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giovedì 27 ottobre 2011

UNA RIFLESSIONE SULLA CRISI COSTITUZIONALE DEL SISTEMA POLITICO BORGHESE, di Pier Francesco Zarcone

Il pensiero dominante, politicamente corretto, contrappone all’assolutismo regio del passato la democrazia basata su Costituzione e Parlamento, cioè un assetto istituzionalmente ancora in vigore. Purtroppo si tratta di pura dottrina scolastica e di propaganda, con scarso riscontro nella realtà dove si è progressivamente affermato e consolidato un nuovo assolutismo: questa volta non gestito da un monarca, bensì dal binomio Governo/Parlamento. Vediamo il perché di questa valutazione.
Originariamente il Parlamento (come ben sottolineò tempo fa lo storico marxista Eric Hobsbawm) aveva essenzialmente una funzione di controllo dell’attività normativa e amministrativa del Governo per conto e in difesa degli elettori. Da qui il detto – a cui la situazione attuale ha tolto gran parte del significato originario – no taxation without representation. Cioè a dire, il Governo non può imporre sacrifici economici senza il placet del Parlamento, che gli si contrappone essendo l’assemblea dei rappresentanti di sudditi desiderosi di passare al diverso status di cittadini.
Si trattava di una sostanziale diarchia, tra Governo legato alla figura del Re e sua espressione, e il Parlamento, organo di tutela del popolo. Per un certo periodo l’emergere di un contrasto fra Governo e Parlamento fu cosa seria e grave, e al riguardo si tenga conto del legame che univa i parlamentari con i propri elettori – molto pochi rispetto a oggi (borghesia, proprietari terrieri, ceti medi) – e li rendeva più attenti a tutelare (oltre ai propri) anche gli interessi di chi li aveva eletti. Certo, non sono mancate le oggettive valutazioni critiche di contemporanei, tra cui non si possono dimenticare le pagine di Bakunin sul profumo del potere che ottunde la sensibilità dei parlamentari quali rappresentanti del popolo. Ma per un certo tempo il sistema ha funzionato entro i suoi limiti.
In merito a queste trasformazioni non va sottaciuto che per il superamento dell’assolutismo regio, e per l’avvento di un parlamentarismo via via svincolato dal potere monarchico, il ruolo decisivo è stato svolto dalla mera maturazione dei cittadini che contavano e/o dal manifestarsi del loro scontento, dalle manifestazioni di malumore dei ceti più popolari divenute a volte vere e proprie spallate rivoluzionarie dal basso che hanno imposto il cambio istituzionale.

Declino delle funzioni del Parlamento

Un nuovo processo si è sviluppato a mano a mano che, in contrapposizione all’affievolirsi del potere regio, l’accrescersi del potere parlamentare si coniugava con il formarsi dei partiti di massa e il suffragio universale. Soprattutto l’avvento di tali partiti è stato importantissimo. È chiaro che i “partiti” intesi come fazioni più o meno organizzate esistevano anche prima: ma il partito dell’epoca contemporanea ha rappresentato un salto qualitativo determinante. Infatti, questo nuovo organismo ha finito col fagocitare i singoli parlamentari eletti nelle sue liste e con l’interporsi rispetto agli elettori. L’imposizione della “disciplina di partito” ha chiuso il cerchio.
Venute meno le monarchie (o ridottesi a ben poco i loro poteri) si è prodotta una nuova diarchia, stavolta non più (o non tanto) fra istituzioni statali: ora essa esiste fra potere governativo (del Governo organo collegiale, o del Presidente della Repubblica se vige il presidenzialismo) che controlla il Parlamento e popolo. Detto più semplicemente, se un Governo (o un Presidente) ha la maggioranza assoluta allora per x anni può fare quello che vuole, a prescindere dalle proteste dei cittadini, a meno che esse si trasformino in sommosse coinvolgenti anche settori dell’apparato poliziesco/militare, oppure riescano a paralizzare un intero paese (cosa non facile per la riduzione dei lavoratori del settore pubblico, anche a seguito delle massicce privatizzazioni: i lavoratori del settore privato sono infatti ben più ricattabili). Altrimenti si possono fare tutte le manifestazioni e gli scioperi possibili senza che necessariamente incidano sulle decisioni del Governo.
E nemmeno è detto che l’approssimarsi delle elezioni operi da spauracchio: oggi sono diffuse le leggi elettorali che hanno abbandonato il sistema proporzionale puro, al fine di blindare le maggioranze parlamentari. Inoltre, i governi possono contare su un particolare meccanismo psicologico di massa (meritevole di essere studiato da chi ne è capace) giustificato da varie motivazioni: l’esigenza di stabilità, del male minore e/o della cosiddetta mancanza di alternativa (che spesso e volentieri mascherano i timori di votare per partiti demonizzati dal “pensiero dominante”) i suffragi continuano ad andare a realtà politiche i cui danni sono tangibili. Non sembra che si sia molto riflettuto sul caso del Belgio: rimasto senza Governo per ben più di un anno, non è sprofondato nel caos e anzi la sua economia reale è stata caratterizzata da sviluppi di rilievo.
Allo stato delle cose, quindi, le società civili europee (e non solo) si trovano sotto attacco predatorio di Governi e Parlamenti che agiscono apertamente nell’interesse di poteri finanziari extranazionali e per questo sono pronti a distruggere l’economia reale – e non solo lo stato-sociale – in favore di interessi finanziari globalizzati.

I Governi come agenti esecutivi delle grandi istituzioni finanziarie

Ormai i Governi non sono nemmeno più il “comitato d’affari della borghesia” (come si diceva una volta, allorché ancora esisteva una sinistra politica): sono diventati gli agenti esecutivi di grandi istituzioni finanziarie (come quelle che dominano il Fondo monetario internazionale) che mantenendo gli Stati indebitati sotto il torchio di interessi ultrabanditeschi e imponendo “misure di salvataggio” il cui fallimento concreto è ormai di portata universale, hanno la possibilità di estorcere loro le ricchezze attuali e di impadronirsi con le privatizzazioni di imprese pubbliche a pressi di ultrasaldo. Con ciò altresì espropriano i paesi in questione dei possibili progressi futuri.
Nel tragico gioco di questi interessi tutto ciò che attiene alle vite umane perde di significato; e continuare a celebrare la giornata per lo sradicamento della povertà ha solo il sapore di una ipocrita e tragica beffa.
È assai probabile che a furia di “cure” economico/sociali idonee ad ammazzare il paziente senza guarirlo finiscano col morire anche la mal concepita moneta unica e per conseguenza l’ormai agonizzante progetto di Unione Europea. In un’ottica di classe i problemi a ciò inerenti sono questioni delle borghesie coinvolte, trattandosi di una crisi che mette in discussione ciò che tali borghesie hanno voluto e/o appoggiato. Tuttavia, sempre in tale ottica, la gamma delle conseguenze riguarda le vere vittime. Tra le quali oggi ci sono anche le classi medie. E qui si apre lo spazio per un problema politico tremendo in sé, e ancora di più nella situazione attuale. Cerchiamo quanto meno di introdurlo e per comodità espositiva non consideriamo qui i precedenti storici di situazioni analoghe conclusesi con recessione/inflazione di portata devastante, con guerre o con derive autoritarie, vuoi a scopo reattivo vuoi a scopo preventivo.
Diciamo che – se le cose restassero sui binari attuali - probabilmente prima o poi le borghesie continentali dovranno favorire l’apertura di una nuova fase costituente, cioè riorganizzativa sul piano istituzionale pubblico, nel duplice livello nazionale ed europeo. E qui va parafrasato il detto di Clemenceau per cui la guerra è cosa troppo seria perché sia monopolio dei generali: la parafrasi è che sarebbe esiziale se il possibile processo costituente restasse gestito autarchicamente dalle borghesie nazionali (tanto più che esse non sono in grado di sfuggire a pressioni e ricatti del potere finanziario globalizzato). Il fatto è che sono in gioco questioni di importanza capitale, come una blindatura delle economie nazionali ed europee rispetto ai mercati finanziari, la difesa dei cittadini dall’assolutismo dei Governi, e l’avvento di istituzioni strumentali per una democrazia più partecipativa, così come chiedono i popoli d’Europa.
Il drammatico è che questo immane problema si profila su un vuoto politico di base che i movimenti attuali non paiono in grado di colmare. Ma quanto meno l’allarme va lanciato, per una più ampia consapevolezza dell’esserci dietro l’angolo la barbarie assoluta, e che se non ci si organizza per lottare essa preverrà per lungo tempo fra lacrime, sangue e vite rubate.


