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giovedì 14 novembre 2024
SABATO 16 NOVEMBRE ORE 15
martedì 12 novembre 2024
L’UKRAINE EST SEULE (OU PRESQUE)
de Patrick Le Tréhondat1
Les campistes, de leur côté, partagent cette appréciation. Dans leur vision, où comptent uniquement l’affrontement des puissances et où les peuples sont absents, la stabilité du régime russe est essentielle. Oh, certes, ils peuvent regretter les «entailles» aux droit humains que commet le Kremlin et ils peuvent même apporter leur soutien à tel ou tel oppositionnel russe emprisonné, mais en définitive ils considèrent que la lutte du peuple ukrainien pour sa liberté et la démocratie est un affaiblissement, et même un obstacle, à leur lutte «anti-impérialiste», en réalité essentiellement dirigée contre les États-Unis. La Fédération de Russie, au même titre que la Chine, constitue à leurs yeux une force de résistance aux puissances occidentales dominantes et ils défendent l’avènement d’un multipolarité radieuse qui n’est en définitive qu’un multi-impérialisme.
sabato 9 novembre 2024
LA TRATTA ARABO-MUSSULMANA
ENGLISH
Dear friends,
Inspired by a passage in the magnificent book by Rampini (Grazie Occidente! [West]), where the “woke" are criticized for condemning only the Western slave trade while remaining silent on the Arab one that preceded it by centuries, I decided to look at a site dedicated to the topic:
https://it.wikipedia.org/wiki/Tratta_araba_degli_schiavi [https://en.wikipedia.org/wiki/History_of_slavery_in_the_Muslim_world]. [https://es.wikipedia.org/wiki/Comercio_árabe_de_esclavos].
The article is well-constructed, well-documented, and convincing in every detail. I recommend reading it, even for those of you who are already familiar with the topic and know more about it than I did until recently.
I was astonished by some hugely significant facts:
The Arab-Muslim slave trade, primarily aimed at exploiting human beings in Africa but also in the Byzantine Empire and Europe, lasted approximately 13 centuries (from the 7th to the 19th century) and, in some cases, still continues. (The Western, or "Atlantic," trade lasted from the 17th to the 19th century...).
The Arab-Muslim trade affected about 17 million people. (The Atlantic trade affected approximately 12 million people, according to the highest estimates).
In the Arab world, the abolition of the slave trade was not due to an indigenous abolitionist movement (i.e., Arab or Muslim), but to external diplomatic and military pressures from major Western imperialist and colonial powers. (This fact could cause a mid-level "woke" person to have a heart attack). Christian missions (both Catholic and Protestant), which were primarily Western, also played a partially abolitionist role.
The Arab-Muslim slave trade and slavery continued on a much smaller scale until the 20th century due to the cautious and tolerant stance of the colonial powers towards the Arab elites, who sought to benefit from the economic advantages of slavery for as long as they could. (A separate discussion would be needed for the slavery practiced by the Ottoman Empire.)
The enormous economic benefits of the Arab-Muslim slave trade were among the significant reasons for the lack of industrial and modern development in these countries. I quote from Wikipedia:
«The trade also had consequences within the Arab world: after initial strong growth (coinciding with the Islamic Golden Age), the economy of Arab countries relied on slavery and did not activate those transformations that would have led other countries to the Industrial Revolution despite the large profits generated by the trade (British historian Arnold J. Toynbee estimated them at 20% of the invested capital, roughly double the profits generated in Europe by the Atlantic Trade). The great availability of slave labor did not stimulate the search for automation processes, and the industrial machines spreading in Europe from the 18th century onward did not spark interest in the Arab world».
If any of you find mention of this phenomenon among the explanations for the cultural and economic backwardness of the Muslim world in the much-praised Orientalism by Edward Said, please let me know.
Unlike the West during the era of slavery, there is no abolitionist or anti-slavery literature in the Arab-Muslim world for the centuries in which the trade was practiced. And perhaps this is the most dramatic and significant fact, enough on its own to dismantle the web of falsifications or sheer ignorance characterizing the woke world.
I again recommend reading the Wikipedia article, and if anyone is inclined to write an article for Utopia rossa/Red Utopia, it will be warmly welcomed. This brief reflection of mine can also circulate freely and perhaps be translated into other languages (starting with Arabic or Turkish...).
martedì 22 ottobre 2024
SI ESTOS SON HOMBRES…(conferencia a Buenos Aires)
lunedì 21 ottobre 2024
GLI ERRORI MORTALI DI YAHYA SINWAR E DI HAMAS
di Piero Bernocchi
ITALIANO - ENGLISH
Leon de Winter è uno scrittore olandese che, oltre ai suoi libri, svolge una presenza social-politica costante, con articoli pubblicati su vari giornali e riviste europee. A proposito di Sinwar ha scritto in un articolo su Neue Zurcher Zeitung, quotidiano svizzero con quasi tre secoli di storia: "Yahia Sinwar aveva trovato l'arma con cui sconfiggere gli ebrei e manipolare il mondo: la morte dei suoi stessi connazionali. Invita gli ebrei ad uccidere il suo popolo e gli israeliani non possono sottrarsi alla lotta contro Hamas. Sinwar sapeva come stremare gli ebrei, ricattarli e metterli gli uni contro gli altri". Effettivamente, il piano strategico di Sinwar, culminato nell'orrendo massacro del 7 ottobre, aveva una sua tragica grandezza strategica, che però, contrariamente alla lettura datagli da De Winter, è stata annullata da una catena di errori e di valutazioni, su possibilità non realizzatesi, commessi dal leader di Hamas e rivelatisi tragici e mortali per il popolo palestinese quanto per lo stesso Sinwar: catena di valutazioni erronee che qui proverò ad analizzare e commentare.
