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giovedì 19 ottobre 2023

PER UN SOLO STATO (MULTIETNICO, LAICO E DEMOCRATICO) IN PALESTINA

di Michele Nobile 

 

1. L’azione di Hamas: un’operazione barbara e terroristica

I commentatori hanno paragonato l’Operazione alluvione Al-Aqsa a diversi eventi storici, ad esempio a Pearl Harbour (quanto a sorpresa e impatto dell’attacco) e all’offensiva del Têt (benché arginata, l’offensiva nordvietnamita del 1968 spinse l’amministrazione statunitense a iniziare trattative di pace). Scegliendo come data dell’attacco il sette ottobre Hamas, Jihad Islamico e le organizzazioni alleate ovviamente evocano l’attacco a sorpresa di Egitto e Siria a Israele nello Yom Kippur del 1973, di cui il giorno precedente ricorreva il 50° anniversario. 

Per tipologia delle forze d’attacco, impatto psicologico e ferocia dell’assalto sono tra coloro per cui il paragone più pertinente è con gli attentati terroristici di Al Qaida dell’undici settembre 2001. Degli almeno 1.300 israeliani uccisi nell’incursione, la stragrande maggioranza erano civili, ebrei d’entrambi i sessi e di tutte le età, tra cui molte decine di arabi israeliani, ai quali si devono aggiungere i feriti e circa 200 ostaggi rapiti. Nel complesso, il numero di israeliani uccisi in poche ore nell’Operazione alluvione Al-Aqsa è più di quattro volte il totale di quelli caduti nei quindici anni tra il 2008 e il settembre 2023. 

Nella valutazione delle conseguenze politiche e militari della complessa e sorprendente operazione di Hamas non si può prescindere dal suo carattere terroristico più che bellico nel senso usuale, non era cioè diretta a colpire la forza armata nemica e/o ad assumere il controllo del territorio. Benché carico di connotazioni negative e utilizzato spesso in modo più strumentalmente moralistico che razionalmente etico-politico, uso qui il termine «terrorismo» in modo descrittivo: come azione di un individuo o di un gruppo organizzato, il cui valore non risiede primariamente nel danno materiale inferto, ma nell’importanza simbolica del gesto in sé; obiettivo reale è incidere sulla volontà di lotta e l’orientamento dell’avversario politico e/o sociale, dunque con finalità di vendetta e intimidazione deterrente, oppure come gesto esemplare che ha l’intento di suscitare consenso e d’indicare - al popolo o alla classe di riferimento - la giusta strada da seguire: finalità che possono combinarsi. Bisogna anche distinguere il terrorismo messo in atto in nome di un popolo oppresso o di una classe dominata dal terrorismo di Stato come pratica di una casta o classe dominante: la distinzione è politicamente rilevante perché la coerenza tra il mezzo impiegato e la finalità può essere molto diversa nei due casi, tale da produrre effetti lontani da quelli desiderati o dichiarati. Ciò vale specialmente per i popoli oppressi e la classe dominata: il terrorismo tende a sostituire la guerra d’apparato alla lotta, all’organizzazione e all’autodifesa dei movimenti sociali.  

L’operazione lanciata da Hamas e altre organizzazioni aspira a conseguire le finalità terroristiche indicate: intimidazione nei confronti del terrorismo di Stato israeliano e dell’estremismo sionista, vendetta per le morti e le sofferenze dei palestinesi, gesto «esemplare» con cui si chiamano i palestinesi e i popoli e gli Stati arabi alla lotta per la giustizia e la liberazione dal dominio sionista e occidentale. 

Quel che è orribilmente «ordinario» per Gaza è invece straordinario per Israele e perciò psicologicamente e politicamente traumatico. Tuttavia, trauma non equivale necessariamente a paralisi. Se prima d’ottobre il governo decisamente di destra di Benjamin Netanyahu era in grave difficoltà, ora si è formato un governo d’unità nazionale; è stato dichiarato lo stato di guerra, per la prima volta dal 1973; i riservisti - in agosto più di 10.000 avevano dichiarato di non intendere servire se Netanyahu non avesse rinunciato alla sua riforma del sistema giudiziario - sono mobilitati: 360.000. 