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mercoledì 26 ottobre 2011

SELINUNTE, di Enzo Valls

A Peppe Fontana
Tu nombre que hasta ayer  disimulaba
mares mediterráneos y genistas,
blancas ruinas de templos, callecitas,
anfiteatros y áfricas cercanas
hoy es sueño de mis rumbos más felices
evocando abrazos, risas, soles, vino.
Brindemos y cantemos, compañeros,
ebrios de hermandad, los viejos himnos
de los hombres justos, de los libres,
de los que sin tapujos se amanecen
con la dignidad sentada en sus rodillas
y ni la encuentran amarga ni la injurian.
Enzo Valls
Santa Fe (Argentina), 25 de octubre de 2011
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Leggere altri scritti di Enzo Valls

martedì 25 ottobre 2011

NOTA REDAZIONALE DI CONTROPIANO E CONTROREPLICA DI PIERO BERNOCCHI

Perché “tanta furia” nel dibattito sulla manifestazione del 15 ottobre?

Una nota redazionale di Contropiano online replica alla lettera di Piero Bernocchi

L'intervento di Karla e Kamo sul 15 ottobre che abbiamo pubblicato qualche giorno fa sul nostro giornale, ha sollevato - com'era giusto – commenti diversi. Del resto abbiamo previsto uno spazio “interventi” proprio per sollecitare il confronto anche e soprattutto al di fuori dei confini, spesso troppo stretti, di organizzazione. E in tanti, essendo esclusi proprio dai media mainstream, stanno utilizzando questo spazio di dibattito per intervenire con valutazioni, commenti o interventi veri e propri.
Come ogni lettore di giornali o di siti sa, gli “interventi” non sono “editoriali”. Non necessariamente rappresentano, come dicono i giornali mainstream, il punto di vista della redazione. Possono essere condivisi in parte, totalmente o quasi per nulla; ma sono stati evidentemente considerati “interessanti”, “stimolanti discussione”. Al limite anche “un po' provocatori”. Se non si amano le discussioni ingessate, sono semplicemente necessari.
Piero Bernocchi, non l'unico dei nomi citati nell'intervento, se n'è invece risentito molto. Pubblichiamo anche la sua nota apparsa sulla lista del “Coordinamento 15 ottobre”. E ci sia consentita qualche pacata considerazione.
La prendiamo larga. In Italia, grazie a Berlusconi, e in Occidente (grazie a molti altri soggetti pensanti, think tank o ideologi vari), nell'ultimo ventennio si è fatta strada una retorica che chiameremo “vittimismo aggressivo”. In pratica, consiste nel dichiararsi “vittime” di un attacco violento, intollerante, insopportabile in occasione di qualsiasi divergenza di opinione; per farne poi discendere la “necessità” di mettere al bando (nel migliore dei casi) il/i responsabili di quell’attacco. Certo, è difficile raggiungere le vette del Cavaliere o di alcuni suoi cortigiani (Cicchitto, Stracquadanio, Belpietro, solo per citarne alcuni), ma questo modo di fare ha fatto scuola. “Tira” sia in televisione che sulla carta stampata, ma anche sul web o qualsiasi altro media. E' diventato “senso comune”. “Si fa così...”
Se ne serve anche il buon Piero, con cui ci accomunano 40 anni di attività politica, dissensi aspri, convergenze temporanee, visioni diverse. Senza che mai sia volato un solo schiaffo tra noi.
Ci sorprende e quasi ci diverte – dunque – il fatto che stavolta abbia preso cappello in modo così viscerale e vittimistico, fino a dipingersi come “possibile vittima di un pestaggio”. Se non avessimo guardato per anni gli sketch di Beppe Braida ci saremmo arrabbiati. Ma siamo ormai vaccinati...
Si indigna per essere stato avvicinato a Noske, e lo si può capire. Però, detto amichevolmente, non è carino nemmeno sentirsi catalogati come assaltatori dei palazzi o sabotatori di manifestazioni che abbiamo contribuito a costruire. Basta leggersi l'editoriale “15 ottobre. Fatti, cause, conseguenze” per avere la “posizione ufficiale” della Rete dei Comunisti. Se avessimo avuto una posizione diversa, l’avremmo espressa nero su bianco. Come facciamo sempre.
Non è simpatico neppure affermare come “notorio” che un sindacato (l'Usb) - risultato di un processo unificante ancora incompiuto del sindacalismo di base, cui anche Bernocchi ha fino a un certo punto partecipato per poi tirarsene fuori - sia schiacciato su una posizione politica particolare. Come ognun sa, per aderire a un sindacato (Usb o Cgil, in questo, differiscono poco) non occorre presentare una tessera di partito. Certo, si tengono lontani i fascisti e assimilabili, ma non molto di più. Sappiamo che i Cobas hanno un'idea molto più “simbiotica” del rapporto tra sindacato e partito. La conosciamo, la comprendiamo, ma non è la nostra. E Piero lo sa. Perché creare confusione di proposito?


Alla redazione di Contropiano, giornale della Rete dei Comunisti Stalinisti
Non ho mai letto il Guinness dei primati. Non so dunque se vi esista una categoria “ponziopilatismo”: nel caso, questo vostro testo vi darebbe diritto ad accedere ad una indiscutibile menzione in materia. Elenco i motivi per cui vi raccomanderei senz’altro ai compilatori di record:
1) voi affermate di avere uno spazio aperto per “sollecitare il confronto” e scegliete gli interventi “interessanti”, “stimolanti discussione”, “un po’ provocatori”, ma “semplicemente necessari se non si amano le discussioni ingessate”; dunque, avete giudicato l’intervento (si fa per dire) di KK (manca il terzo K e poi ci siamo, la nota organizzazione di incappucciati Usa) interessante, stimolante anche se magari un po’ provocatorio (ma appena un po’, per carità);
2) conseguentemente vi siete “sorpresi” e “divertiti” perché io (e i COBAS, e tutti/e quelli che sono intervenuti in questi due giorni in lista) ho preso “cappello in modo così viscerale e vittimistico”.
E già, dicono i nostri ponzipilati, davvero ipersensibile il giovanotto!! Davvero strana e inspiegabile la sua reazione!!
In effetti a ben guardare i sollecitatori KK volevano interessare e stimolare dichiarandomi/ci: a) “nemico di classe”; b) “personaggio simile a Noske e a coloro che hanno armato prima e poi protetto le mani degli assassini di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg e fatto scempio degli spartachisti” (grottesco, peraltro, che uno stalinista si pronunci su quel massacro: se fossero stati sovietici, Stalin li avrebbe ammazzati con le sue mani; in compenso poi ne ha fatti sterminare tanti altri di specchiati e gloriosi militanti comunisti); c) “pieno sostenitore della guerra imperialista in Libia”; d) “agente attivo della borghesia imperialista, esponente del partito della delazione al servizio delle classi dominanti, da combattere in ogni contesto di classe”.
Ma che discussione interessante, quanti begli stimoli, che sollecitazione al confronto, vuoi mettere con le solite discussioni ingessate!!
Trovo questa metodologia così interessante che domani proporrò ai miei di pubblicare sul nostro sito la lettera che ci è pervenuta qualche giorno fa, firmata da KKK (non il Ku Klux Klan di cui sopra, ma semplicemente Karl, Katia e Kim, sono in simbiosi e si fanno chiamare con ‘sta sigla) in cui si afferma che in realtà Contropiano e la Rete dei Comunisti/Stalinisti sono sigle di copertura di una struttura clandestina di pedofili, che opera fingendo di essere comunisti (seppur stalinisti) per meglio attirare le sue prede. Immagino che troverete senz’altro stimolante, sollecitante e interessante la discussione che ne potrebbe scaturire, di sicuro non “ingessata”. Inoltre essa, visto lo humour a cui vi richiamate, divertirebbe voi e i vostri associati, che potrebbero efficacemente replicare sull’argomento.
Né troppo gravi conseguenze ve ne potrebbero derivare. In fin dei conti, secondo tutte le legislazioni mondiali (anche nei vostri stati-guida, Cina, Cuba, Corea del Nord ecc..) il reato di pedofilia è considerato decisamente meno grave, seppur comunque turpe, rispetto a quelli di massacro e sterminio, soprattutto se reiterato a partire dagli spartachisti, passando da alcune decine di migliaia di libici, fino ai prossimi insurrezionalisti italiani (tipo “er Pelliccia”) che noi agenti dell’imperialismo italiano ci stiamo già preparando a eliminare in massa appena faranno qualcosa di più di mettere al rogo case private e macchine di poveracci, o riempire cassonetti di bombe-carta o assaltare sacrestie con conseguente distruzione di Madonne e statuette religiose.
Mo’ ci pensiamo un po’ su, certi che apprezzerete gli stimoli e le sollecitazioni che ve ne deriverebbero, impedendovi di rimanere “ingessati” (senza allusioni).
Ad maiora, Piero

lunedì 24 ottobre 2011

PEPPE FONTANA E' FUORI DEL CARCERE!!!!!

