo sbocco della crisi di rappresentatività furono i referendum per modificare il sistema elettorale, che vinsero con percentuali del 95% e dell’82% dei voti validi. Venti anni fa la maggioranza dei cittadini cadde in una trappola: per come venne presentata, la (contro)riforma avrebbe dovuto «avvicinare» la politica ai cittadini, portare a un sistema bipartitico e più stabile, rafforzare la governabilità del paese. In realtà lo smantellamento del sistema elettorale proporzionale fu l’attacco più grave mai portato ai diritti politici in Italia: e la responsabilità del suo successo è da attribuirsi al Partito democratico della sinistra, erede del Pci e progenitore dell’attuale Pd.
Questa volta, invece, i cittadini si sono pronunciati non tanto contro questo o quel partito ma contro l’insieme dei partiti e delle politiche da essi perseguite da due decenni.
Il non-voto ha quindi obiettivamente acquisito una valenza progressista contro il conservatorismo politico, il cinismo e l’opera di distruzione dei diritti sociali portata avanti da due decenni sia dal centrodestra sia dal centrosinistra, quest’ultimo con l’aiuto di Rifondazione comunista, del Pdci e dei Verdi.

Utopia Rossa: dalla critica ai Forchettoni all’Antiparlamento dei movimenti
Come Utopia Rossa fummo in sintonia con quella maggioranza di elettori che nel 2008 punirono i «comunisti» che, fino all’ultimo, avevano sostenuto con tutte le loro forze il governo imperialista e «social-liberista» di Prodi. Allora, prima delle nuove elezioni, pubblicammo I Forchettoni rossi, un libro in cui spiegavamo, in modo pacato ma rigoroso, in termini storici, sociologici e linguistici, le ragioni dell’opportunismo congenito di Rifondazione comunista, Pdci e Verdi. Con le nostre debolissime forze cercammo di rendere più solide e quindi più costruttive le ragioni della giusta disillusione.
Nel 2013 possiamo dire di essere in sintonia con i milioni di elettori che si sono astenuti. Abbiamo spiegato e continueremo a spiegare razionalmente i motivi del degrado politico e ideale dei partiti e dell’obsolescenza del parlamentarismo. E abbiamo proposto un obiettivo, quello dell’Antiparlamento dei movimenti sociali, che per quanto non realizzabile nell’immediato costituisce pur sempre un ponte tra l’indignazione e il disgusto nel presente e una prassi anticapitalistica e antistituzionale nel futuro. Ma la prospettiva strategica dell’Antiparlamento comporta immediatamente conseguenze nell’atteggiamento verso i partiti e lo Stato. Su questo tornerò in conclusione. Intanto, posso dire che la nostra microscopica e orgogliosamente nullatenente associazione si è conquistata un ideale posto d’onore in un fenomeno di massa denso di potenzialità liberatrici. Come minimo, siamo insieme a chi ha fatto una scelta di libertà e di dignità.
I lavoratori che hanno votato per il centrosinistra o per il centrodestra sono profondamente alienati, sul piano politico, dai propri interessi minimi di classe. I comunisti e i pacifisti che hanno votato per Rivoluzione civile sono rimasti ancora una volta vittime delle illusioni elettoralistiche inculcate da decenni di togliattismo e ingraismo (con Bertinotti ultimo interprete e Ferrero come becchino). Anch’essi sono in preda a una condizione di alienazione soggettiva, intrappolati da una retorica sinistrorsa sempre più vuota e dal mito della rappresentanza di una sinistra sempre più generica e smidollata, diretta da una sottocasta di professionisti della politica la cui ragione d’esistenza è lo scranno istituzionale e il finanziamento statale al partito. Infine, chi ha votato per il Pcl o il Pdac dimostra di non aver compreso la sostanza della lezione di Lenin sull’uso tattico della partecipazione alle elezioni, da valutare volta per volta secondo il quadro politico complessivo e, specialmente, in funzione del contributo della propaganda elettorale alla radicalizzazione politica di settori di lavoratori.
I lavoratori e le lavoratrici che si sono astenuti sono invece alieni nei confronti del sistema dei partiti dello Stato imperialista italiano ma padroni di se stessi. È questo fenomeno progressivo, che obiettivamente ha una potenzialità anti-istituzionale e di radicalizzazione politica, il bacino «elettorale» di Utopia Rossa.