Non è possibile che, per quanto fanatici e ottimisticamente speranzosi nell’aiuto esterno, i capi di Hamas e delle altre organizzazioni abbiano sottovalutato la distruttività della rappresaglia di Israele a fronte di un’azione di tale portata. Era assolutamente ovvio che l’attacco di Hamas e delle altre organizzazioni avrebbe condannato i palestinesi di Gaza a terribili e inutili sofferenze: al 18 ottobre erano già stati uccisi 3.478 palestinesi nella striscia di Gaza, tra cui 853 bambini (al 17) e 64 in Cisgiordania, i feriti nelle due regioni sono rispettivamente 12.500 e 1.284 (dati United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs). Su questo non ci si può fare nessuna illusione, si può solo sperare che si permetta al maggior numero possibile d’abitanti di Gaza di portarsi in salvo, invece di rimanere sotto assedio a fare da «scudi umani» per Hamas e «danni collaterali» per gli israeliani. E quali che siano le loro motivazioni ed obiettivi reali, discussi nel seguito dell’articolo, i capi palestinesi non possono non aver messo in conto la possibilità - se non la certezza - dell’annientamento militare. L’orografia di Gaza non è quella del Libano meridionale - dove è presente in forze Hezbollah - che con la sua complessità è favorevole alla difesa; la striscia di Gaza ha le dimensioni della seconda più piccola provincia italiana (Prato), non consente una difesa in profondità; non ha contiguità con Paesi - la Siria e l’Iran - che potrebbero sostenerla con rifornimenti d’armi e può essere completamente bloccata: in pratica Hamas non ha un retroterra logistico; le capacità militari e la qualità dell’arsenale di Hamas e Jihad Islamico sono molto inferiori a quelle di Hezbollah e presumibilmente hanno già scaricato la massa di razzi a disposizione. 

L’Operazione alluvione Al-Aqsa è stata l’esatto contrario di un’insurrezione popolare spontanea(che può risultare da e coinvolgere l’azione di un’organizzazione ma non è da essa determinata) e della prima Intifada, che fu il momento di massima simpatia per la causa palestinese. Allora fu veramente una sfida tra la fionda di Davide e la forza bruta del colosso Golia. Quella del 2023 è invece un’operazione terroristica freddamente deliberata, non un’esplosione di rabbia popolare

Detto questo è possibile passare dalla descrizione alla valutazione etico-politica, le cui ragioni approfondisco oltre. 

Per il popolo palestinese l’Operazione alluvione Al-Aqsa è una catastrofe umana, che non consegue da un errore di valutazione o da effetti non intenzionali e non prevedibili da parte di chi l’ha decisa. Agente materiale della catastrofe è la forza armata israeliana, ma la responsabilità politica è interamente di Hamas e alleati. Hamas usa i palestinesi di Gaza come carne da cannone per i propri scopi di potere. Hamas è un nemico della causa palestinese. Sono i palestinesi i primi interessati a eliminare Hamas e soci

Per gli israeliani e per il mondo, l’Operazione di Hamas è un atto di barbarie degno dei pogrom dei centoneri russi al tempo dello Zar o della nazista Notte dei cristalliÈ un orrore che ancora si uccidano ebrei in quanto ebrei. È un crimine al pari del massacro dei campi di profughi palestinesi di Sabra e Shatila. È un crimine di guerra e contro l’umanità, una vergogna che infanga la causa palestinese. Non si può ridimensionare questo fatto elencando i crimini di guerra israeliani, né si può giustificare con la barbarie quotidiana che da molti decenni subiscono i palestinesi. All’orrore non esiste giustificazione da qualsiasi parte venga, altrimenti tutti gli orrori, specialmente quelli dei potenti, troveranno sempre la loro giustificazione in nome del fine che giustifica i mezzi. Non è credibile manifestare per i diritti nazionali e umani dei palestinesi se non si condanna nel modo più chiaro e inequivocabile l’atrocità di Hamas e soci