Dopo rinvii e pretesti di ogni genere, Peppe Fontana ha finalmente ottenuto l'affidamento in prova e quindi da oggi è fuori delle mura carcerarie, si spera per sempre. Può tornare nella sua Selinunte, può dormire a casa e può anche recarsi per lavoro in altri comuni. Una sorta di libertà vigilata, che si concluderà entro due anni quando avrà finito di scontare l'intera condanna.
Contando i benefici di legge, il nostro caro e rossoutopico Peppe ha scontato quasi 27 anni di carcere, dei quali ne ha trascorsi effettivamente 17 quasi tutti in carcere duro e in condizioni ultrarestrittive. Due anni fa un suo sciopero della fame si concluse col suo trasferimento nel famigerato carcere di Badu 'e Carros, a Nuoro. Ma proprio in Sardegna Peppe ha trovato l'affetto e la solidarietà di compagni e compagne che gli sono stati molto vicini in questa fase finale della sua prigionia.
Ho seguìto personalmente la vicenda di questo allucinante atto repressivo dello Stato e del Para-stato mafioso dal 1999, facendo volta a volta ciò che mi è stato possibile fare, e non ho parole per condannare l'ingiustizia compiuta verso un uomo che nell'istituzione totale ha osato ribellarsi e sconvolgere le regole del "gioco". Così come non ho parole per esprimere la gioia che provo in questo momento.
A Peppe trasferisco l'abbraccio di tutti coloro che hanno seguìto il corso drammatico della sua vicenda e che, in un modo o nell'altro, chi più chi meno, hanno contribuito a non farlo sentire solo e abbandonato tra le mura del carcere, hanno cioè contribuito ad impedire che la disperazione prendesse il sopravvento sulla ragione.
Ed è in nome di quella ragione che possiamo dire a Peppe: benvenuto nel nostro sistema generalizzato di libertà… vigilata.

Roberto Massari
(24 ottobre 2011)


E dall'Argentina arrivano le prime manifestazioni di gioia per la attesa notizia:

¡¡A veces los lunes arrancan con  noticias luminosas!!
Un abrazo
                  Alicia (Talsky)
… todo mi afecto y el del Grupo La Reja, al querido Peppe, que tanto luchó y lucha por la dignidad del ser humano. 
Que disfrute de su libertad, que tanto la merece.
Un gran abrazo.
(da Walter Alemandi, regista del grupo di teatro La Reja, cioè Le sbarre, del carcere di Las Flores, Santa Fe)

Anche dalla Colombia:

Buena noticia...  Ojalá que la dura experiencia lo haya fortalecido lo suficiente como para aguantar firme esta libertad "vigilada", como bien dice Roberto Massari.
Herico Campos C.


... e dalla Norvegia:
Non puoi immaginare la gioia che questa notizia mi da, non conosco Peppe Fontana ma ho letto la sua storia ... i miei auguri piú sinceri a questo compagno eroe!!

Ornella dalla Norvegia
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UN IGNOBILE ATTACCO AI COBAS: L’ANALISI DEL 15 OTTOBRE E COME CONTINUARE, di Confederazione Cobas

Nel sito di Contropiano, giornale della Rete dei Comunisti (questa micro-formazione, che andrebbe definita Rete degli Stalinisti, costituisce da sempre il "braccio politico" della RdB, oggi costituente principale del sindacato USB), che nelle settimane scorse aveva continuamente diffuso resoconti delle riunioni nazionali per il 15 ottobre che accusavano i promotori del corteo a P.S.Giovanni di essere al servizio del centrosinistra per depotenziare la protesta, è comparso un ignobile scritto, una vera dichiarazione di guerra nei confronti di Piero Bernocchi, portavoce nazionale dei COBAS, di Luca Casarini (oltre che di Vendola) e di quelle che vengono definite le “loro rispettive formazioni politiche", e cioè, per quel che ci riguarda, i COBAS.

Miserabili farneticazioni staliniste

Nel miserabile e farneticante testo stalinista Bernocchi e Casarini (e "le loro formazioni politiche") sono dichiarati "nemici di classe... personaggi e forze politiche simili a Noske e a quelli che hanno armato prima e poi protetto le mani degli assassini di Karl e Rosa (n.d.s. Liebknecht e Luxemburg) e che hanno fatto scempio degli spartachisti... che hanno dato un pieno appoggio alla guerra imperialista in Libia, e lo hanno tradotto sul piano nazionale nel partito della delazione al servizio delle classi dominanti…che vanno combattuti (n.d.s. manu militari?) in ogni contesto di classe come agenti attivi della borghesia imperialista". C'è poi la accusa, già fatta circolare ossessivamente in questi giorni, su posti nel "sottobosco politico governativo" che ci sarebbero stati promessi dal centrosinistra, leit-motiv di chi, sulla base di questa folle tesi, per un mese ha bollato, nel Coordinamento 15 ottobre e fuori, la proposta di concludere a P.S.Giovanni come scelta di "collaborazione di classe" e di resa alla borghesia e al centrosinistra.
La pubblicazione del delirante scritto, che ripropone le peggiori argomentazioni staliniste di parecchi decenni fa, ci pare una testimonianza decisiva e inappellabile sul ruolo svolto da questa gente nell'ultimo mese e sull'insanabilità del conflitto scagliatoci contro in tale periodo. Pensiamo che nessuno/a debba sottovalutare la faccenda. Se gente che è stata nel Coordinamento pubblica tale materiale infame, che invita a "combattere" (con ogni mezzo, si capisce dalla furia delle accuse) i Noske odierni, significa che ha deciso di dichiarare guerra in primis ai COBAS, a Global Project, a Uniti per l'Alternativa ma, più in generale, a tutti coloro che volevano un gigantesco corteo verso S.Giovanni, con accampate successive, come strumento per garantire non solo la più ampia partecipazione ma soprattutto la prosecuzione e l’allargamento della lotta contro la crisi.
Il lurido attacco è personificato ma è diretto alle nostre "formazioni politiche" e, data la violenza delle argomentazioni, lascia facilmente intendere che si possa (o si debba) arrivare nei nostri confronti alla aggressione fisica anche in forme pesanti, come meriterebbero "assassini alla Noske" o "nemici di classe" con le mani sporche di sangue delle Rose e Karl odierni. E’ ovvio che, come COBAS, noi ne trarremo le immediate conseguenze in ogni sede, troncando ogni rapporto con gente del genere e invitando alla massima vigilanza nei confronti di chi osa farci minacce di tale gravità. Ma ci pare altresì utile estendere il discorso a una serie di altre infamie nei nostri confronti che, pur non raggiungendo il parossismo violento di questo scritto, spiegano il clima in cui è maturato.