Superiorità morale e politica dell’astensionismo
Come, si obietterà, l’astensionismo non è qualunquismo? Non è un modo per fare il gioco della destra? Non è rassegnazione? E l’elettore di Ingroia o di Ferrando non è politicamente più evoluto dell’astensionista?
No, non è così, o non più. L’equazione fra astensione e «qualunquismo», ammesso che nella sua genericità sia mai stata valida, e non lo è stata, risulta obsoleta e inutile quando i partiti diventano organi dello Stato e il Parlamento cessa di essere cassa di risonanza, per quanto imperfetta, del conflitto sociale. Per motivi strutturali l’organo legislativo ora non è altro che la cassa di registrazione di decisioni prese al vertice dei partiti e del governo.
Al contrario, a fronte dell’oligarchia bipartitica, del trasformismo dilagante, dell’ipocrita e ignobile ricatto del «votare il meno peggio», l’astensionismo è oggi un’elementare misura di difesa della propria autonomia di giudizio etico e politico. È una sana e progressiva reazione alla reale antipolitica, questa sì «qualunquistica», della politica parlamentare e istituzionale.
Quindi la parte politicamente più avanzata del popolo italiano non è quella che ha votato per Bersani, Vendola o Ingroia. Chi, pur di «sconfiggere» Berlusconi o Maroni, ha votato per quel centrosinistra che è stato il più fedele sostegno di Monti, non fa che cadere dalla padella alla brace. Chi vota per evitare il peggio non si rende conto che il peggioramento è continuo. Chi nel 2013 ha votato per Ingroia non ha fatto altro che tentare di riportare in Parlamento una logica politica e un personale che nel 2008 furono giustamente bocciati per il loro opportunismo da due milioni di persone, il 70% circa dell’elettorato delle formazioni «comuniste» e dei verdi del 2006. La lista Ingroia non è stato che il patetico tentativo di racimolare tutto il racimolabile, di raschiare il fondo del barile, alleandosi perfino con Di Pietro, pur di tornare in Parlamento.
Indipendentemente dalle intenzioni individuali, dall’identità ideologica di ciascuno, dal fatto di andare in visibilio per la bandiera rossa o per i miti falsi e i riti lugubri di un comunismo ancora intriso di stalinismo, e soprattutto indipendentemente dall’illusione di fare «propaganda rivoluzionaria in seno alle istituzioni borghesi» attraverso la campagna elettorale, chi ha votato per Ingroia, Diliberto, Ferrero o Di Pietro, non ha fatto altro che confermare il potere del sistema dei partiti sui cittadini. In particolare su quella fascia esigua di cittadini provenienti dalla ex sinistra o ex estrema sinistra. E tanto più grave è il fatto che magari si è votato sapendo di votare per personaggi che al governo sono già stati (e quindi era possibile valutare il loro operato), quando non direttamente per arrivisti, corrotti e voltagabbana.

Il voto, anche «a sinistra», è diventato ormai un voto conservatore
L’azione politica va valutata sulla base del suo significato obiettivo e dei suoi risultati, non delle buone intenzioni, delle speranze e delle autodefinizioni. E allora, lavoratrici e lavoratori che votano per il Pd premiano un partito che non difende neanche i loro interessi minimi di classe, al più limitandosi a zuccherare la pillola amarissima. Chi ha votato per Ingroia e i forchettoni rossi variamente assortiti, ha votato per chi non aspetta altro che avere una possibilità o una scusa per collaborare con un governo nazionale di centrosinistra, così come hanno fatto in passato e ancora fanno nelle Regioni, ogni volta che possono. Chi ha votato per partiti che si pretendono anticapitalistici avrà pure una forte identità ideologica ma obiettivamente si presta a legittimare la procedura di selezione della élite politica. In cambio di cosa poi? Di qualche inoffensiva e invisibile comparsata televisiva e dello 0,26% degli elettori, di cui solo una parte saranno lavoratori?
Il fatto di andare a votare, nell’illusione che ancora esista una «sinistra» alternativa alla «destra» oggi significa compiere un atto politicamente conservatore; chi vota per i partiti del sistema parlamentare esistente dimostra, nei fatti e in questa particolare congiuntura destinata ad aggravarsi nel tempo, di avere una coscienza politica inferiore a quella dell’astensionista, per quanto confuse possano essere le sue motivazioni.