Quali che siano le aspettative dei capi di Hamas, le caratteristiche terroristiche e gli effetti conseguenti dell’Operazione alluvione obiettivamente dimostrano l’impossibilità di sconfiggere militarmente Israele, il cui potenziale distruttivo, armi nucleari incluse, permane intatto. Conoscendo la storia si può comprendere che la prospettiva di vincere lo Stato di Israele mediante la lotta armata è morta come minimo più di quaranta anni fa, quando l’invasione del Libano da parte di Israele nel giugno 1982 determinò l’espulsione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) da quel Paese. L’Operazione alluvione ne è l’ultimo barbaro ma disperato colpo di coda che ne segna il definitivo fallimento. È provato che sulla via della lotta armata e del terrorismo il popolo palestinese non riuscirà mai ad ottenere giustizia. È diventata un percorso politicamente inutile e uno spreco di vite moralmente inaccettabile

L’ascesa di Hamas fu il risultato di un altro fallimento: quello di al-Fatah, degli accordi di Oslo e dell’aspirazione a uno Stato indipendente palestinese accanto a quello di Israele. D’altra parte, finché Israele rimarrà costituzionalmente uno Stato etnocentrico e sionista i palestinesi non potranno avere giustizia. A questo punto, l’unico obiettivo perseguibile è dunque quello di un unico Stato multietnico israeliano-palestinese, ovviamente laico perché non sopravviva la faida tra ebraismo e Islam. 

2. Una valutazione critica delle congetture sugli obiettivi di Hamas

Cosa ha spinto Hamas, Jihad Islamico e soci a un’azione a dir poco estremamente rischiosa se non proprio suicida? A questa domanda il governo israeliano e alcuni commentatori hanno risposto che dietro l’attacco a Israele potrebbe esserci la «mano» dell’Iran; o che, con o senza il coinvolgimento dell’Iran, l’Operazione alluvione Al-Aqsa intenda essere una sorta di detonatore per far esplodere la rivolta in Cisgiordania e dare impulso ad azioni offensive di Hezbollah dal Libano. Dal punto di vista militare, la possibilità di un’estensione e internazionalizzazione del conflitto sarebbe un modo per dividere le forze israeliane. 

Il gran numero di ostaggi – che con la loro dispersione ne rende impossibile la liberazione con la forza - e la stessa popolazione di Gaza possono fungere da «scudi umani» e frenare l’azione israeliana, per considerazioni circa le reazioni umanitarie nazionali e internazionali ad una catastrofe umanitaria. Questo può rientrare nei calcoli di Hamas ma, inversamente, si può anche pensare che intenda provocare una reazione israeliana così feroce da screditarla e da bloccare il ristabilirsi di normali relazioni fra Arabia Saudita e Israele, parte del processo dei cosiddetti accordi di Abramo che hanno già portato alla normalizzazione diplomatica fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco. 

Chi simpatizza con la causa palestinese può dire che si tratta di un’insurrezione popolare, della legittima reazione alle quotidiane violenze a cui Israele sottopone i palestinesi, alle inumane condizioni di vita nella striscia di Gaza sottoposta a blocco, alla storica ingiustizia della pulizia etnica contro gli arabi palestinesi e della creazione dello Stato sionista. Quindi l’attacco di Hamas sarebbe teso a dimostrare che Israele non è invulnerabile e che non può esserci pace in Palestina senza giustizia per i palestinesi. A chi si esalta o si mantiene ambiguo circa l’Operazione alluvione si deve fare presente che essa costa ai palestinesi altre migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati, oltre alla distruzione della già miserrima striscia di Gaza. 

Sui calcoli strategici di Hamas e compagnia si possono solo fare congetture, di solito più semplici e lineari della verità. Gli elementi e i problemi sottostanti queste spiegazioni devono essere tenuti in considerazione, ma nel complesso mi lasciano perplesso. 