Il fallimento del tentativo di coinvolgere l’intero mondo islamico nell’attacco frontale a Israele
Sono in circolazione oramai da mesi attendibili documentazioni di varia e credibile provenienza che spiegano come il massacro del 7 ottobre fosse stato pianificato, magari con dettagli non identici, probabilmente da almeno un paio di anni e che fosse stato più di una volta rinviato, in attesa di scenari generali più favorevoli. C’è ampia concordia tra gli “addetti ai lavori” anche sui motivi, almeno due dominanti, che alla fine hanno fatto scegliere, a Sinwar e alla leadership interna a Gaza, la data del 7 ottobre. Tornerò più avanti sul secondo motivo, per soffermarmi qui su quello a mio avviso più rilevante e decisivo: e cioè l’assoluta necessità/obbligo di far naufragare l’ampliamento degli Accordi di Abramo (che avevano normalizzato i rapporti tra Israele, gli Emirati Arabi e il Bahrein) con l’inclusione dell’Arabia Saudita e forse pure del Qatar, e con la formazione di un assai influente blocco di paesi sunniti guidati dalla maggior potenza di tale mondo islamista, quella Arabia Saudita, grande e storica (fin dall’avvento degli ayatollah al potere a Teheran) avversaria dell’Iran sciita. Tra le intuizioni strategiche di Sinwar, quella di inserirsi come un cuneo che disgregasse il nascente schieramento favorevole alla normalizzazione dei rapporti con Israele e, nel contempo, saldasse definitivamente l’anomalia di un rapporto stretto, con conseguenti copiosi finanziamenti e sostegno bellico, tra un’organizzazione del radicalismo sunnita più estremo come Hamas e la roccaforte iraniana del mondo sciita (anomalia assoluta fino a qualche anno prima, laddove sunniti e sciiti si scannavano quotidianamente in tutto il mondo islamico, con percentuali di vittime ben superiori a quelle dei conflitti con cristiani, “occidentali” ed ebrei), è stata forse la più notevole e, almeno potenzialmente, quella in grado di aprire nuovi e inattesi scenari ai monumentali e apparentemente folli piani di distruzione totale di Israele.
Per giungere però ad attivare un tale scenario, ci voleva un’azione così terrificante, sconvolgente e spietata, manifestantesi nelle forme più barbariche possibili, che fosse in grado di scatenare una risposta almeno altrettanto selvaggia, brutale e stragista da parte del governo Netanyahu, contando sulla colossale umiliazione imposta all’intero apparato bellico e militare israeliano ma pure sullo smacco planetario inflitto ad un capo di governo, ultra-ambizioso, senza scrupoli e senza remore, come Netanyahu che, pur di cancellare dalla scena l’ANP e Fatah, si era fatto ingannare da Sinwar, favorendone per anni l’ascesa al potere a Gaza, con una posizione dominante su tutti i palestinesi. Ritengo, conseguentemente, che gli orrori del 7 ottobre non siano stati dovuti alla barbarie spontanea e alla epidermica orgia senza freni di voglia di vendetta da parte delle migliaia di armati palestinesi coinvolti, ma che fosse stata pianificata e voluta da Sinwar e i suoi (e per tale ragione documentata ed esibita platealmente con video, foto e registrazioni sonore quanto più raccapriccianti possibili) proprio per rendere irrealistica e di fatto impossibile una risposta solo “moderata” da parte del governo israeliano, provocato a tal punto da spingerlo a una risposta quanto più feroce, distruttiva e impopolare possibile. La scommessa di Sinwar, certo massimamente cinica e spietata, ma non pazzesca in linea di principio, e anzi potenzialmente foriera di successo, è stata appunto quella di spingere Netanyahu ad attaccare Gaza con una forza distruttiva smisurata e senza precedenti, che provocasse il maggior numero di vittime possibili tra i civili (più volte Sinwar ha ammesso senza imbarazzo di essere disposto a sacrificare anche un numero spropositato di suoi concittadini/e non in armi pur di creare le condizioni per la sconfitta e la distruzione di Israele), in modo da suscitare da una parte la più diffusa indignazione mondiale contro Israele (e in generale contro la presenza di uno Stato ebraico in Palestina, da liberare dal “fiume al mare”), e che dall’altra spingesse tutto il mondo islamico, sunnita o sciita, ad entrare in campo militarmente, contribuendo in maniera decisiva alla distruzione di Israele.
Malgrado la mia avversione politica, ideologica, culturale e morale all’islamismo da Guerra Santa e ai regimi dittatoriali come l’orrenda teocrazia iraniana e ad organizzazioni oscurantiste, reazionarie, ultra-misogine e omofobe come Hamas, Hezbollah, non posso negare che tale piano strategico aveva, almeno in potenza, quella che ho chiamato una tragica grandezza. E nella realtà di questo anno, tale piano il primo obiettivo lo aveva effettivamente raggiunto, cioè quello di suscitare una vastissima ondata di indignazione internazionale anche in ambienti fino a ieri insospettabili che, con grande rapidità, hanno accantonato gli orrori del 7 ottobre (che, anzi, hanno sovente salutato come un “riscatto” del popolo palestinese dopo decenni di sopraffazioni e umiliazioni, o come addirittura “l’inizio della Rivoluzione palestinese”), per reagire con una mobilitazione pressoché permanente contro il massacro in corso a Gaza, dove, indiscriminatamente, ai miliziani di Hamas uccisi dall’esercito israeliano si è accompagnato quasi ogni giorno un numero almeno altrettanto elevato di vittime civili, senza alcuna distinzioni tra uomini, donne, bambini.
Quello che però non è avvenuto, rivelandosi nei fatti il principale punto debole di tale ambiziosissima strategia e il più grande errore di previsione di Sinwar e di chi ne ha condiviso la strategia, è stato il generale fallimento del tentativo di coinvolgere l’intero mondo islamico, sunita e sciita, nell’attacco frontale a Israele. A posteriori, Sinwar ha dimostrato una sorprendente misconoscenza della variegata e ambigua complessità di tale mondo (più avanti vedremo come analoghi e altrettanto esiziali – per lui e per i palestinesi – errori di valutazione e previsione Sinwar li ha commessi anche nell’analisi della società israeliana e della psicologia dominante tra gi ebrei di Israele).