In piena crisi della postdemocrazia
Il giudizio di chi scrive sulle istituzioni cosiddette rappresentative italiane è estremamente severo. Più volte ho ampiamente argomentato le ragioni per cui nei due decenni terminali del secolo scorso in tutti i paesi a capitalismo avanzato, non solo in Italia, siano giunti a compimento processi che hanno modificato strutturalmente il rapporto tra Stato e cittadini. Processi che si possono riassumere nel concetto di postdemocrazia: un regime che non è affatto illiberale, che non è un regime apertamente autoritario a livello di massa e meno che mai dittatoriale,  ma nel quale è stata portata a compimento l’integrazione tra apparati di partito e Stato. Quel che ne consegue, in breve, è che la funzione di governo schiaccia quella della «rappresentanza»; che sempre e comunque i diritti e gli interessi minimi dei lavoratori e dei comuni cittadini sono subordinati agli interessi del capitale, industriale, finanziario, commerciale; che in termini reali e sulle questioni fondamentali, la distinzione tra partiti di destra e sinistra è obsoleta, tutti convergendo intorno agli stessi interessi padronali. L’ultimo tocco alla trasformazione postdemocratica è venuto proprio dalla degenerazione finale e irreversibile dei vecchi partiti del movimento operaio.
Questo significa anche che la cosiddetta sinistra e le coalizioni di centrosinistra, dall’Inghilterra all’Italia, dalla Spagna alla Germania, non possono considerarsi come soluzione dei problemi della democrazia rappresentativa o come protagonisti della rinascita dei diritti economici e sociali. Al contrario, questi partiti o coalizioni sono parte integrante del regime capitalistico postdemocratico; attori della riduzione della politica a spettacolo mediatico e personalistico; soggetti attivi dell’obsolescenza della funzione di rappresentanza; organi statali più che della «società civile»; programmaticamente convergenti in quanto frazioni politiche dei diversi capitalismi nazionali che si dividono nicchie del mercato politico; veri soggetti dell’antipolitica, se per politica si intende la capacità di autonoma mobilitazione della cittadinanza. Dietro tutto questo non c’è nessun «complotto delle banche» o imposizione da parte dello «straniero»; non si tratta dell’egemonia della «destra» o di un fenomeno legato a una particolare corrente ideologica. Si tratta, ripeto, di un fenomeno strutturale e internazionale, relativo alla trasformazione dei rapporti fra Stato ed economia mondiale e dei rapporti fra Stato e partiti; del risultato di un processo lungo e irreversibile, ma con profonde radici nel potere di classe a livello degli Stati.

Alcuni dati su cui riflettere
I risultati di queste elezioni sono occasione per fare il punto sul quadro politico italiano. Se in politica valesse veramente il principio di confrontare le parole e i fatti, riesaminare criticamente le interpretazioni e le previsioni, correggere l’analisi e bocciare i dirigenti che hanno fallito, allora la sinistra italiana dovrebbe ritirarsi in convento a meditare.
Nella tabella riassumo i risultati definitivi per la Camera: le percentuali sono calcolate sull’intero corpo elettorale, non sui soli voti validi. Quando l’astensionismo raggiunge i livelli attuali, questa è un’operazione indispensabile se si vuole avere un’idea corretta del consenso elettorale dei partiti. Viceversa, ragionare sui soli voti validi è ora mistificante e strumentale, operazione utile solo per il calcolo della ripartizione dei seggi nel quadro di una normativa elettorale antidemocratica. 

Elezioni 2013 – Camera dei deputati – Calcolo dei risultati delle elezioni sull’insieme degli elettori

Valori assoluti
2013
Votanti in %
degli elettori 2013
Valori assoluti
2008
Votanti in %
degli elettori 2008
PD
8.642.700
18,4
12.095.306
25,71
SEL
1.090.802
2,3


Coalizione centrosinistra
10.047.020
21,4
13.689.330
29,1
Di Pietro - IDV


1.594.024
3,38
Arcobaleno


1.124.298
2,38
Ingroia
765.054
1,6


PDL
7.332.121
15,6
13.629.464
28,97
Lega nord
1.390.156
3,0
3.024.543
6,42
Coalizione centrodestra
9.923.100
21,2
17.064.506
36,27
M5 stelle
8.688.545
18,5


Monti - coalizione
3.591.560
7,7


PCL
89.970
0,2
208.296
0,4

La peculiarità italiana nel quadro internazionale è che da noi l’involuzione postdemocratica è più avanzata e nauseante che altrove. Ed è così proprio perché, tra tutti i paesi a capitalismo avanzato, l’Italia ha avuto il partito comunista e la nuova sinistra più ampie. La mutazione del Pci in partito direttamente espressione degli interessi del capitale fu l’effetto ultimo di un processo messo in moto dal «compromesso storico» di Berlinguer e dal vuoto strategico conseguente all’estromissione del Pci dalla maggioranza parlamentare, quando il sedicente «compromesso» ebbe svolto la sua funzione. Si può dunque dire che la degenerazione politica, ideale e personale della sinistra italiana sia più profonda e generale che altrove. E si tratta di una degenerazione a cui non sono sfuggiti neanche i partiti successori del Pci, da Rifondazione comunista al Pdci a Sel, senza dimenticare i Verdi.