Proprio nel marzo di quest’anno, con la mediazione della Cina, l’Iran e l’Arabia Saudita hanno ristabilito le relazioni diplomatiche e nuovamente aperto le loro ambasciate (l’Iran in giugno, l’Arabia in agosto); entrambi gli Stati hanno fatto domanda di adesione al gruppo Brics; e pare che secondo l’accordo l’Iran debba sospendere gli aiuti ai ribelli Houti nello Yemen, combattuti dai sauditi. È questo accordo tra le due teocrazie reazionarie islamiche - l’una sunnita, l’altra scita - che (forse) potrebbe danneggiare la normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele. Inoltre, dopo un anno di trattative indirette, nel corso dell’estate è stato concordato un understandig informale fra Iran e Stati Uniti (diverso da un accordo formale, che richiederebbe la ratifica del Senato Usa, dove incontrerebbe forte opposizione): l’Iran dovrebbe rinunciare ad arricchire l’uranio in suo possesso oltre il 60% (sotto la soglia utilizzabile per scopi bellici), collaborare con la Agenzia internazionale per l’energia atomica e liberare alcuni iraniani statunitensi imprigionati per spionaggio (quattro sono passati agli arresti domiciliari); in cambio gli Stati Uniti non inasprirebbero le sanzioni e renderebbero disponibili 10 miliardi di dollari di fondi iraniani «congelati», di cui la teocrazia iraniana ha assoluto bisogno; il 12 ottobre Stati Uniti e Qatar hanno concordato di bloccare sei di questi miliardi, che erano stati trasferiti in Qatar.  

La diplomazia mediorientale è quanto mai opportunistica, ma è in movimento: date le circostanze, non direi sia interesse della teocrazia iraniana sconvolgerne il quadro promuovendo, proprio in questa fase, un destabilizzante attacco di Hamas contro Israele. E volendo disturbare la diplomazia saudita si sarebbero potute attuare altre azioni, non solo contro Israele. Oppure azioni che, pur gravi, non risultassero necessariamente in una reazione israeliana tale da mettere a rischio il controllo di Hamas sulla striscia di Gaza. Per lo stesso motivo non mi convince l’idea che l’intento dell’Operazione alluvione sia spingere Israele a una sanguinosa invasione che, causando la strage di tanti bambini palestinesi, porterebbe discredito morale allo Stato ebraico. Questo mi pare più un consiglio a Israele che una motivazione per l’azione di Hamas. Il problema esiste, ma Israele e i suoi sostenitori hanno già dimostrato di poter mettere da parte gli scrupoli morali e questo è ancor più vero ora, proprio a causa delle dimensioni e dell’efferatezza del massacro di civili ebrei. 

Una considerazione di metodo: se non si ha una visione complottistica della storia, si deve pensare che uno Stato o un’organizzazione politica alleato di un più potente Stato non ne è per questo la marionetta: ha la sua agenda che non sempre coincide interamente, per obiettivi, tempi o metodi con quella del patrono. A volte l’alleato mette il patrono davanti al fatto compiuto, così costringendolo ad allinearsi; altre volte corregge il proprio orientamento, non per supina obbedienza, ma perché costretto dal patrono. Ciò vale anche per Hamas nei confronti dell’Iran e per Israele nei confronti degli Stati Uniti. 

 

3. Da «falciare l’erba» all’annientamento militare di Hamas e soci?

Tra la fine di dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009, l’operazione israeliana «Piombo fuso» a Gaza causò 2.300 morti per i palestinesi, per gli israeliani 66 tra i militari più cinque civili; durante «Margine di protezione», nel luglio e agosto 2014, vennero uccisi 1.300 palestinesi, tre civili e 10 militari israeliani, di cui quattro per fuoco amico. Tra il marzo 2018 e il dicembre 2019 decine di migliaia di abitanti della Striscia di Gaza presero parte alle Marce del ritorno. Le manifestazioni furono sostanzialmente pacifiche, con relativamente pochi scontri. Eppure, stando alle autorità israeliane, vennero uccisi 234 palestinesi, inclusi bambini, donne, disabili e giornalisti, e 33 mila furono feriti. Nel 2021, in dieci giorni a metà maggio, l’ennesima «guerra» (o episodio di un’unica lunga guerra) tra Hamas e Israele produsse almeno 256 vittime tra i palestinesi e 13 tra gli israeliani, tra cui diversi bambini.  