Cosa hanno fatto realmente in piazza i COBAS

Per l’opera di autotutela del nostro pezzo di corteo ma anche di una parte significativa del resto, come COBAS siamo stati accusati in rete e in alcune liste e blog di una serie di nefandezze inventate di sana pianta. Coperti dall’anonimato vigliacco, alcuni sedicenti “compagni/e” ci hanno accusato di avere, nell’ordine: a) consegnato alla polizia alcuni degli sciagurati sfasciacarrozze durante il corteo; b) caricato e picchiato parte degli stessi; c) sollecitato ed effettuato delazioni nei confronti degli autori di “prodezze” come l’incendio di una casa privata con  inquilini sottratti in extremis al rogo o di decine di auto a pochi metri dal corteo o il saccheggio di una sacrestia con annessa distruzione di statue religiose; d) il tutto pur di ottenere qualche seggio parlamentare nelle prossime (?) elezioni nelle liste di SEL.
In realtà i COBAS, rischiando pesantemente in proprio, hanno cercato di garantire in ogni modo l’incolumità del maggior numero di persone possibili e la volontà generale di concludere il corteo a P. S. Giovanni, per dare poi avvio in piazza ad una permanenza stabile e crescente della protesta. Lo abbiamo fatto a mani nude, tutelando in primis il nostro pezzo di corteo (per inciso il più grande tra quelli delle singole organizzazioni), ma attraversando strade in fiamme cercando di evitare danni ad ognuno/a, senza disunirci, subendo cariche di polizia a pochi metri senza un passo indietro e facendo muro in difesa dei non-organizzati, resistendo un’ora e mezza tra i lacrimogeni che arrivasse il resto del corteo a S. Giovanni, tra i raid delle camionette e la folle scorreria dei blindati con gli idranti che hanno persino investito il nostro camion e evitato il morto per puro caso.

giovedì 20 ottobre 2011

RUDOLF JACOBS, L’UOMO CHE NACQUE MORENDO (Luigi M. Faccini, 2011), di Pino Bertelli

... Il mio cuore aborre e sfida
I potenti della terra
Il mio braccio muove guerra
Al codardo e all'oppressor.

Perché amiamo l'uguaglianza
Ci han chiamati malfattori
Ma noi siam lavoratori
Che padroni non vogliam.

Dei ribelli sventoliamo
Le bandiere insanguinate
E innalziam le barricate
Per la vera libertà...

(Pietro Gori, Amore ribelle)


I. Sul cinema dell’indignazione di Luigi M. Faccini

L’alfabeto (non solo) del cinema non s’impara a scuola ma nella strada... non ci sono rinascimenti senza rivoluzioni... l’eccellenza del cinema d’autore o la qualità della libera espressione decongestiona i luoghi/schermi in cui si manifesta e l’autenticità di un’opera d’arte infrange barriere, inventa nuovi linguaggi, si situa fuori dal museo, dall’atelier delle istituzioni e riporta la memoria e la storia nella coscienza martoriata dei popoli... il cinema così fatto esprime lacrime e sangue, riso e stupore, ironia ed eversione contro tutto ciò che è costrizione sociale e dimenticanza politica... riattualizza il teatro della crudeltà revisionista della politica dominante (inclusi i tradimenti opportunistici della sinistra ascesa agli scranni del potere) e nella rottura dell’assoggettamento culturale/politico libera l’intelligenza del linguaggio cinematografico per riprendere e spargere negli occhi e nella testa di chi lo vuole, i seminamenti di democrazia e libertà usciti dal sangue versato della Resistenza tradita.
L’opera intera di Luigi Faccini, vogliamo ribadirlo, poeta solitario tra i più grandi del cinema sociale (o d’impegno civile) italiano, è una catenaria di situazioni costruite contro la superficialità generalizzata e ogni film del corsaro ligure è il frammento di un’idea di cinema e di vita che esprime l’insieme di un piano creativo dove ogni tematica trattata è un florilegio di segni e nulla e nessuno è innocente... nel suo cinema ciascuno esce per quello che è, o complice o spettatore o ribelle all’ordine costituito... nei suoi film la visione dell’artista è anche l’arte dell’esistenza e come il dinamitardo di tutte le morali (Friedrich W. Nietzsche) invita ad amare le proprie radici, la propria terra, i sogni di rivolta dei padri e nient’altro... è un fare - cinema del dispendio che se ne frega della genealogia delle abitudini o dei servilismi coatti, lavora su una cartografia dei corpi trasfigurati, della lezione della storia, dell’onnipotenza del disordine come morale imposta e in una gioiosa ebbrezza del disgusto figura i valori di una perdita (quella antifascista, specialmente) e scopre il magico nell’evento che privilegia l’istante del vero... padroneggia il tempo in rivolta di un’infanzia interminabile e con il sarcasmo, l’ironia, il sorriso del filosofo cinico (con la rabbia nel cuore) mostra l’eleganza, la maniera, lo stile e la disinvoltura le brutture di una civiltà omologata, piegata allo spettacolo della domesticazione sociale.

sabato 15 ottobre 2011

INFORME SOBRE EL IMPEDIMENTO DEL VIAJE A ITALIA, por Douglas Bravo

Desde Utopía roja expresamos nuestra más grande solidaridad hacia el compañero Douglas Bravo por el evidente atropello al que ha sido sometido impidiéndole salir de Venezuela y publicamos el informe que nos hizo llegar ayer (14-10-2011).

Roberto Massari querido hermano:
Hemos estado lamentando la violación de los derechos humanos cometida por el gobierno de Hugo Chávez contra mi y en general contra otros miembros de Utopía Tercer Camino. Y lo lamentamos mas todavía por cuanto todos los camaradas de Venezuela querían mi presencia en esos extraordinarios actos que ustedes y tú en particular estaban organizando en Italia con motivo del 13º encuentro de la Fundación Ché Guevara. No es nueva esta violación y represión contra nosotros, se viene dando desde la primera semana que Chávez tomó el poder, por ejemplo podemos citar que cuando se llevó a cabo la reunión internacional en San Vicente del Caguán (1999-Colombia) entre las Farc y el gobierno de ese país(Marulanda-Pastrán) yo fui invitado y estuve presente en esa localidad y para poder salir y entrar de Venezuela libremente algunos hermanos del gobierno que ocupaban altos empleos contribuyeron para que los cuerpos represivos no lo impidieran, cuando regresé me enteré que habían sido destituidos de sus cargos por su gesto de solidaridad conmigo, desde ese entonces hasta nuestros días siempre me han retenido en los aeropuertos y para poder salir, siempre he necesitado el auxilio de un alto empleado oficial amigo; un día fui detenido en la ciudad de Maracay, la policía y el gobierno no tenían argumentos válidos para esa acción, luego me fueron siguiendo sistemáticamente hacia dos ciudades del occidente del país donde participaría en actos públicos y programas de televisión.   
Diario Tal cual, Caracas
De tal manera que ahora la situación se hizo mas apremiante para el oficialismo chavista porque este gobierno se estaba sometiendo al examen periódico universal que realiza el Consejo de Derechos Humanos de la ONU y mis declaraciones en Italia tendrían repercusión inmediata contra un gobierno que se dice practicante del socialismo siglo XXI y es el mas antiobrero, negador de los DDHH, que ha hecho presos y ha asesinado a obreros y niega sus contratos colectivos y libertad sindical. En esta oportunidad el alto gobierno con sus aliados internacionales usaron la excusa de que yo tenía un auto de detención y una prohibición de salida del país del año 1998 (anexo) de cuando gobernaba todavía el presidente Rafael Caldera por una lucha ecológica campesina que lideré contra una multinacional del cartón, este auto de detención y prohibición de salida han caducado y además incluían a once personas algunas de ellas ocupando actualmente altos cargos públicos a quienes jamás se les ha molestado por esa razón, casualmente uno de esos funcionarios se encontraba en Ginebra en el mencionado examen de DDHH que hacían a Venezuela. Al día siguiente siete de octubre fui con mis abogados a reclamar y protestar contra el procedimiento anticonstitucional a que fui sometido y la respuesta oficial: “..esta orden de captura y prohibición de salida del país del año 1998 ya caducó, lo que si está vigente es un auto de detención del año 1952..” En ese año era dirigente estudiantil en la Universidad del Zulia donde estudiaba Derecho y fui detenido por la dictadura del General Marcos Pérez Jiménez al promover una huelga contra un fraude electoral cometido por ese régimen. Hermano Roberto no se trata sólo de un atropello reciente a mis derechos humanos, a la libertad de movilización, es un hecho sistemático contra miles de revolucionarios. A tal efecto te enviaré la lista de esas violaciones al movimiento obrero, indígena, estudiantil, campesino, religiosos de distintas corrientes, militares revolucionarios, pequeños productores, etc. Te anexo auto de detención, documentos con nuestra protesta y ambigua constancia de exclusión. Te ratifico que haré el esfuerzo para viajar a Italia este mismo año y para que tú puedas venir a Venezuela este año o el próximo. 
Abrazos  
Douglas Bravo

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: http://utopiarossa.blogspot.com/2011/10/informe-sobre-el-impedimento-del-viaje.html


venerdì 14 ottobre 2011

Adesione di Alex Pausides (Cuba) a Utopia rossa

Estimado Roberto:

Pienso que mi labor promocional de la poesía y de los poetas en América, buscando nuevos espacios para la acción ciudadana de los poetas y su participación al lado de los pueblos, tiene puntos de contacto con el trabajo que hacen en Utopía roja.
Por tanto considéreme parte de los que quieren realizar la utopía desde la izquierda libertaria.
El mundo debe ser transformado. Yo quiero estar con mi palabra en algún lugar de esa trinchera.
Un abrazo

Alex Pausides

(Bolsena, 14 de Octubre de 2011)

Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com/2011/10/estimado-roberto-pienso-que-mi-labor.html

mercoledì 5 ottobre 2011

USCIRE DALL'EURO O ENTRARE ALLA NEURO?, di Michele Nobile


(In relazione all’articolo di Moreno Pasquinelli, «La madre dei dottrinari è sempre gravida»*, con premessa fatta di considerazioni generali su come nella sinistra italiana non si faccia seria polemica politica). 