La frottola del «regime berlusconiano»
Per anni si è strombazzato circa l’esistenza o la formazione di uno specifico regime berlusconiano. Ad ogni campagna elettorale (e non solo) si è gridato al pericolo autoritario proveniente da «destra», si è ventilata l’eversione o, addirittura, un nuovo fascismo. Indubbiamente, per molti anni Silvio Berlusconi è stato l’animale dello zoo politico italiano più capace di gestire la spettacolarizzazione della politica e di costruire consenso intorno all’immagine personale. Certamente Berlusconi ha avuto una propria peculiare agenda istituzionale dettata dall’autodifesa in quanto grande imprenditore e corruttore: nessuno come lui si è impegnato a screditare la magistratura. Ma, se si tiene conto di quanto sopra circa la postdemocrazia come fatto internazionale, si dovrà intendere il centrodestra berlusconiano come solo una componente del regime postdemocratico, necessariamente completata dalla componente di centrosinistra. Berlusconi è stato effetto più che causa della postdemocrazia nazionale. Le grida allarmanti sul «regime», la «videocrazia», il «populismo» ecc., riducendo l’essenza dei problemi a quello di «battere la destra» ad ogni costo, hanno mistificato la realtà. Per i successori del Pci l’antiberlusconismo a tutti i costi è stato necessario a giustificare l’alleanza con il centrosinistra, che in effetti è stato il vero protagonista del cosiddetto neoliberismo italiano, affermatosi tra la fine del 1994 e il 2001 con la lunga serie di governi di centrosinistra o «tecnici» da esso appoggiati (di Dini, ma prima anche di Ciampi).
Ancora una volta Berlusconi ha dimostrato di essere un grande venditore: in apparenza ha recuperato gran parte del consenso che aveva perso. Ma solo in apparenza: nel momento in cui scrivo la coalizione berlusconiana ha ottenuto poco più del 20% dei voti dell’elettorato totale. In realtà, sia il Pdl che la Lega nord hanno quasi dimezzato i voti. Tra il 1994 e il 2008 l’insieme dei voti per Forza Italia, Alleanza nazionale (compreso il Pdl dopo la fusione di questi partiti) e Lega nord per la Camera oscillò tra il minimo di 15,5 milioni di voti del 2006 e il massimo di 17,3 milioni del 1996 (ovvero, rispettivamente, tra il 33% e il 35% degli elettori). Oggi Pdl e Lega totalizzano meno di dieci milioni di voti. 

Un colpo anche al «Montismo» di Napolitano
Quando il presidente Napolitano incaricò Mario Monti di formare il governo si blaterò di «colpo di Stato», di «ingerenza straniera» e di «governo delle banche». In verità il governo Monti è stato espressione della postdemocratica convergenza tra centrodestra e centrosinistra; non frutto della «dittatura delle banche» o della signora Merkel, ma della volontà di salvaguardare la casta italiana. Rispetto a tale progetto ne esce ridimensionato Monti e un po’ più screditato Napolitano.
Nessun governo italiano ha mai goduto di un sostegno parlamentare ampio quanto quello di Monti: una fiducia con 556 voti a favore e soli 61 contro. Come Commissario europeo Monti fu bipartitico ed ebbe la fiducia nel parlamento nazionale tanto dal centrodestra quanto dal centrosinistra. Altro che colpo di Stato! Il punto è che, come era prevedibile, il governo Berlusconi si era rivelato del tutto incapace di fronteggiare gli effetti della crisi economica e di portare a termine le «riforme» ritenute necessarie sia dal capitale internazionale sia dal capitale nazionale. Bisognava cambiare cavallo. Ma il cavallo più affidabile per il capitale internazionale, il centrosinistra a cui si deve la privatizzazione dell’Iri, la precarizzazione del lavoro, la controriforma del sistema pensionistico e del welfare, in quel momento non era ancora pronto. Tanto meglio, poi, se la responsabilità di misure immediate, drastiche e impopolari poteva essere scaricata sui «tecnici», la Banca centrale europea, la Commissione europea, il «complotto anti-nazionale».
Tuttavia, e ancora una volta, è stato il centrosinistra il più fedele sostenitore di Monti e, ancora una volta, Berlusconi si è rivelato abbastanza astuto da prendere le distanze dal governo dei professori quando questo aveva già fatto il lavoro sporco, cercando di capitalizzare parte della protesta popolare. La verità paradossale è che il demagogo Berlusconi ha «scavalcato a sinistra» l’ex comunista Bersani.

Una sconfitta del centrosinistra camuffata da vittoria elettorale
Al Senato il centrosinistra perderà, a quanto pare, circa tre milioni di voti, ottenendo il 23% dei voti sul totale degli aventi diritti (o il 31% dei voti validi) contro il 29% del 2008 (o il 38% dei voti validi). Il rapporto di forza tra il centrodestra e il centrosinistra nel Senato è sostanzialmente di parità, il che è quanto recentemente auspicava l’antiberlusconiano The Economist, il più intelligente settimanale liberale su scala mondiale, perché questo risultato avrebbe costretto il buon Bersani ad allearsi con l’ottimo Monti. Tuttavia, con circa 7,2 milioni di voti, il 17% dell’elettorato (oltre il 24% dei voti validi), lo straordinario successo del Movimento 5 stelle ha scombinato il tavolo. Bersani ha perso troppo e la «salita in politica» di Monti non è stata poi gran cosa: il Professore ha ottenuto il consenso di un modesto 6% degli elettori (9% dei voti validi).
Dunque, centrosinistra e centrodestra continuano a perdere massicciamente voti giungendo a una situazione di quasi parità: il che è una sconfitta politica per Bersani. In effetti il centrosinistra non è mai riuscito a vincere veramente, con distacco significativo, sul centrodestra: nel 2006 «vinse» le elezioni per la Camera per una differenza di soli 24.755 voti.
Per un soffio, alla Camera Bersani riuscirà ad avere una maggioranza spropositata grazie al premio dell’attuale «legge truffa»; ma al Senato la maggioranza non ci sarà.
La situazione appare dunque tendere alla ingovernabilità e, anche se in qualche modo un governo dovesse formarsi e tirare avanti per qualche tempo, è comunque seria è la possibilità che si arrivi a nuove elezioni anticipate.