Sorprende, tanto per cominciare, che il leader indiscusso di Hamas abbia davvero creduto ai roboanti proclami bellici e agli appelli per la distruzione della “entità sionista” (come i dittatori teocratici iraniani amano definire Israele, per non doverne fare neanche il nome in segno di massimo disprezzo) di due affabulatori e incantatori di massa come Khamenei e Nasrallah. Meraviglia che una mente così attenta ad ogni sfumatura del pensiero della radicalità islamista abbia potuto davvero credere che il regime teocratico e Hezbollah avrebbero deciso di mettere a repentaglio il proprio potere e dominio nei rispettivi paesi sottomessi, l’Iran e il Libano, e persino la sopravvivenza dei propri regimi, per entrare in campo accanto ad Hamas nello scontro frontale con Israele, ben conoscendo la propria inferiorità sul piano militare, ma anche la fragilità del proprio dominio interno, di fronte a due società in maggioranza ostili, in aperta rivolta come nell’Iran dell’ultimo biennio o sottomessa ma non consenziente e collaborativa come quella libanese, incapace di impedire la progressiva dominazione della minoranza sciita sul paese ma fondamentalmente desiderosa di una sua possibile débacle bellica.
In verità, nei comportamenti di quasi tutti i paesi arabi e dell’Iran nei confronti della tragedia palestinese, c’è sempre stata una profonda strumentalità di fondo che Sinwar e i suoi avrebbero dovuto ben conoscere. Falliti i tentativi della Lega araba di sconfiggere militarmente Israele e di espellere la comunità ebraica dalla Palestina, la gran parte dei paesi arabi circostanti ha usato cinicamente il popolo palestinese e la sua lotta solo per creare le maggiori difficoltà possibili a Israele, per tenerla sotto costante pressione e per attivare la più diffusa solidarietà internazionale contro l’“entità sionista”. Solo che a questo cinico e strumentale disegno non si è mai accompagnata una reale solidarietà con il popolo palestinese, né in termini di significativi aiuti materiali né in quanto a dignitosa accoglienza ai profughi, almeno all’altezza dei proclami tonitruanti di circostanza. Figuriamoci se Hezbollah e la teocrazia iraniana potevano essere disposti a sfidare davvero, militarmente e in uno scontro aperto senza mediazioni, Israele, con la realistica possibilità di essere non solo travolti sul campo, ma anche di consentire alle diffuse opposizioni interne di saldare finalmente il conto alle insopportabili dominazioni ultra-decennali.
Ma Sinwar ha commesso un altro errore di valutazione, altrettanto inspiegabile per chi, in tanti anni, aveva avuto modo di studiare dettagliatamente, e verificare da vicino e con massima cognizione di causa, di contatti e di legami, i complessi e contorti, ambigui e mutevoli rapporti tra le varie statualità e comunità islamiche mediorientali. Il leader di Hamas parrebbe aver preso sul serio, e massimamente sopravvalutato, il profondo legame che era riuscito a stabilire - fin da quando ancora era in galera in Israele e riusciva a corrompere le guardie carcerarie, così potendo colloquiare senza limiti non solo con i suoi “sottoposti” a Gaza, ma persino con il regime iraniano - fin dal 2011 con il regime degli ayatollah. Certo, l’anomalia di un’alleanza, così stretta, impegnativa e senza precedenti significativi, tra sunniti e sciiti, solitamente in guerra permanente tra loro da parecchi secoli, può aver contribuito a fuorviare le percezioni di Sinwar, al punto da fargli scambiare un accordo tattico (utilissimo per l’Iran per mettere in un angolo il progetto di una vasta parte del mondo sunnita di normalizzare i rapporti con Israele in nome dei comuni interessi economici) per una generale e permanente collaborazione strategica. Ma il grosso del mondo sunnita non ha mai digerito il rapporto quasi “intimo” tra la parte combattente del mondo sunnita palestinese con l’Iran, e ancor meno il grande potere acquisito da Hezbollah, altro portabandiera del minoritario mondo sciita e anch’esso grande alleato di Hamas: e quanto questa ostilità fosse viva, malgrado il sostegno comunemente sbandierato per i palestinesi durante i massacri a Gaza, si è potuto verificare apertamente con i festeggiamenti in tanti paesi arabi sunniti alla notizia dell’uccisione di Nasrallah: mentre, al contempo, non pare proprio che l’uccisione di Sinwar abbia suscitato in questi paesi grandi ondate di solidarietà e cordoglio.
Gli errori di valutazione di Sinwar sull’attuale popolo ebraico di Israele
sabato 19 ottobre 2024
ISRAEL: EL MUNDO A REVÉS
por Nathan Novick
(desde Chile)
ESPANOL - ITALIANO - ENGLISH
Muy estimados/as:
HAY UNA ENORME CONFUSIÓN EN ESTE MUNDO QUE LA PODEMOS PAGAR MUY CARA:
El mundo al revés: EL ÚNICO PAÍS, ISRAEL, QUE ESTÁ ACTUANDO EN DEFENDER A SUS CIUDADANOS DE VECINOS REAL Y EXPLÍCITAMENTE GENOCIDAS, terroristas que destruyen y asesinan, responsables del pogromo del 7 octubre 2023, reciben la indiferencia del denominado “mundo civilizado” y el ataque de Organizaciones que se autodenominan “defensoras de Derechos Humanos”; todos ellos se hacen de este modo cómplices de los crueles terroristas
Israel y las FDI - que tratan de neutralizar a Hamás y a Hisbullá, incluyendo inteligencia y alta tecnología, procurando generar el mínimo de bajas inocentes en esta tragedia, a pesar de las dificultades que ello significa debido a la accion de esos terroristas que atentan contra las poblaciones civiles de Gaza, Líbano e Israel - EN LUGAR DE RECIBIR APOYO, SON CRITICADAS por organizaciones ideológicas que se hacen cómplices de los terroristas y de sus acciones tratando de que queden impunes de los crímenes de lesa humanidad que cometen y han cometido. Es una vergüenza
LO QUE PASA EN GAZA Y LÍBANO ES UNA ENORME TRAGEDIA, AMPARADA AL IGUAL QUE LO QUE SUCEDE EN DARFUR, (SUDAN), POR UNA TERRIBLE CONFUSIÓN de parte de muchos que se supone que tendrían que tener muy claro de lo que nos estamos jugando como humanidad:
Nos jugamos una elección fundamental, una elección que puede significar la subsistencia misma de la humanidad:
1.- LA ELECCIÓN ENTRE PROCURAR UN MUNDO MAS CIVILIZADO, (que busque sociedades en procesos de bienestar ciudadano, de respeto a la diversidad, de democracias activas, participativas, renovadas, de sociedades libres pero sin libertinajes, con Instituciones validadas que funcionen adecuadamente, con un estado de derecho vigente y respetado), o
2.- FRENTE A QUIENES HAN ELEGIDO MILITAR EN ORGANIZACIONES TERRORISTAS, CRIMINALES globalizadas, actuando cruelmente en todo el planeta con diversas motivaciones y por ahora con gran impunidad. A modo de simplificación, ese parece ser el futuro de nuestro planeta.