La polemica è il pepe della discussione politica, non fosse altro perché costringe a chiarire le proprie posizioni, ad approfondirle, oppure a rivederle, quando si è onesti. Per quanto mi riguarda è sempre bene accetta, anche perché è un bene rarissimo e stimolante.

Purtroppo, però, la sinistra post-Pci è da decenni disabituata a condurre polemiche in modo serio. Anzi, si può tranquillamente dire che se si tratta di manovre interne e di dichiarazioni estemporanee di basso cabotaggio, senza respiro strategico, fioccano editoriali e articoli; mentre, a fronte di una critica esterna radicale e argomentata, l’atteggiamento è semplicemente il silenzio. Un omertoso silenzio.
Uno spettacolare esempio della capacità di costruire e mantenere negli anni il silenzio è il modo nel quale Verdi, Pdci, Prc e gruppetti contigui - con il Manifesto e Liberazione - finsero (e ancora fingono) d’ignorare l’esistenza del libro I Forchettoni rossi. La sottocasta della «sinistra radicale» (a cura di Roberto Massari, Massari editore, Bolsena 2007). Il libro fu recensito dal Corriere della sera, dal Giornale (sorvolo qui su recensioni minori, radio e televisioni locali), e si vendette in qualche migliaio di copie: ma neppure una parola, assolutamente nulla, apparve sul Manifesto e Liberazione, neanche una drastica stroncatura, magari solo per rispondere alle recensioni di due grandi organi della stampa borghese, tra cui il più importante quotidiano italiano (recensioni politicamente «interessate», forse, ma corrette). Giunse solo un gentilissimo ringraziamento autografo, per l’invio del libro, da parte dell’allora Presidente della Camera e principale indiziato del libro (Fausto Bertinotti).
Durissimo nel giudizio a partire dal titolo, nel merito delle questioni il libro fu però scritto con metodo scientifico. Tutto è documentato, l’argomentazione rigorosa e pacata: la ricostruzione delle giravolte politiche, della manipolazione linguistica, del peso del finanziamento pubblico e delle carriere dei forchettoni rossi, le tensioni interne, le responsabilità al femminile. Obiettivamente ciò ne fa un volume indispensabile, non solo per il militante politico, ma anche per lo studioso di scienze politiche che sia interessato alla cosiddetta «sinistra radicale» del tempo.

Per chi dispone di una seppur piccola nicchia nel mercato editoriale e politico l’arma migliore, ancorché la più disonesta, è senz’altro il silenzio. Nella società dello spettacolo il silenzio equivale a una condanna a morte virtuale. Per fortuna, però, il silenzio non impedisce alla realtà di fare il suo corso o per lo meno non sempre. Nelle elezioni del 2008 l’elettorato, disgustato dall’opportunismo politico e dalla palese degenerazione di questa sottocasta della Casta politica, punì duramente la sedicente «sinistra radicale», cacciandola dal Parlamento. Le valutazioni dei circa due milioni di elettori che si astennero giustamente dal votare per Prc, Pdci e Verdi erano le stesse anticipate ne I Forchettoni rossi. E a me piace pensare che a qualche migliaio di quegli elettori il nostro libro può aver fornito argomenti razionali e documentati, superiori alla legittima reazione istintiva e disperata. Oggigiorno può ancora fornire argomenti per non ricadere nella medesima trappola.

A sinistra della sinistra forchettonica non è che la situazione del dibattito sia migliore. Siamo molto al di sotto di quanto sarebbe necessario per costruire un’area anticapitalistica. Ha dell’incredibile vedere come possano ancora sussistere residui togliattiani, nostalgici di Berlinguer e dell’Unione Sovietica o addirittura dello stalinismo. Per altri versi, il dato essenziale è la frammentazione e una sostanziale autoreferenzialità, negata ma praticata nei fatti, e la persistente inclinazione alla presentazione elettorale, con quel che ne consegue in termini di ambiguità politica o di settarismo partitico.

Capita, anche, che la polemica degeneri irrimediabilmente già dal secondo passo. È quanto accaduto in seguito al mio articolo «Tornare alla lira e cancellare il debito? Quando si vuole gestire il capitalismo meglio della propria borghesia e si finisce invece nel più ingenuo nazionalsciovinismo», nel quale ho preso posizione, in seguito a una discussione nella redazione di Utopia rossa, nei confronti delle assemblee di Roma (svolta il primo ottobre) e di Chianciano (22 e 23 ottobre, all’insegna delle indicazioni «Fuori dal debito! Fuori dall'euro!»).
Come è evidente, si è trattato di un articolo di polemica politica immediata, seria ma dura. Il taglio dell’articolo era molto diverso da quello prevalente nelle decine di articoli e saggi, e qualche libro, che nell’ultimo quarto di secolo sono andato scrivendo sull’economia mondiale del passato e del presente, inclusi alcuni «pesanti» articoli presenti nel blog di Utopia rossa sulla crisi in corso. Nella maggior parte dei casi di questi scritti l’intento politico è nei presupposti e nelle conclusioni, ma non struttura il contenuto né la forma.

Dal lato dei promotori dell’assemblea di Roma non ho avuto risposte dirette, cosa comprensibile dati anche i tempi ristretti. Posso sbagliarmi, ma mi pare che nell’assemblea sia emersa un’evoluzione nel senso che auspicavo e in qualche modo, a quel che mi si dice, i  contenuti del mio articolo sono riusciti a entrare nella discussione  (se tutto ciò è vero, e in che misura, ce lo diranno i fatti). Attenersi rigorosamente alla parola d’ordine «noi il loro debito non lo paghiamo» è cosa diversa dalla rivendicazione che «lo Stato italiano non paghi i suoi creditori»: nel primo caso ci si contrappone al padronato e allo Stato, nel secondo si difende lo Stato (imperialistico) dai suoi creditori.

Una replica al mio articolo è invece venuta dal compagno Moreno Pasquinelli, uno dei principali promotori dell’assemblea di Chianciano. Se non fosse andata persa, sarebbe stata un’ottima occasione di discussione, polemica quanto si vuole ma pertinente nel merito. E invece così non è andata e l’articolo di Pasquinelli può ben essere citato come un esempio da manuale di come non si debba condurre una polemica, o, più precisamente, di quel che è l’opposto di una polemica razionale, che si confronti con le reali posizioni dell’avversario. Si tratta di un bell’esempio di come l’esigenza garantire il proprio orticello a fronte delle critiche e di autoassolversi ricorrendo alla demonizzazione e al deliberato travisamento degli argomenti dell’avversario possano prevalere sull’uso della ragione.

Il mio articolo definiva nazionalsciovinista la rivendicazione dell’uscita dall’eurozona. Indubbiamente è un duro giudizio politico, ma non un attacco personale; mira a colpire il significato oggettivo della parola d’ordine, non la soggettività di chi la formula né la bontà delle intenzioni dei suoi sostenitori; il giudizio politico è accompagnato da argomenti, che si possono condividere o respingere totalmente, ma che per sostanza e forma rientrano nel quadro della discussione razionale. Lo stesso dicasi per il giudizio di quella soluzione come «retrograda» e «reazionaria». Sulle capacità politiche e intellettuali soggettive mi sono limitato a un garbato «ingenui», che può comunque essere ancora interpretato in termini politici e non necessariamente psicologici o personalistici.