I pretestuosi attacchi al Movimento 5 Stelle
Sul Movimento 5 stelle si sono scagliati, per ragioni di evidente concorrenza elettorale, tutti i partiti. Sia la sinistra «ingroiana» che quella «ingraiana», ma anche quella presuntamene «comunista» e «rivoluzionaria»: ognuno di loro ha finto di non vedere quali processi di radicalizzazione stavano maturando dietro al M5Stelle e si sono distinte per i colpi di bassa lega, rispolverando vecchie terminologie di cui ignorano per giunta il significato (si pensi all’accusa di «populismo») e paragoni improponibili con i movimenti che precedettero il fascismo. In alcuni casi siamo al delirio, in molti si tratta di pura e semplice ignoranza delle categorie storiche impiegate.
Ad esempio, leggo, nel comunicato del 25 febbraio del Pcl ferrandiano - il cui uso «rivoluzionario» delle istituzioni borghesi ha prodotto risultati che si aggirano sullo 0,3% al Senato e lo 0,2% alla Camera - che «la rimozione dell'opposizione sociale ai governi del capitale finanziario ha finito col consegnare alla reazione, vecchia e nuova, ampi settori della popolazione povera e dello stesso mondo del lavoro». Della «reazione che avanza» (sic) farebbe parte «un guru milionario che rivendica l'abolizione del sindacato in quanto tale», cioè Grillo. Anzi, si dovrebbe dire che la reazione avanza a causa del successo di Grillo, perché la «vecchia» reazione continua a indietreggiare: alla Camera sul 2008 centrosinistra, centrodestra e centro (Udc e Monti) hanno perso la bellezza di 9 milioni di voti! Trascurando le frattaglie. Ma questo dato enorme il Pcl sembra non riuscire a vederlo, forse accecato dal fatto di aver perso, nel voto per la Camera, oltre 118 mila voti, il 57% dell’elettorato «rivoluzionario» del 2008 (che, presumibilmente, non ha votato Bersani e neanche Ingroia). Forse è questa «atrocità» che intendono come «la sconfitta del movimento operaio» (sic).
Non mi sogno di difendere Grillo per questa o quella dichiarazione più o meno infelice o più o meno reazionaria, meno che mai di attribuirgli un qualche titolo «rivoluzionario». Il Movimento 5 stelle è un fenomeno tipico delle postdemocrazie, non solo dell’italiana: la chiusura oligarchica del sistema dei partiti e la percezione di quanto esso sia corrotto può generare «movimenti» antipartitici che catalizzano la protesta sul piano elettorale. Spesso si tratta di movimenti ideologicamente di destra, razzisti e xenofobi. Includere il Movimento 5 stelle nella categoria dei movimenti di destra e razzisti sulla base di dichiarazioni di Grillo o dei retroscena del suo marketing politico è però una grande forzatura; inoltre è metodologicamente il contrario, non dico del metodo marxiano, ma della storiografia moderna, che le teorie complottistiche della storia fa bene a riporre tra la spazzatura. Quel che deve interessare è l’oggettiva valenza antioligarchica del successo di Grillo e l’aspirazione democratica che si è espressa nel voto per questo «movimento».

Primi elementi di una critica a Grillo
Sulla natura del movimento diretto da Grillo dovremo tornare, con maggiore calma, fuori dal contesto elettorale e dopo aver visto il comportamento concreto dei suoi parlamentari nelle istituzioni.
La critica da farsi è invece che l’impulso antioligarchico presente spontaneamente tra i giovani, tra la popolazione lavoratrice o disoccupata sia stato ricondotto da Grillo sul terreno elettorale e parlamentare: senza Grillo l’astensionismo sarebbe stato ancora più alto. E questa formazione genetica elettoralistica sarà prima o poi la ragione della rovina del Movimento 5 stelle, all’interno del quale si sono già viste crepe nella campagna elettorale, risolte con lo strumento più vecchio e sciocco che si possa immaginare: l’espulsione dei dissidenti. Vedremo come i parlamentari grillini si comporteranno in Parlamento: se rimarranno uniti o ci sarà una diaspora, l’ennesima; se voteranno implacabilmente contro le misure del governo oppure no; se saranno capaci di portare il conflitto all’esterno del Parlamento, in quelle piazze che hanno riempito in maniera gigantesca prima delle elezioni; se anche loro, e in qual misura, diventeranno a tutti gli effetti professionisti della politica, quindi membri della Casta, quindi Forchettoni rossi, per quanto anomali e magari anche dinamici. Le mie previsioni non sono affatto ottimistiche e su questo bisognerà incalzare duramente il Movimento 5 stelle. La sinistra che si considera ancora rivoluzionaria (ma di chi stiamo parlando?) avrebbe dovuto farlo già in campagna elettorale, non con i fotomontaggi e gli anatemi, ma da una posizione coerentemente antielettorale, anticastale e antiparlamentare, evidenziando così la contraddizione fondamentale del Movimento: l’illusione di poter rivitalizzare le istituzioni di un corrotto e marcio regime postdemocratico. Il fatto è che chi decide di partecipare comunque alle elezioni ovviamente non ha le carte in regola per un’operazione del genere.