Esa es la realidad en este mundo. PIENSO QUE NO HAY QUE ESPERAR NADA DE LA ONU YA QUE ES UNA ORGANIZACIÓN FRACASADA, IDEOLOGIZADA Y POLARIZADA. Incluso de hecho están tomando riesgos con los “cascos azules” que no cumplieron su misión de tener desmilitarizada la zona sur del rio Litani en Líbano poniéndose ahora en riesgo para tratar de impedir las acciones de las FDI en su esfuerzo de neutralizar a Hisbullá! Eso, en lugar de obedecer evacuar esa zona según solicitó las FDI a fin de que no tengan riesgos… ¡Es increíble!! Que manera de tergiversar la ONU una de sus funciones prioritarias fundacionales.
Los países del mundo supuestamente “civilizados” han de diagnosticar sin confusiones lo que actualmente se enfrenta y actuar en consecuencia: de manera urgente y según estrategias apropiadas. Es tiempo de generar CON ALIANZAS DE PAISES. los medios para “neutralizar” la accion de los terroristas. Es urgente.
Pareciera que hoy por hoy, ISRAEL ES EL ÚNICO PAÍS DEL MUNDO QUE TIENE ESA CLARIDAD DE DIAGNÓSTICO Y ACCIÓN, SIMPLEMENTE PORQUE AL DEFENDERSE, ESTA DEFENDIENDO SU DERECHO A EXISTIR. Y ESTA VEZ HAN DICHO: “NO MAS CAMPOS DE EXTERMINIO: NO MAS CHIVOS EXPIATORIOS, CUALESQUIERA QUE SEAN LAS MOTIVACIONES DE LOS NUEVOS NAZIS Y LLÁMENSE COMO SE LLAMEN. NUNCA MAS”.
Cordialmente
Nathan Novik
ITALIANO
mercoledì 16 ottobre 2024
IMMAGINARE TINA
di Laris Massari
ITALIANO - ENGLISH
Tina Modotti è stata una donna fuori dal comune, capace di abbracciare una vita in cui arte, politica e amore s’intrecciavano in un equilibrio instabile ma affascinante. Il suo percorso si snoda attraverso i continenti, e tra rivoluzioni e passioni, lasciandosi dietro un’eredità profonda quanto difficile da decifrare. Nata nel 1896 a Udine, in una famiglia di umili origini, fin dalla giovane età dimostra una curiosità irrequieta per il mondo oltre i confini del Friuli. La terra in cui cresce è multilingue, multiculturale, e ciò plasma in lei un’apertura mentale che la porterà ben presto a lasciare l’Italia per cercare la propria strada all’estero.
È negli Stati Uniti, a San Francisco, che Tina inizia a scolpire la propria identità. Lavorando come operaia, vive la durezza della vita degli immigrati, ed è proprio tale contesto che l’avvicina ai circoli culturali e artistici della città. Nonostante le difficoltà economiche, sono il suo fascino e il suo talento innato che la portano presto a calcare i palcoscenici teatrali, e ben presto si apre davanti a lei il mondo del cinema muto, all’epoca in pieno sviluppo. Hollywood l’accoglie con favore e Tina potrebbe facilmente costruirsi una carriera luminosa, per la sua bellezza mediterranea e la capacità di adattarsi ai ruoli del nascente cinema statunitense. Il suo volto, pervaso da un’intensa malinconia, emerge nel panorama hollywoodiano, incarnando il tipo di bellezza enigmatica e misteriosa che il cinema muto sapeva esaltare. Ma la sua personalità complessa emerge fin da allora, provocando in lei insoddisfazione verso la superficialità del mondo dello spettacolo. Il suo spirito ribelle e la sua sete di conoscenza la spingono a esplorare nuovi orizzonti, sul piano artistico e sul piano umano.
Il suo incontro con il fotografo Edward Weston (1886-1958) segna una svolta fondamentale. La fotografia diventa per lei non solo un mezzo di espressione artistica, ma anche uno strumento per dare voce alle proprie convinzioni politiche e sociali. Weston è il suo maestro, il suo amante - era già sposata con «Robo», il pittore e poeta Roubaix de l’Abrie Richey (1890-1922) - senza che Tina rimanga mai nell’ombra: assorbe con intensità gli insegnamenti tecnici, sviluppando però un proprio stile fotografico, che riflette la sua visione profonda della vita e del mondo. L’intimità con Weston, pur intensa, non oscura la sua voglia d’indipendenza. È una donna che non teme di esporre la propria sensualità, né di rompere con le convenzioni dell’epoca. In un momento storico in cui la figura femminile era ancora strettamente legata a ruoli tradizionali, Tina sfida tali norme con audacia: lo fa nella vita privata così come nell’arte.
È in Messico, inizio degli anni ’20, che Tina trova la propria autentica dimensione. In una terra sconvolta dalle ferite ancora aperte della Rivoluzione, s’immerge totalmente nel fervore politico e sociale che pervade il Paese. La sua arte, fino a quel momento caratterizzata da una ricerca estetica di tipo formale, si trasforma in un potente strumento di lotta. Attraverso le sue fotografie Tina documenta la realtà delle classi più povere - operai, contadini e braccianti - diventando una testimone attiva di un cambiamento sociale in atto. Le sue immagini, intrise di umanità, sono al tempo stesso opere d’arte e manifesti politici, capaci di suscitare emozioni e riflessione.
Nel contesto messicano incontra Julio Antonio Mella (1903-1929), rivoluzionario cubano, con cui condivide una profonda passione amorosa, oltre al comune impegno politico. Mella rappresenta per Tina l’incarnazione dell’eroe rivoluzionario: giovane, carismatico, devoto alla causa socialista. La loro storia, breve e tragica, è un turbine in cui si fondono amore, passione e politica. La morte prematura di Mella, ucciso da mani sospette, lascia in lei una ferita che non si rimarginerà mai del tutto. Di lì in poi Tina s’immerge sempre più nel mondo della politica, avvicinandosi al movimento «comunista» d’obbedienza moscovita e diventando una figura di riferimento per il Soccorso rosso internazionale.