L’articolo di Pasquinelli invece non è altro che un lungo attacco ad personam - la mia nella fattispecie - infarcito di improperi che non aiutano il lettore a comprendere i termini del dissenso. Ne è stato fatto un elenco, forse incompleto, ma certamente rappresentativo: velenoso, primitivismo politico, prolisso saggetto, corbellerie teoriche, da bocciatura secca, ultrasinistrismo teorico, indecente, la più classica delle fuffe (?), massimalismo parolaio, cazzate, puerili, pacchiano, sporco delle unghie, grossolano, volgare, capzioso, puerile (di nuovo), libello, carte false, asinerie economiche, castronerie.

Gli insulti personali che Pasquinelli mi rivolge sorprendono per varietà e numero, ma non per questo possono sconvolgermi: il callo agli insulti cominciai a farlo decenni orsono quando mi accadeva di riceverne da esponenti della Fgci o dai «marxisti-leninisti»; ma non era la norma e anche i secondi non scendevano tanto in basso, nonostante il loro riferimento ideologico allo stalinismo.
Lo stile, però, è vettore di un contenuto, la forma è essa stessa sostanza. Va quindi detto, innanzitutto, che questo stile e questa forma non sono congeniali a una polemica che abbia come fine la ricerca del vero e del giusto, per avvicinarvisi il più possibile.

Ma questo è solo l’inizio. Fatto ancor più grave, molto più grave degli insulti, è la sistematica deformazione di quanto da me scritto. Deformazione, anzi, non rende l’effettiva gravità del procedimento.
In realtà Pasquinelli mi attribuisce, direttamente o indirettamente, concetti che non solo poco o nulla hanno a che fare con l’oggetto del contendere, che non solo non ho mai pronunciato o scritto in quell’articolo, ma che sono in radicale antitesi con quanto da me detto, scritto e fatto in quasi quarant’anni di cosciente vita politica trascorsi sempre dalla parte della rivoluzione e senza grandi svolte o pentimenti ideologici. La cosa è senza giustificazioni perché Pasquinelli può anche non conoscere né la mia persona né i miei scritti, ma conosce più che bene Utopia rossa: e poiché si tratta di una corrente politica internazionale di cui faccio parte da quando essa mosse i primi passi meno di una quarantina d’anni fa, avrebbe avuto a disposizione qualche strumento teorico in più per evitare di attribuirmi in modo così spregiudicato e frettoloso concetti e posizioni che non appartengono né a me né a questa associazione politica.

Ho rilevato ben tredici passi puntuali nei quali Pasquinelli letteralmente inventa le mie posizioni o, per il contesto, fa in modo che il lettore possa ritenerle mie:
1) per me «ogni difesa della sovranità nazionale (...) sarebbe passatismo, far girare indietro la ruota della storia»;
2) per me «ogni suo atto [della borghesia], per quanto indesiderato, sarebbe non solo irreversibile, ma avrebbe, suo malgrado, una destinazione funzionale progressista»;
3) avrei un «atteggiamento indifferentista o disfattista rispetto a tutte le vicende politiche che esulino dai "puri" rapporti tra capitale e lavoro»;
4) per me «il movimento rivoluzionario non deve impicciarsi delle grandi questioni politiche ed economiche che sconvolgono le società borghesi»;
5) per me «i rivoluzionari debbono farsi i cazzi loro»;
6) per me «occorre infischiarsene se il sistema secerne un qualche fascismo»;
7) sono assimilato  a «certi ultrasinistri» che rifiutano «di difendere le lotte di liberazione nazionale» (menzogna colossale smentita, tra l’altro, dal secondo punto della Dichiarazione di principi di Utopia Rossa e, in tempi recentissimi, da un mio articolo del 17 settembre 2011, giusto dodici giorni prima dell’articolo di Pasquinelli: «Rosa Luxemburg e la questione nazionale (sulla Polonia, 2)», utopiarossa.blogspot.it;
8) esprimerei il «rifiuto della lotta politica tout court, osannando di converso la lotta sindacale»;
9) ragionerei «Come se ogni proletariato, dal momento che in potenza è portatore del socialismo, fosse non solo unilinearmente condannato a questa missione, come fosse socialismo in atto»;
10) sarei soggetto al «feticismo della lotta sindacale»;
11) per me «gli operai dovrebbero limitarsi a farsi fantomatici fatti loro, aggrappandosi ai loro specifici interessi corporativi»;
12) con la conseguenza di «giammai» opporre «un programma politico per un'uscita rivoluzionaria dalla crisi»;
13) respingerei riforme migliorative nell’ambito del capitalismo.

Ho rilevato questi passi perché ciascuno di essi può agevolmente essere smentito con articoli, documenti e addirittura interi capitoli di miei libri. Ma forse è più utile accennare all’effetto d’insieme, all’architettura complessiva del testo di Pasquinelli.

Pasquinelli mi associa a «Giuliano Ferrara, a Nichi Vendola, a Prodi o a Trichet»: la cosa è talmente comica che può solo far ridere (anche perché quei quattro, a loro volta, non sono associabili tra loro se non a costo di violente forzature della storia, della teoria e dell’attualità politica). Se si volesse restare sulla stessa lunghezza d’onda, si potrebbe allora associare Pasquinelli e chi sostiene l’uscita dall’eurosistema a Roberto Fiore e a Forza nuova, a Marine Le Pen e al Front National, insomma alla destra fascista o fascistoide, razzista e xenofoba. Ma forzando un altro po’ anche ai fautori di un nuovo zecchino aureo padano.  
Stando al metodo impiegato, a posizioni invertite Pasquinelli certamente mi assimilirebbe ai fascistoidi; ma io non mi sogno neanche di seguirlo su questa strada, preferendo mantenere l’attenzione sull’oggetto in discussione e sulle posizioni da lui realmente sostenute. Ciò non toglie che in sede di analisi, potrei anche fornire delle spiegazioni del perché la feccia della reazione europea sia antieuro e sia nazionalista anche in campo monetario, riconducendo il tutto alla tradizionale difesa della sovranità di uno Stato imperialistico.

Devo dire che in quasi quaranta anni di discussioni politiche non ero mai stato sottoposto a un così lungo elenco d’insulti e a una così articolata arbitraria invenzione delle mie posizioni: il tutto fatto freddamente, stilato nero su bianco, quindi con tutto il tempo per riflettere, piuttosto che nell’animazione del confronto faccia a faccia. La reazione di Pasquinelli appare eccessivamente scomposta, furibonda e motivata da pulsioni aggressive da far pensare con qualche fondamento che il mio articolo deve aver toccato qualche nervo scoperto o qualche zona dell’inconscio, al di là del contenuto politico in quanto tale.
Giustifico così il titolo scherzoso di questo pezzo, sperando di non sembrare offensivo a mia volta o perlomeno di non essere sceso al livello di Pasquinelli.
Purtroppo, però, è talmente forte la carica politico-psicopatologica da rendere impossibile lo sviluppo di una discussione seria e l’elaborazione di una mia controreplica nel merito. Prima di discutere del debito e dell’uscita dall’eurosistema sarei costretto a correggere punto per punto le falsità e le arbitrarie deformazioni del mio pensiero, entrando in controversie astratte o pseudofilosofiche, che ci porterebbero lontani dall’oggetto del contendere. Ma forse proprio per questo Pasquinelli vi ha fatto ricorso: perché l’attenzione fosse deviata dalla sostanza dei problemi, dall’evidente matrice nazionalista delle sue posizioni e dall’incongruenza se non infondatezza delle sue indicazioni da «economista»… al posto della borghesia finanziaria.

Non scenderò quindi su tale terreno: non m’interessa rispondere agli insulti, non m’interessa discettare dei massimi sistemi (con riferimenti storici fasulli o infondati da parte del mio interlocutore), non m’interessa riempire pagine di scrittura che invece di avvicinarci alla soluzione dei problemi reali ce ne allontanino per semplice gusto della polemica oppure per nascondere la propria impreparazione teorica. Tutto ciò sarebbe inutile e io non sono minimamente interessato a condurre una polemica sterile nel peggior stile della gruppettistica. (Una gruppettistica, sia detto en passant, della quale Moreno è certamente uno degli interpreti italilani più variegati e camaleontici, ma anche più settari e autoreferenziali.)