Scomparsa dei Forchettoni rossi vecchia maniera
Il voto per le sedicenti missioni di pace del 19 luglio 2006 fu il battesimo dei forchettoni rossi di Rifondazione comunista (la cui direzione si era convertita repentinamente e in massa alla non-violenza), del Pdci e dei Verdi, e l’atto di morte ideale della sinistra post-Pci, sostanzialmente ingraiana.
Le elezioni politiche del 2008 iniziarono l’agonia di questa stessa sinistra, punita dagli elettori per il suo linguaggio biforcuto e il cinico opportunismo, e anche la diaspora dei Forchettoni rossi, tatticamente divisi sul come arrivare a collaborare col centrosinistra anche a livello nazionale oltre che regionale e locale.
Con ogni probabilità le elezioni politiche del 2013 saranno ricordate come l’atto di morte elettorale della sinistra post-Pci. La lista Rivoluzione civile dell’ex magistrato Ingoia - nella quale è confluita anche Italia dei valori, partito privo di un qualsiasi programma politico-sociale e già organicamente parte della coalizione imperialistica di centrosinistra - alla Camera ha ottenuto circa la metà dei voti che furono di Idv nel 2008 e un terzo della somma dei voti di Idv e della Lista arcobaleno del 2008. Ciò corrisponde all’1,6% dell’elettorato e al 2,2% dei voti validi: più che un fiasco, un tracollo umiliante. Né i risultati sarebbero stati granché migliori se Vendola e Sel fossero rimasti con gli altri Forchettoni invece di sottoscrivere l’accordo col Pd: insieme avrebbero totalizzato meno del 4% dell’elettorato complessivo (gli aventi diritto al voto), ma più del 4% rispetto ai voti realmente espressi, e quindi sarebbero riusciti a tornare in Parlamento. Da bravo attore sulla scena dello spettacolo politico l’immaginifico Vendola ha saputo vendersi meglio, tornando praticamente a quella tradizione di togliattismo postmoderno nella quale aveva cominciato la propria brillante carriera politica: ma anche lui ha iniziato a perdere seguito e la forma di partito dal presidente carismatico – com’è Sel - ha i suoi limiti. L’accordo col Pd lo ha compromesso del tutto. Resta il fatto che, ormai, dei Forchettoni rossi vecchia maniera il Pd non sa più che farsene. All’orizzonte si delineano ben altre mitologie, delle quali con il sindaco di Firenze Renzi si sta avendo solo un primo assaggio.