In questo anno 2023, dopo 87 giorni di sciopero della fame in protesta per la sua detenzione senza processo, il due maggio morì in un carcere israeliano Khadr ʿAdnān, noto militante del Movimento per il Jihad Islamico in Palestina. Alla notizia, il Jihad Islamico lanciò razzi oltre la striscia di Gaza, a cui seguì un cessate il fuoco. Tuttavia, tra il 9 e il 13 del mese Israele condusse una serie di attacchi aerei, che uccisero tre dirigenti del Jihad Islamico e alcune decine (almeno 13) di civili palestinesi. Da Gaza risposero con il lancio di centinaia di razzi, fino a un nuovo cessare il fuoco, negoziato dall’Egitto. A sua volta, l’attacco con razzi scatenato da Gaza il sette ottobre fa seguito a una precedente serie di gravi violenze da parte israeliana, in particolare nel mese di luglio a Jenin e il suo campo profughi in Cisgiordania, che causò almeno 12 morti, 250 feriti, ampie distruzioni di abitazioni e infrastrutture civili, la fuga di cinque mila rifugiati. E stando alle Nazioni Unite, per i palestinesi di Cisgiordania il 2022 è stato l’anno più micidiale dal 2005 e fra il 2008 e il settembre 2023 sono stati uccisi 6.400 palestinesi e 300 israeliani (https://www.ochaopt.org/data/casualties); inoltre almeno il 65-70% delle vittime degli attacchi israeliani sono civili. 

Quanto sopra mostra sinteticamente l’incommensurabile differenza nella potenza di fuoco a favore d’Israele fra le parti in conflitto e le sue conseguenze per la popolazione civile palestinese, qualcosa da cui non si può prescindere in sede di valutazione politica. Mostra anche un andamento ciclico il cui significato politico può essere compreso considerando la strategia militare israeliana. Ritengo sia importante anche per comprendere l’obiettivo di guerra israeliano nella congiuntura attuale e per definire le prospettive politiche per il futuro. 

La strategia israeliana nei confronti di Hamas e delle altre organizzazioni combattenti palestinesi nel XXI secolo è stata detta «falciare l’erba». Essa presuppone che non sia possibile influire con l’azione militare su motivazioni e obiettivi dell’avversario e neanche sul consenso di cui gode nella popolazione. Non mira però all’annientamento definitivo del nemico né all’occupazione del suo territorio, bensì a un costante attrito, a degradare le sue capacità operative distruggendone i mezzi e colpendo dirigenti chiave. L’effetto voluto è una deterrenza relativa, non assoluta: il mezzo preferito è perciò l’attacco dal cielo, mentre il territorio israeliano è protetto dall’esercito e dalle batterie anti-razzi della Cupola di ferro. Quando è superata una certa soglia, subentrano operazioni su ampia scala, come «Piombo fuso» e «Margine di protezione» prima citate. Il risultato è un ciclo di violenza più o meno intensa che, nel complesso, mantiene lo status quo. Addirittura, e dal punto di vista sionista la cosa ha una sua perversa logica, è stata avanzata l’idea che il governo israeliano (da molto tempo in mano alla destra e a Netanyahu) preferisse non distruggere Hamas perché questo gli darebbe l’alibi per mantenere una costante pressione repressiva sull’insieme dei palestinesi, sostenere l’impossibilità di una linea negoziale con dirigenti terroristi ed estendere gli insediamenti ebraici in Cisgiordania.  

Questo fino al sette ottobre 2023. Tuttavia, il trauma senza precedenti di un’offensiva terroristica palestinese di queste dimensioni, complessità e ferocia, non solo con razzi ma da terra, aria e mare dentro il territorio israeliano e con strage senza precedenti di civili, significa la fine di questa strategia. 