Con la sua fede negli ideali rivoluzionari, Tina si ritrova a navigare nelle acque torbide del presunto comunismo staliniano, legata a personaggi ambigui e manovrata da forze più grandi di lei. La ex attrice ed ex fotografa cede al mito della Grande Madre sovietica, come tante altre tragiche figure animate originariamente da sincero spirito comunista. La relazione con Vittorio Vidali (1900-1983), altra figura enigmatica della sua vita, la trascina ancora più a fondo nel mondo del Comintern. Un uomo che lei forse un giorno scoprirà essere, con forti probabilità, uno dei complici nell’omicidio del suo amato Mella. La tragedia nella tragedia…
Parte per la Spagna, si unisce alla lotta contro il fascismo nella Guerra civile. Anche qui, fra le trincee e le macerie, l’ideale rivoluzionario sembra logorarsi sotto il peso del tradimento con cui le principali forze politiche repubblicane soffocano la Rivoluzione spagnola.
Con il tempo, tuttavia, Tina inizia a intuire e poi forse a comprendere le ombre del mondo stalinista cui si è legata. Nonostante la sua adesione sincera agli ideali comunisti, le brutalità e i compromessi che osserva dall’interno del sistema la turbano profondamente. L’illusione di una rivoluzione pura, in grado di cambiare radicalmente le sorti dell’umanità, inizia a sgretolarsi di fronte all’azione reale del movimento, del quale lei riesce finalmente a vedere anche gli aspetti criminali. Nonostante ciò, non cessa di lottare, e alcuni elementi della sua biografia dimostrano che negli ultimi anni di vita il suo impegno assume una forma più consapevole, critica, anche se non è dato sapere fino a che punto lo sia.
Il Patto Hitler-Stalin (agosto 1939) è il colpo finale. La donna che aveva dedicato la vita alla lotta per la libertà e per gli ideali di una società socialista, comincia a rendersi conto che il sistema in cui aveva creduto sta tradendo gli stessi ideali che le erano stati cari. Raro esempio nel mondo del comunismo staliniano (rarissimo tra i comunisti italiani, come mostra più avanti il testo di R. Massari), Tina non approva il Patto scellerato da cui ebbe inizio la Seconda guerra mondiale. È un atto di profonda coerenza morale, un rifiuto di piegarsi alla logica spietata della politica. E proprio qui, nel suo ultimo atto di ribellione, Tina ritrova se stessa. Intuisce la portata devastante di un’ideologia che sacrifica l’individuo in nome di un’astrazione: non più l’artista manipolata, non più la rivoluzionaria sacrificata sull’altare di una causa che si è trasformata in tirannia, bensì una donna che ha scelto di restare fedele alla propria umanità, sino alla fine.
In tale contesto essa si riscatta, recuperando la grandezza del suo essere artista e rivoluzionaria, ma anche donna capace di vedere oltre le illusioni politiche del proprio tempo. Forse anche per questo la sua morte improvvisa a 45 anni - in circostanze molto simili a quelle in cui morirà Victor Serge (1890-1947) nella stessa Città del Messico, pochi anni dopo di lei - ha lasciato molto più di un semplice sospetto sulle circostanze in cui avvenne. E cioè che i sicari staliniani si siano voluti liberare di una donna che sapeva troppo, una testimone scomoda soprattutto dei molti assassinî di antifranchisti compiuti nella Spagna repubblicana.
Tina è stata, e rimane, un simbolo di coerenza, passione e lotta. È stata una fotografa talentuosa, una musa, una militante politica, una donna libera (anche sessualmente) in un’epoca che non perdonava tale libertà soprattutto alle donne. Non è stata indenne dalle colpe e miserie della sua epoca, e soprattutto del suo movimento di appartenenza: ha amato, ha sbagliato, è stata certamente complice più o meno consapevole dei crimini del Soccorso rosso internazionale, senza mai perdere la fede, però, nella possibilità di un mondo migliore. È stata disposta sino in fondo a confrontarsi con i propri limiti e le proprie contraddizioni: in queste imperfezioni risiede la sua grandezza.
Tina è una figura viva, che ci parla ancora della lotta per rimanere coerenti con se stessi, in un mondo che spesso ci chiede di essere altro. Oggi, guardando alla sua vita, non possiamo fare a meno di chiederci cosa significhi essere donne e uomini in una realtà in continuo cambiamento, una realtà che a volte ci tradisce, ma che ci offre sempre la possibilità di riscatto.
Cosa c’insegna, allora, la sua storia? Che vivere con integrità e coerenza gli ideali dai quali si è animati, non è mai facile, che la purezza ideale è fragile. Con la sua breve e tormentata esistenza - donna, artista e ribelle - Tina ha dimostrato che non c’è nulla di più rivoluzionario dell’essere sino in fondo, pienamente e ostinatamente, umani.
Che dire di Tina come artista? La si può valorizzare anche in un contesto contemporaneo? Oppure il suo lascito è inesorabilmente segnato dal tempo in cui visse e dai contesti politici in cui operò (fondamentalmente il Messico postrivoluzionario)?
Il concetto di arte va espandendosi. All’artista del nostro tempo non è necessariamente richiesto di mettere in atto un talento per ottenere il successo. La capacità espressiva si trasforma in un’interpretazione preconfezionata e veicolata per lo spettatore. Il messaggio dell’opera è divenuto fondamentale, più della sua forma espressiva, affinché essa possa definirsi «arte».
Ebbene, Tina non si considerava e non voleva che la si considerasse un’artista, né riteneva che la sua fotografia fosse arte, essendo fondamentalmente interessata al messaggio che le immagini ritratte dalle sue foto trasmettevano. Le sue opere grondano di messaggi ed è evidente che questo intento era prevalente per lei: era anche un suo limite, allo stesso tempo.