Le rovine etiche e politiche dell’illusione di «rifondare il comunismo»
Sono passati venti anni da quando in Italia si pretese di «rifondare il comunismo» intorno ai parlamentari kabulisti e ingraiani del vecchio Pci. Una grande illusione che riuscì ad assorbire e sostanzialmente a neutralizzare per più di un quindicennio quanto rimaneva della nuova sinistra italiana, da Democrazia proletaria alla sezione italiana della Quarta internazionale, fino a gruppetti e gruppettini locali, frutto spesso di storie incredibili di scissioni ed espulsioni.
Illusionismo che in venti anni ha macinato, demoralizzato o rovinato migliaia di militanti, specialmente giovani; che ha pressoché distrutto quel che era sopravvissuto della cultura antagonista e soggettivamente rivoluzionaria degli anni ’60; che ha spacciato per anticapitalismo i discorsi vacui e infondati sull’antiliberismo; che ha canalizzato l’energia e la generosità di tante persone in svolte, svoltine, referendum a perdere e campagne di propaganda in sé inconcludenti, ma fermamente dirette a produrre un’immagine vendibile nel mercato elettorale e alla partecipazione ai giochi istituzionali. 
Vent’anni, quasi una generazione... una generazione politicamente azzerata dai balletti di Rifondazione comunista e Pdci e Sel con Prodi e D’Alema, con di Di Pietro e infine con Ingroia.
Si dirà che il giudizio è esagerato e ingiusto nei confronti di tanti generosi militanti e di tante animate iniziative e lotte locali o settoriali. Sì, ammetto che preso alla lettera è un’iperbole. Nondimeno è molto vicino alla realtà. Ridimensionato, sfilacciato e confuso, in Italia esiste un «popolo di sinistra» che riesce a sfilare in manifestazioni nazionali (molto, molto gonfiate nei numeri) e a condurre benemerite iniziative locali e particolari lotte di resistenza. Tuttavia, alla salvaguardia e all’espressione di un’identità non corrisponde affatto la capacità d’incidere realmente sui rapporti di forza tra le classi e ancor meno di concepire una prospettiva che sia politicamente alternativa a quella della casta politica italiana. Intendo dire alternativa nella pratica del presente, a livello nazionale e nella strategia a lungo termine, non come manifestazione di un’alterità ideologica o esistenziale in cortei multicolore che alla casta politica fanno il solletico e che i capitalisti neanche prendono in considerazione... se non per l’eventuale intralcio al traffico. Un’alternativa che non si concepisca in funzione delle elezioni, che sono sempre il puntuale punto d’approdo d’ogni svoltina pseudomovimentistica e pseudosociale. 
Ricordate la trovata estiva di «fare Syriza in Italia»? Trovata risibile quasi quanto la fantasia dilibertiana di portare in Italia la mummia di Lenin. A parte il piccolo dettaglio delle differenti condizioni della mobilitazione di massa, una Syriza italiana non è possibile anche perché c’è del marcio in una sinistra che continua ad accettare come dirigenti ex ministri di governi dell’imperialismo italiano come Ferrero e Diliberto, gente che in Parlamento ha votato la fiducia a Prodi come Cannavò e Rizzo, o il governatore Vendola, senza parlare della moltitudine di ex assessori e consiglieri regionali che hanno retto il sacco al centrosinistra e che continuano o si sforzano di continuare fondamentalmente la propria carriera politica personale.
Per quasi vent’anni la sinistra post-Pci ha trescato con quel centrosinistra il cui capo storico (Prodi) ebbe il merito di smantellare l’Iri, che iniziò l’infinita riforma del sistema pensionistico, che introdusse e diffuse i contratti di precarizzazione del lavoro, che istituì i Cpt per ingabbiare gli emigranti, lasciando poi il posto a D’Alema per bombardare la Serbia...

L’occasione per cominciare una nuova vita politica, in senso etico e intellettuale
È vero che nelle crisi il tempo accelera, ma questo non significa che esso sia comprimibile a volontà o che possa precipitare in un punto che annulli il passato. Delle condizioni per un salto in avanti devono pur darsi: e in Italia la prima condizione soggettiva è non lasciarsi più illudere dai marpioni che periodicamente annunciano la «svolta epocale», il «nuovo inizio», la «trovata» risolutiva, fino a quando svolte e inizi non vengono dimenticati e il ciclo ricomincia. I militanti che sinceramente aspirano a rompere con il centrosinistra dovrebbero iniziare col far pulizia in casa propria dei professionisti della politica che sono rimasti a galla nonostante i disastri che sono riusciti a combinare: e a individuarli non è poi così difficile, visto che sono praticamente quasi tutti coloro che occupano cariche dirigenti in questi partiti o cariche istituzionali. Cominci ogni militante a interrogarsi sulla storia politico-personale di questi personaggi e decida poi se con loro potrà combattere contro il sistema o non venga piuttosto da loro utilizzato a difesa di quello stesso sistema.
Una profonda rivoluzione etica e personale di ciascuno è la prima, ma solo una delle condizioni minime perché dall’interno dell’attuale «popolo della ex sinistra» si possa iniziare a ragionare in termini di anticapitalismo. L’altra è liquidare tutta la zavorra togliattiana e staliniana, in termini rigorosamente storiografici, politici e intellettuali.
Vi sarebbe poi un grande discorso da fare sul ruolo che le donne radicalizzate potrebbero avere in questo processo (vista la loro relativa assenza dalle dinamiche corruttrici dei Forchettoni, dall’autoritarismo maschilista e grossolano degli apparati), ma in questa sede non lo si può sviluppare.