Solo una cosa mi sento in dovere di rilevare. Il testo di Pasquinelli trasuda disprezzo verso ciò che io ho definito il sano «istinto» di classe: l’istinto che fa sì che i lavoratori possano lottare con i sindacalisti «onesti» in difesa dei loro interessi immediati che, proprio per essere tali, si contrappongono congiunturalmente agli interessi del padronato e dello Stato capitalistico, e che comportano il rifiuto di schierarsi a favore della propria impresa contro la concorrenza, di appoggiare un settore del padronato contro un altro. Notavo che, su scala più ampia, ciò implica che i lavoratori possano e debbano giustamente rifiutarsi di prendere parte per questa o l’altra opzione politica borghese o per il proprio Stato imperialistico (come è quello italiano) nelle sue beghe con altri Stati imperialistici o con le banche internazionali. A tutto ciò Pasquinelli oppone una sorta di ultraleninismo che, ripeto, trasuda disprezzo nei confronti di quelle lotte reali, che oggi mancano o sono purtroppo del tutto insufficienti, che costituirebbero la condizione elementare perché si possa resistere al feroce attacco padronale e statale. Lenin avrebbe come minimo cacciato a pedate nel sedere dalla frazione bolscevica chi avesse inteso «difendere» la «sovranità» del proprio Stato imperialistico, in questo caso proponendo l’uscita dall’eurosistema e il ritorno all’italianissima lira. Ma è il disprezzo per quelle che sono dette lotte «corporative», limitate e parziali ma pur sempre condotte da donne e uomini reali fuori degli schemi politici di compromesso di classe, che disturba. E non solo sul piano politico, bensì anche sul piano teorico e soprattutto umano.

Nell’impossibilità e inutilità di una controreplica, concludo consigliando al lettore di leggere il mio articolo incriminato ed eventualmente gli altri già presenti in questo blog, poi – rompendo un’inveterata tradizione per la quale si cerca sempre di non far leggere i testi dell’avversario – invito invece a leggere o rileggere quello di Pasquinelli e, quindi, di trarre le debite conclusioni.

5 ottobre 2011
La riproduzione di questo articolo è libera. Si prega gentilmente di citare la fonte:

*[leggere l'articolo citato]

domenica 2 ottobre 2011

INTERVENTO ALL’ASSEMBLEA DEL 1º OTTOBRE «NOI IL DEBITO NON LO PAGHIAMO» (Roma, teatro Ambra Jovinelli), di Andrea Furlan

(per ragioni di tempo – troppi iscritti a parlare – non ho potuto fare il mio intervento. Questa è la sintesi scritta)