Eppure, ai miei occhi - sicuramente condizionati dall’artificialità degli sviluppi che la fotografia odierna sta vivendo - il suo modo di raffigurare la realtà meriterebbe il titolo di «artistico», o perlomeno di pionieristico avvio di un percorso artistico (quello del realismo fotografico, antisala dell’iperrealismo). Nel non considerarsi un’artista lei stava forse eccedendo in modestia (dote rara per i tempi correnti), ma io sarei portato a pensare che in fondo non avesse ragione.
E questo perché Tina esercitava l’arte della fotografia, nel senso che sapeva replicare la realtà con grande maestria, utilizzando i procedimenti più avanzati della tecnica fotografica dell’epoca sua: una delle più grandi fotografe dell’inizio del XX secolo, com’è spesso considerata. Basti osservare la differenza tra le sue fotografie e quelle di Edward Weston per capire che c’è modo e modo di catturare un momento del reale.
Quest’antologia rappresenta un omaggio a una figura complessa e affascinante, il cui nome è rimasto a lungo avvolto dal silenzio. A partire dagli anni ’70 e ’80 del Novecento, ricerche pionieristiche di studiosi italiani - come Riccardo Toffoletti e Pino Cacucci - hanno contribuito alla sua riscoperta, ciascuno a suo modo: Toffoletti con la ricostruzione del suo itinerario fotografico, Cacucci con la ricostruzione della vita di Tina esposta con la sua prosa avvincente. È grazie a loro, e ad altri studiosi e artisti, che l’opera e la vita di Tina hanno trovato nuovo spazio nel panorama editoriale e culturale. Un fenomeno che ha portato alla realizzazione di numerose mostre in tutto il mondo.
In particolare, va segnalata la bella esposizione al Palazzo Roverella di Rovigo (sett. 2023-genn. 2024), curata da Riccardo Costantini (n. 1981). Ho avuto il piacere di visitarla ed è lì che è nata l’idea di questo libro. Davanti a quelle immagini ho provato un forte senso di coinvolgimento nel mondo ideale di Tina, trovandomi immerso in un percorso di forte valenza emotiva, che intreccia la sua arte, la sua lotta e il suo destino.
L’antologia qui presentata è costruita seguendo criteri vòlti a esplorare soprattutto l’epopea politica di Tina Modotti, vale a dire un aspetto centrale troppo spesso trascurato nelle analisi a lei dedicate. Sono stati inclusi materiali in gran parte sconosciuti, e la scelta degli autori ha mirato a dar voce a figure che, come Dante Corneli, Pino Cacucci, Pino Bertelli e Roberto Massari, condividono una prospettiva fortemente antistalinista, contribuendo a una riflessione più completa e critica della sua esperienza di vita. L’aver dato voce, poi, a vari eminenti studiosi non italiani, è stata una scelta mirata a contestualizzare la vicenda di Tina in un quadro internazionale. Una tale selezione mira a far emergere oltre all’artista e alla fotografa di talento, anche la donna che ha vissuto intensamente e in modo contraddittorio le grandi trasformazioni del suo tempo.
L’antologia, con i suoi contributi inediti e l’approfondimento della dimensione politica, vuole dunque essere un tributo alla scoperta o riscoperta di una donna straordinaria, il cui lascito ci parla sicuramente del passato, in gran misura del presente e, perché no?, fors’anche del nostro futuro…
(settembre 2024)
ENGLISH
domenica 6 ottobre 2024
L’ANTISEMITISMO DEI NIPOTI DI HITLER
di Roberto Massari
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I nipoti di Hitler sono tanti, troppi, e comunque molto più di quanti l’umanità si sarebbe aspettata di dover tollerare nel Terzo millennio. Anch’essi vogliono lo sterminio degli ebrei, ma «solo» di quelli che vivono in Israele, a differenza del «nonno» che, all’epoca del Patto nazi-sovietico, preparava la «soluzione finale», cioè lo sterminio degli ebrei nel mondo intero.
In Medio oriente tale proposito era rappresentato da un campione dell’antisemitismo, molto popolare nel mondo arabo: Muhammad Amin al-Husseini, il Gran Muftī di Gerusalemme e una delle più alte autorità dell’Islam sunnita. Oltre a combattere gli ebrei, questi reclutava soldati mussulmani (arabi e bosniaci) per le SS naziste e per il Regio esercito fascista italiano. Nell’incontro con lui, del 28 novembre 1941 a Berlino, Hitler dichiarò che avrebbe fatto di tutto per impedire la nascita di uno Stato ebraico (come viene chiesto oggigiorno dai suoi «nipoti») e lo rassicurò sulla propria intenzione di sterminare tutti gli ebrei anche nella regione palestinese (idem come sopra).
L’esito della Guerra impedì che tali propositi si avverassero, ma il feroce antisemitismo di al-Husseini sopravvisse nella figura del primo presidente dell’OLP - Ahmad al-Shuqayrī - che rivestì la carica dal 1964 al 1967, prima d’essere sostituito da Arafat.
Qui però non voglio parlare dell’antisemitismo di matrice islamica (sunnita, sciita ecc.) né di quello dei nostalgici del nazismo e nemmeno dell’antisemitismo di Stalin negli ultimi anni del suo regno. Voglio invece stabilire dei criteri (il più possibile semplici e schematici) per definire la nuova ondata di antisemitismo dilagata nel mondo giovanile e nelle università occidentali, dopo il pogrom antiebraico di Hamas (7 ottobre 2023), nel sud di Israele, e dopo l’ennesima aggressione di Hezbollah (8 ottobre 2023), nel nord: entrambe le aggressioni concordate con l’Iran che a un certo punto ha aggredito Israele a sua volta, con valanghe di lanci di missili sulla popolazione civile. Lanci respinti dalla difesa israeliana, col concorso per la prima volta di alcuni Stati arabi: un fatto che rende ottimista chi crede nella pace, perché indica un calo dell'antisemitismo «storico» nel mondo arabo-mussulmano (vedi le reazioni di consenso per l’uccisione di Assan Nasrallah nel mondo sunnita), a differenza di ciò che accade nei campus e nelle manifestazioni dell’antioccidentalismo europeo e americano. Nel mondo arabo cala l’antisemitismo, mentre nell’Occidente cresce. Vallo a spiegare…
[In realtà io una spiegazione l'avrei, anche se un po’ azzardata sul piano storico.