E Utopia Rossa?
All’interno di Utopia Rossa siamo in molti a ritenere che la rabbia e il disgusto nei confronti della Casta politica possa trovare uno sbocco nella lotta per costruire un Antiparlamento dei movimenti sociali: non istituzione dello Stato o conferenza di burocrati e  aspiranti tali, ma momento di discussione e di decisione dei movimenti contro lo Stato e il padronato. Sappiamo benissimo che questa indicazione ha ora un carattere solo propagandistico (e per giunta ultraminoritario, visto che nei mesi scorsi quasi nessuno se n’è voluto fare portavoce insieme a noi o per conto proprio): un Antiparlamento può esistere solo in presenza di grandi movimenti di massa in via di radicalizzazione.
Tuttavia, l’orientamento politico a favore di un tale Antiparlamento ha un effetto immediato nel presente. Tatticamente esso si esprime nel rifiuto di votare per la Casta e di partecipare in qualsiasi forma allo spettacolo del marketing elettorale. Significa escludere a priori ogni possibile compromesso con la Casta di centrosinistra: non un «no a Monti, però, se Bersani o Ingroia…», ma un no netto, senza ma e senza se. Adottare la prospettiva dell’Antiparlamento significa anche contrapporsi nettamente ai gruppi dirigenti di tutti i partiti della ex sinistra, che si differenziano solo sul piano delle manovre (spacciate per tattiche) da compiere per arrivare al comune obiettivo della collaborazione con il centrosinistra, che pensano e agiscono solo in funzione del successo elettorale e della partecipazione ai giochi istituzionali.
Per questa ragione, per quanto quantitativamente infinitesimale, Utopia Rossa può sentirsi in sintonia con i molti milioni di italiani che hanno «vinto» queste elezioni: vale a dire con quella parte della popolazione che è nei fatti politicamente la più avanzata. E in sintonia non lo è da oggi, a elezioni compiute, ma da quando Utopia Rossa nacque e nel corso di tutte le campagne astensionistiche che ha sempre cercato (vanamente) di sviluppare in Italia. Oggi si può andar fieri del merito di aver cercato di costruire - campagna dopo campagna elettorale - un progetto astensionistico collettivo, scontrandosi puntualmente con la cecità, il localismo e l’incomprensione teorica del contesto politico dei vari soggetti contattati e non coinvolti. E questo mentre vedevamo crescere e descrivevamo nei nostri materiali le origini della radicalizzazione antisistema e antistitituzionale che questi risultati elettorali stanno portando alla luce del giorno.
La nostra proposta, adeguata a un regime postdemocratico è però sempre caduta nel vuoto, senza eccezione e anche in quest’uiltima tornata elettorale, se si guarda alle risposte che abbiamo avuto dalle cosiddette «avanguardie politiche».
Dovrei dire che questo fatto è sorprendente. In fin dei conti il disgusto nei confronti della Casta partitico-statale e l’astensionismo sono fenomeni macroscopici: quindi non occorre essere dei geni per capire che questi fatti sono densi di potenzialità e che ad essi occorre comunque dare una risposta specifica in termini politici complessivi. La non-risposta che abbiamo avuto da soggetti potenzialmente coinvolgibili è sorprendente anche perché l’idea dell’Antiparlamento dei movimenti sociali, momento autogestito di socializzazione della decisione politica che può contrapporsi al potere statale e padronale, riprende la migliore lezione di metodo non solo del marxismo (rivoluzionario o libertario che sia) ma anche dell’anarchismo.
Sorprende, infine, che non ci si renda conto che ciò che oggi è indispensabile per ricostruire una prospettiva anticapitalistica non è esibire una «lista della spesa» di obiettivi o un qualche modello macroeconomico alternativo, ma dimostrare concretamente l’assoluta coerenza tra il fine ed i mezzi, la capacità di creare un’atmosfera di rigore etico-politico che non consente nessun compromesso con la casta e con le sue istituzioni.
È questa una posizione arrogante e presuntuosa o, più gentilmente, «irrealistica»? Sinceramente, me lo sono chiesto. La mia risposta è che non è posizione più arrogante di coloro che si definiscono «comunisti» e «pacifisti» ma sono disposti a far parte di un governo dell’imperialismo italiano («ma senza Monti!», dicono). Quella dell’Antiparlamento non mi pare posizione più presuntuosa di chi pretende di essere «partito rivoluzionario» ma legittima di fatto una procedura condannata da milioni di lavoratori, per poi ottenere una frazione decimale dei voti; non mi pare neanche posizione più irrealistica di chi pretende di essere «contro lo Stato» e «antielettorale sempre e comunque», ma non sente il bisogno di unire la propria debolezza a quella di altri per condurre una campagna antielettorale e antistatale.
Fatto è che in questi ultimi due mesi abbiamo avuto conferma definitiva di quel che avevamo già constatato, in Italia più che altrove: e cioè che la coltivazione del proprio orticello, l’autoriproduzione della propria identità ideologica, la psicologia narcisistica e megalomane del «faccio da solo», riescono a prevalere perfino su quelle possibilità d’azione comune, o anche solo di discussione, che, idealmente sarebbero ovvie, agevoli e ragionevoli.
Si può solo sperare che in futuro a Utopia Rossa non spetti l’onore, di cui faremmo assai volentieri a meno, di essere sola nel sostenere la posizione dell’Antiparlamento come alternativa radicale al parlamentarismo e all’elettoralismo, obiettivo pratico coerente con l’analisi scientifica, mezzo coerente con il fine, posizione rigorosa sul piano etico-politico. 
Spero che i risultati di queste elezioni siano una buona lezione. Altrimenti bisognerà attendere le prossime…

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com