Come sarebbe "non remo più"? Insomma, siamo o non siamo sulla stessa barca?
Considero importante l'aver promosso questa giornata politica di discussione tra soggetti diversi in seno a ciò che resta della ex estrema sinistra italiana per verificare la possibilità della costruzione di un movimento anticapitalistico nel nostro paese che si dimostri capace di fronteggiare l'attacco ai diritti e alle condizioni materiali dei lavoratori, scatenato dalla Confindustria e dal Governo italiano.
Questa possibilità è il solo motivo che mi indusse a firmare l'appello promotore della giornata odierna. Sostengo questo perché nutro seri dubbi su varie questioni contenute nell'appello originario, e sue due in modo particolare. E poiché considero fondamentale la costituzione di un movimento politico che riattivi nel nostro paese il conflitto di classe,  ritengo che tale processo si debba fondare su basi politiche e teoriche solide.
Quando si asserisce che bisogna lottare contro il "Governo Unico delle Banche" (che è un’astrazione inesistente e non corrispondente alla realtà), si afferma in pratica la fine dell'autonomia politica ed economica degli Stati nazionali che compongono l'unione Europea i quali avrebbero perso loro sovranità in favore della BCE. Questa opererebbe come il grande fratello che impone alle singole borghesie nazionali e agli Stati la propria politica economica e sociale. Non è così.
Anzi, su questo versante, la questione è diametralmente opposta. La Comunità Europea continua ad essere la pura sommatoria – ancora nemmeno federativa - delle singole borghesie nazionali più forti le quali, mantenendo la piena autonomia politica, decidono in quella sede le misure comuni da adottare nella situazioni di crisi economica del sistema capitalistico, mantenendo un accordo di fondo sul fatto che le misure di austerity o i costi sociali della crisi vadano gravati sulle spalle dei lavoratori, paese per paese. Per quanto riguarda l’Italia, ognuno può vedere che non vi è alcuna contraddizione importante fra le posizioni della Confindustria e la BCE, vale a dire la portavoce sul piano economico-finanziario degli Stati imperialistici europei, ma vi è invece una sostanziale convergenza riguardo ai soggetti sociali che devono pagare i costi principali della crisi (lavoratori, pensionati, precari, migranti ecc), le strategia di risanamento del bilancio ecc.
Ne abbiamo avuto una conferma recente con la lettera della BCE firmata congiuntamente da Trichet e Draghi pubblicata dal Corriere della Sera cioè dal quotidiano della grande borghesia italiana (ed è quindi risibile che qualcuno ancora la chiami “lettera segreta”), nella quale emerge in tutta la sua chiarezza la totale assonanza di idee e obbiettivi che accomunano la Confindustria italiana e la BCE. Divergenze potevano esservi, forse, sui tempi di realizzazione della manovra economica, ma non certo sulla natura dei tagli e sulla sostanza antipopolare e antisindacale.
Da questo punto di vista dobbiamo constatare che la borghesia è l'unica classe che dimostra storicamente di saper fare tesoro degli errori commessi. Mentre nel passato, in momenti di grave crisi economica, le singole economie capitalistiche venivano lasciate a se stesse o addirittura si cercava di approfittarne in termini di concorrenza e accaparramento di fette di mercato, ora si assiste a una politica di “concertazione” e anche di relativo aiuto reciproco, allo scopo di mitigare la violenza esplosiva delle contraddizioni interimperialistiche. Diciamo per brevità che è una ricaduta della cosiddetta “globalizzazione” (termine non più di moda, al contrario di quanto accadeva ancora una decina di anni fa). Lo si vede chiaramente nell'aiuto che l’Unione Europea garantisce agli Stati che sono in maggiori difficoltà (come nel caso della Grecia) con prestiti e altre forme d’intervento concordato. La lettera di Trichet-Draghi ne è un altro esempio sul piano delle “direttive” piuttosto che sul piano dell’intervento finanziario diretto.   
L'altra questione concerne la cancellazione del debito o la sua moratoria. Su questo argomento tra di noi non devono esserci ambiguità. La crisi economica è la crisi del capitalismo e dello Stato borghese. E’ la borghesia italiana che ha contratto il debito con le banche estere ed è lei e solo lei che deve pagarlo se vuole o non pagarlo se non vuole o se le viene concesso. Non è un debito dei lavoratori, non è un nostro debito e non abbiamo ragione di intervenire (a parole, perché nei fatti l’impotenza è d’obbligo) sui tempi, i modi, il pagamento o il non-pagamento del debito.
E' ovvio che al momento, visti i rapporti di forza esistenti tra le classi e lo stato arretrato (men che difensivo) del conflitto sociale, questa posizione può esprimersi solo sul piano ideologico, stando ben attenti a non cadere nel nazionalismo filoborghese come fanno quei compagni o gruppi della ex estrema sinistra che si mettono a dare consigli alla borghesia italiana su come deve muoversi in questo o quel problema finanziario. I guai della borghesia italiana non ci riguardano direttamente. Noi possiamo solo tentare di contrastare il suo tentativo di far pagare i costi della crisi ai lavoratori italiani, stando anche bene attenti a quelle proposte politiche nazionalscioviniste che vorrebbero scaricare i costi della crisi italiana sui lavoratori di altri Paesi. Sostenere invece come faceva l'appello originario di questa assemblea (poi nettamente modificato nei comunicati successivi e nel titolo della giornata odierna, anche grazie alle critiche contenute nel testo di Michele Nobile, che Cremaschi ha positivamente ricordato nella sua relazione introduttiva pur non nominando l’autore) – e cioè che lo Stato italiano dovrebbe smettere di pagare il debito nei confronti della banche private, degli Stati esteri o delle agenzie internazionali - equivale a caricare la classe lavoratrice di un problema che non è il suo: e cioè il salvataggio del capitalismo e della propria borghesia nazionale dalle sue crisi. Forse del tutto ingenuamente non ci si accorge che così facendo ci si colloca in pieno all’interno delle compatibilità capitalistiche, tante volte a voce condannate.
Inoltre, non lo si dice esplicitamente ma è implicito che, se si chiede alla propria borghesia o Stato imperialistico di non pagare il debito pubblico, e quindi si suggerisce il non-rispetto sotto questo profilo di uno dei dettami più importanti di Maastricht, di fatto si sta chiedendo di essere espulsi dall'eurozona, con conseguente abbandono dell’euro per tornare alla lira o comunque a un’espressione monetaria nazionale. Anche qui l’“ingenuità” demagogica porta a non saper prevedere quali e quanti duri contraccolpi si avrebbero sul piano economico e sociale, con chiusura delle fonti di credito, crisi di settori produttivi, autarchia nel senso peggiore, nazionalistico e mussoliniano del termine.
In questo caso, non si comprende come qualcuno possa considerare la lira una moneta meno capitalistica dell'euro. O forse si pensa che in un sistema economico integralmente fondato sulla circolazione monetaria (è il caso del capitalismo e lo è ogni giorno di più), la cosiddetta economia produttiva possa essere separata dal finanziamento dell'investimento e dallo sviluppo del circuito finanziario mondiale? Si pensa veramente di poter liberare l’economica capitalistica italiana dai condizionamenti del mercato, in primo luogo del mercato dei capitali? Nella società del capitale (Italia compresa) la moneta racchiude in sé l’essenza del rapporto sociale dominante, la forma dello sfruttamento del lavoro salariato: ieri la lira, oggi l’euro, domani chissà… Durante la vigenza della lira, sempre con la scusa di dover far fronte alla crisi economica (seconda metà degli anni ‘70), il padronato italiano non è riuscito forse a togliere ai lavoratori la scala mobile dei salari e attaccato pesantemente i diritti che i lavoratori avevano conquistato con le lotte del 1968-69 e poco oltre? E il debito economico, il deficit di bilancio, le disavventure della lira ecc., non erano forse anche allora il pretesto per esigere, come nel 1992 sotto il governo Amato, i sacrifici ai lavoratori per ripianare il debito? Sacrifici che i governi democristiani e socialisti imposero con il consenso esterno del Pci e della Cgil e che poi il Pci-Pds-Ds applicò in prima persona con i governi Prodi-D’Alema-Prodi e con l’aiuto di Verdi, Comunisti italiani, Prc e l’intera casta dei Forchettoni rossi? In questa sala sono presenti vari esponenti della ex estrema sinistra che acconsentirono a quelle politiche di sacrificio dei lavoratori in nome della salvezza dell’economia italiana e che attendono solo la prima occasione possibile per provarci di nuovo. E a costoro farebbe certamente piacere che il mondo dell’opposizione sociale si avventurasse sul terreno dei “consigli” alla borghesia, invece che su quello della lotta accanita e capillare, ultradifensiva oggi che ci stanno togliendo proprio tutto, forse nuovamente aggressiva domani.
La fase politica attuale vede il movimento dei lavoratori sulla difensiva. Ma in realtà il fronte è ancora più arretrato visto ciò che sta accadendo sul piano dell’occupazione, dei diritti del lavoro, delle pensioni, della sanità, delle scuola ecc. senza che vi sia una risposta generale da parte di alcune categorie lavorative importanti, che invece avrebbero i numeri e le forze per contrastare il piano del capitale italiano (benedetto dalla BCE) ma non lo fanno perché a questo si oppongono le direzioni sindacali (oltre al PD e ai partiti limtrofi). Non viene fatto nulla di concreto per fermare l'attacco governativo e padronale, a parte alcuni inutili scioperi (inutili perché privi di obiettivi concreti da raggiungere, puramente dimostrativi), alcuni cortei e qualche fiammata di collera popolare. La verità è che i lavoratori italiani si trovano in netta difficoltà a fronteggiare l'attacco padronale a causa della scelta politica operata dal più grande sindacato italiano, la CGIL, avendo questa alle spalle decenni di politica concertativa e avendo ormai deciso di accettare la sostanza dell’attacco padronale come hanno dimostrato gli accordi sottoscritti il 28 giugno e il documento economico redatto insieme alla Confindustria il 4 agosto.
 A fronte di tale situazione, la nostra azione politica non può essere demagogica. E quanta demagogia si è sentita oggi in questa sala… Non ci vuole niente a spararle grosse, ricevere gli applausi e sentirsi così esonerati dall’indicare i passi concreti con cui avviare una vera lotta difensiva, concreta, autogestita e di massa, dei lavoratori e delle lavoratrici italiane. Nella fase attuale non c’è posto per i sogni e i grandi proclami su cosa debba fare o non fare la BCE, la borghesia italiana o i suoi governi. Se non riparte la lotta rivendicativa dal basso in alcuni settori importanti, ci si dovrà limitare al terreno della propaganda che, per essere efficace, dovrà essere costruita su pochi ma qualificanti punti comprensibili all’intero mondo del lavoro, immigrati compresi: 1) difesa della contrattazione nazionale, 2) difesa dello Statuto dei lavoratori, 3) difesa dello stato sociale (sanità in primo luogo), 4) difesa dei beni pubblici (acqua, servizi, territorio), 4) difesa del potere d’acquisto del salario, 5) autorganizzazione di massa contro il precariato, 6) difesa della democrazia a partire dai luoghi di lavoro (come si può venire a spararle grosse su presunte “Repubbliche” indipendenti in Sardegna o in Val di Susa quando un importante sindacato di base - i Cobas della scuola - da anni non riesce nemmeno ad avere il diritto di assemblea nell’orario di lavoro?) In poche parole bisogna lottare contro gli effetti immediati della crisi cercando di costruire una prospettiva all’interno di tale lotta. Il resto sono chiacchiere, demagogia.
Per quanto concerne invece la proposta organizzativa del movimento, sono convinto che ci dobbiamo dotare di una struttura realmente aperta e democratica, dove vi sia il rispetto totale delle varie sensibilità politiche presenti al suo interno, ma dove le decisioni siano realmente discusse e prese collettivamente indipendentemente dalla corrente politica d’appartenenza. Vi è l'esigenza ormai molto diffusa di uscire una volta per tutte dalla dinamica degli intergruppi in cui le singole soggettività politiche utilizzano il movimento per la crescita interna del proprio gruppo o miniapparato. A questo riguardo sono molto pessimista, anche in considerazione di come si sono svolte le ultime iniziative di lotta, le convocazioni di scioperi scriteriati e l’iter che ha preceduto questa stessa assemblea. Sappiamo quali gruppi politici sono prevalenti al suo interno e la cosa non ci tranquillizza affatto.
Nella situazione attuale, che vede la democrazia diretta in continuazione violata, concretamente e ideologicamente, dobbiamo reagire e dimostrare ai giovani, al mondo del lavoro fisico e mentale, agli immigrati, alle donne e alle comunità in lotta che siamo portatori di una nuova maturità politica: la maturità di chi vuole realmente costruire un movimento antagonistico che si dimostri all'altezza dello scontro di classe in atto in Italia e nel mondo, che si accrediti come un valido punto di riferimento per le lotte attuali e quelle future che prima o poi riprenderanno con o senza di noi.
Ovviamente, tutto ciò potrà essere possibile solo se si sgombra il campo dalle velleità elettoralistiche che hanno provocato le più grandi sconfitte di questi ultimi anni, in primo luogo sul piano etico, ma poi anche sul piano dell’analisi teorica e della formulazione di prospettive. Anche in questa assemblea c’è chi già pensa a come si riuscirà a votare ancora una volta per il Centrosinistra o per appendici del centrosinistra. E magari chi non ci pensa oggi, finirà col farlo – all’insegna della famigerata politica del meno peggio – alle prossime elezioni politiche. E a queste derive non c’è antidoto possibile al di là della crescente radicalizzazione delle lotte, la massima democrazia diretta e, diciamolo, anche l’egemonia di un’intelligenza politica in grado di capire quali siano i compiti della borghesia, quali dei lavoratori e l’abisso che passa tra i due.
Andrea Furlan
(RSA Filcams – CGIL)