L'isteria del nuovo antisemitismo - quello antioccidentalista, di «sinistra», universitario, da Internet, di moda ecc. - deriva dal fatto che le vittorie militari di Israele stanno rompendo lo stereotipo classico del povero ebreo, umiliato e sofferente, al quale la cultura «cristiana» dominante aveva abituato l’umanità per oltre 20 secoli dopo aver dato il massimo contributo alle persecuzioni antiebraiche (accusa di deicidio, Inquisizione ecc.). Nella cultura «cristiana» (cattolica, protestante e ortodossa) gli ebrei apparivano storicamente come un popolo destinato ad essere sempre sconfitto e perseguitato: dalla Guerra giudaica di Pompeo nel 63 a.C., passando per il 70 d.C., i pogrom medievali e moderni, e arrivando all’Olocausto nazifascista.
Dal 1948, però, i sopravvissuti dell’Olocausto e i loro figli, nipoti ecc. hanno rovesciato lo stereotipo, dimostrando al mondo di essere i migliori combattenti che ci siano, i più efficaci nel respingere le aggressioni, e i più motivati e decisi a difendere la sopravvivenza della propria nazione, pronti questa volta a farsi uccidere fino all’ultimo ebreo israeliano se necessario. Questo rovesciamento dello schema classico - del povero ebreo sofferente e perseguitato - ha innescato una reazione isterica in parte del mondo culturale che con quello schema mentale (una tipica proiezione sadomasochistica) era cresciuto e aveva persino elaborato un proprio modo di condannare l’Olocausto: un modo fatto di pietas cristiana verso chi ha tanto sofferto, con il relativo invito alla rassegnazione e la certezza che il tentativo di sterminare gli ebrei non si sarebbe più ripetuto… almeno fino al 7 ottobre 2023.
Ecco, alla base della nuova esplosione di antisemitismo «occidentale» c’è il rifiuto di rassegnarsi al loro destino di umiliazioni e sofferenze da parte degli ebrei d’Israele (quali che siano le differenze etniche e politiche tra loro). Dal 1948 essi hanno detto «basta» a duemila anni di persecuzioni, e da allora si hanno avute tutte le prove che continueranno a dirlo con sempre maggiore efficacia militare, passando dalla parte dei vincitori e non degli sconfitti. Al momento, per es., gli sconfitti sono chiaramente l’Iran e le sue organizzazioni terroristiche che purtroppo fanno pagare agli abitanti di Gaza e del Libano il prezzo in vite umane della loro follia genocida.
Può anche accadere, invece, che nell’antisemitismo «occidentale» (in particolare nelle sue componenti sadomasochistiche) si verifichi a un certo punto la classica svolta a favore di chi sta vincendo. Svolta che in embrione si può già cogliere in certi ambienti sunniti, ostili peraltro al regime iraniano: le masse pecorone che oggi inneggiano allo sterminio degli ebrei, potrebbero sentire nel futuro il fascino della superiorità militare israeliana, cioè di un popolo che usa la forza in forma vincente, e diventare così ultrafiloisraeliane, alla ricerca di altre fonti di persecuzione-rassegnazione (secondo lo schema rovesciato del «sacro carnefice», magistralmente descritto da Hyam Maccoby). Un processo analogo si era verificato su scala molto più vasta con l’amore di massa per lo stalinismo di Stalin e per il maoismo di Mao. Di quest’ultima follia fui testimone, osservatore diretto e tenace avversario fin dal suo nascere, e riscontro enormi analogie con la moda antisemita attuale. Spero di parlarne in altra occasione.]
Quanto segue, lo si può considerare un prontuario che riassume le posizioni che circolano negli ambienti del nuovo antisemitismo. È utile per coloro che, protestando contro Israele e inneggiando ad Hamas o Hezbollah, lo fanno in buonafede, senza sospettare di essere a loro volta degli antisemiti, eredi per l’appunto dell’antisemitismo nazista, fascista, ustascia, staliniano (dell’ultimo Stalin), o forse semplicemente vittime inconsapevoli delle falsità circolanti nel Web. Queste sono camuffate da antisionismo, antimperialismo, antioccidentalismo, antiamericanismo, terzomondismo ecc., anche se spesso rispondono semplicemente a stati psichici alterati.
Nell’esaminare i punti seguenti, chi dovesse riconoscersi anche in un solo di essi, farebbe bene a fermarsi, riflettere, informarsi meglio, leggere qualche buon libro e magari chiedere consiglio a chi ha dedicato la propria vita a combattere contro il nazismo, il fascismo, gli ustascia, lo stalinismo, l’hitlerocomunismo e altri nemici della civiltà umana. Ma soprattutto farebbe bene ad ascoltare liberamente la voce della propria coscienza, al momento sommersa dalla moda antisemita dilagante.
Le affermazioni che seguono sono tutte false. La vulgata antisemita invece le contrabbanda come vere. A volte però è anche grossolana ignoranza che spinge a crederle vere. Del resto antisemitismo e ignoranza hanno una lunga storia di convivenza simbiotica.
1) Il popolo ebraico (inteso in senso etnico-culturale e non necessariamente religioso) non esiste e forse non è mai esistito. È tutta un’invenzione pseudobiblica del sionismo, e le stesse cifre dell’Olocausto sono state gonfiate artificialmente. (Del resto, come avrebbe potuto Hitler sterminare 6 milioni di un popolo inesistente?).
2) Al termine della Seconda guerra mondiale non c’era alcun bisogno di trovare una collocazione terrritoriale in cui i sopravvissuti della Shoah potessero vivere come nazione indipendente e creare un proprio Stato.
3) Gli ebrei da tempo non erano più presenti in Palestina, sia pure come minoranza etnica. Dalla fine dell’Ottocento in poi non vi erano state ondate ebraiche immigratorie. Queste non continuarono a crescere sotto il Mandato britannico e in seguito alla vittoria del nazismo in Germania.
4) Gli arabi palestinesi si consideravano una nazione autonoma e in grado di costruire un proprio Stato, prima che nascesse Israele.
5) I Paesi arabi circonvicini fecero sempre di tutto per aiutare il mondo dei beduini, dei fellah e dei mercanti arabi palestinesi a sentirsi nazione e a creare un proprio Stato. Non avevano alcuna intenzione di appropriarsi, ognuno nel proprio interesse, di fette di territorio palestinese.
6) Nel 1947 le Nazioni Unite non decisero veramente di creare uno Stato degli ebrei nei territori palestinesi. O, ammesso che lo fecero, esse non rappresentavano la voce maggioritaria dell’umanità (Urss di Stalin compresa). Lo Stato d’Israele, invece, fu creato con la violenza armata ed espropriando con la forza i terreni agricoli dei fellah arabo-palestinesi. Esso non ha alcuna base legale.
7) Ogni Stato membro delle Nazioni Unite è libero di fare quel che vuole, incluso opporsi con la forza armata a delle decisioni che considera ingiuste e senza per questo dimettersi.
8) Il 15 maggio 1948 (giorno dopo la dichiarazione dello Stato d’Israele) non furono gli eserciti della Lega araba e di Egitto, Libano, Siria, Transgiordania e Iraq (alcuni di essi membri delle UN) ad aggredire Israele. Fu Israele che li aggredì.
9) I circa 700.000 palestinesi che uscirono da Israele tra il settembre 1947 e il 1948, non lo fecero perché spaventati dalla guerra che la Lega Araba aveva cominciato a preparare prima del voto all’Onu e che esplose il 15 maggio 1948, ma perché furono cacciati dal nuovo governo israeliano.
10) I circa 6-700.000 ebrei che nel 1948 uscirono in massa dagli Stati arabi ed emigrarono in gran parte in Israele, lo fecero per propria scelta e spirito sionista, non perché spinti da pogrom e altre rappresaglie antigiudaiche.
11) Il fatto che Israele vinse la guerra nel 1948 è stata una tragedia per il Medio oriente. Sarebbe stato meglio far scomparire subito l’«entità sionista».
12) Non è vero che Urss e Cecoslovacchia contribuirono con armi alla vittoria di Israele nel 1948, e che poi l’Urss cambiò linea diventando antisionista. L’Urss era stata sempre contraria alla nascita d’Israele.
13) Gli arabi palestinesi che furono costretti a fuggire furono accolti solo temporaneamente in campi profughi, ben presto sostituiti da civili abitazioni, scuole, servizi ecc. I Paesi arabi circonvicini fecero sempre di tutto per assicurare l’assimilazione dei profughi palestinesi e non vi fu mai traccia di ostilità nei loro confronti. Al contrario di ciò che ha fatto Israele con gli arabi palestinesi rimasti in Israele, che vivono un regime di apartheid e sono sottoposti a continue umiliazioni politiche. La loro rappresentanza parlamentare nella Knesset è solo una copertura propagandistica.
14) In Medio oriente non c’è alcun bisogno di regimi democratici. La democrazia d'Israele è solo una finzione: finte le elezioni, finto il pluripartitismo, finte anche le attuali manifestazioni antigovernative e finto addirittura il recente sciopero generale convocato nonostante la guerra. Tutto un paravento democratico finto che va distrutto il prima possibile.
15) Le stragi di palestinesi operate dal governo giordano nel 1970-71 (il cosidddetto «Settembre nero») sono un’invenzione del sionismo.
16) La guerra dei Sei giorni a giugno del 1967 fu un atto deliberato di aggressione da parte d’Israele e non un attacco preventivo contro un'aggressione che si preparava da parte di Egitto, Siria e Giordania.
17) Non è vero che il territorio d’Israele è oggetto di lanci missilistici ormai da decenni e da varie parti.
18) Chi si sacrifica per uccidere dei civili israeliani non è un terrorista, ma un partigiano (ANPI italiana).
19) Il progetto iraniano di sterminare il popolo ebraico d’Israele non è genocidio, così come non lo sono i progetti analoghi di Hamas e di Hezbollah.
20) È invece genocidio la risposta armata d’Israele al pogrom di Hamas, ai missili di Hezbollah, Iran, Houti e sciiti siriani.
21) Israele non ha diritto a difendersi come qualsiasi altro Stato della terra.
22) Israele deve rispettare rigorosamente il diritto internazionale di guerra perché così fanno i suoi avversari del fronte iraniano.
23) È giusto che le Nazioni Unite e altri organismi internazionali (Amnesty, Unicef, Croce rossa, Ong varie…) usino un trattamento particolare per Israele, denunciando ogni sua violazione della legalità in stato di guerra e tacendo sistematicamente su quelle dei suoi nemici.
24) Il pogrom del 7 ottobre, lo stupro di donne, gli squartamenti, la cattura di ostaggi civili e la loro eliminazione rappresentano la punta più avanzata della Resistenza palestinese.
25) È giusto lo slogan centrale di tale Resistenza - «dal fiume al mare» - che intende liberare il Medio oriente dalla presenza degli ebrei.
26) Gli «occidentali» che ripetono lo slogan «dal fiume al mare» non sono complici di genocidio, ma sono antimperialisti e antisionisti.
27) Manifestare per lo sterminio degli ebrei israeliani è un atto rivoluzionario, antimperialista e antisionista.
28) Lo sterminio degli ebrei israeliani non ha niente a che vedere con i progetti di Hitler e con l’antisemitismo storico.
29) Israele sta perdendo la guerra.
Vorrei aggiungere un 30° punto, ma non saprei come formularlo al negativo. Vorrei dire che nonostante la barbarie dei suoi avversari, la democrazia israeliana vince da oltre 70 anni e continuerà a vincere finché il regime degli ayatollah non sarà caduto e il popolo iraniano sarà liberato. Su questo ho grandi speranze. Ma resta il fatto che, comunque vadano le cose, oggi Israele rappresenta non solo l’unico baluardo della democrazia in Medio oriente, ma anche l’unica barriera concreta contro l’armamento atomico dell’Iran. Il coraggio del popolo israeliano e soprattutto la sua superiorità militare stanno evitando al mondo la catastrofe atomica che sicuramente deriverebbe dal possesso di bombe nucleari da parte del regime fanatico, medievale e ultareazionario degli ayatollah.
Ebbene, ecco il punto 30°: il non riconoscimento del ruolo fondamentale che sta avendo il popolo israeliano in difesa dell’umanità è un altro tragico esempio di antisemitismo (oltre che di cecità politica).
5/7 ottobre 2024
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