Il successo momentaneo dell’attacco di Hamas risulta, da un lato, da una lunga e meticolosa pianificazione e, dall’altro, dalla presunzione dell’apparato spionistico e militare israeliano di controllare la situazione sul campo (tenendo conto che a destare maggiore preoccupazione per Israele era la situazione in Cisgiordania e non a Gaza). Tuttavia, il successo dell’attacco palestinese è solo tattico e temporaneo, in questo simile all’attacco a sorpresa di Egitto e Siria del 1973.

Questa volta per Israele non si tratta di colpire duramente per logorare il nemico distruggendone depositi d’armi, mezzi, basi, personale. L’obiettivo del governo israeliano nelle prossime settimane non sarà più un debilitante attrito delle forze palestinesi di Gaza, ma la determinazione ad annientare definitivamente le loro capacità militari e, possibilmente, a eliminare il controllo istituzionale di Hamas nella striscia. Gli israeliani si prenderanno il tempo che riterranno necessario, ma l’unico modo per conseguire l’obiettivo è un’invasione totale. Questo implica pesanti bombardamenti aerei e d’artiglieria come quelli in corso che, nonostante l’impiego di munizioni di precisione, mietono la maggior parte delle vittime tra i civili e infrastrutture civili, oltre a colpire dirigenti palestinesi, basi militari e fortificazioni, centri istituzionali e di comando, depositi e fabbriche d’armi, siti di lancio e lanciatori mobili di razzi che gli israeliani riescono a individuare. Per stroncare le difese palestinesi sarà applicata - se non è già così - la «dottrina Dahiya», dal nome del quartiere di Beirut prevalentemente sciita raso al suolo dall’aviazione israeliana durante la guerra del 2006 contro Hezbollah, con l’uso sproporzionato della forza per causare la massima distruzione. 

Date le circostanze, pur di conseguire l’obiettivo di guerra Israele accetterà sanguinosi combattimenti strada per strada, che saranno letali per la popolazione che non sia stata evacuata: la sospensione delle forniture di acqua, cibo, energia ed elettricità e l’appello ai civili a lasciare la striscia è significativo delle intenzioni e della potenza di fuoco che gli israeliani intendono usare. Il destino degli ostaggi israeliani è appeso a un filo, come quello di oltre due milioni di civili palestinesi. «Ammorbidito» il terreno con i bombardamenti, rivisti i piani operativi, adeguatamente rifornite le unità (e i 360 mila riservisti, che sono la forza dell’esercito israeliano), prese misure nei confronti di Hezbollah, una massiccia operazione di terra, con l’azione combinata di tutte le armi dell’esercito israeliano, è l’unico modo per scovare tutti i razzi e ottenere la liquidazione militare di Hamas. 

In tutto questo esistono gli estremi del crimine di guerra per quanto riguarda il governo israleiano. Ma la responsabilità politica è anche di Hamas, Jihad Islamico e soci. 

 

4. Il dualismo di potere politico e territoriale tra Hamas e Fatah e l’Operazione alluvione 

Ritorno alla domanda: quale può essere il senso per Hamas e soci di lanciare un’operazione terroristica che, dal punto di vista convenzionalmente militare, appare come un suicidio? A mio parere la risposta a questa domanda non va cercata primariamente nella dimensione internazionale, ma nei rapporti interni al mondo palestinese. L’ipotesi che avanzo è che, nelle intenzioni di chi l’ha lanciata, l’Operazione alluvione Al-Aqsa avesse l’intento di conquistare la direzione totale della lotta dei palestinesi e di risolvere il problema del dualismo di potere politico e territoriale tra Hamas e Fatah - rispettivamente in Gaza e Cisgiordania. Obiettivamente, sarebbe un modo fanatico e cinicamente audace, ma estremamente contraddittorio d’affrontare il fallimento storico della lotta per i diritti nazionali del popolo palestinese. Resto nell’àmbito della congettura, ma ritengo che comunque vadano tenuti in considerazione i punti essenziali della questione.


La genesi più recente del dualismo politico-territoriale tra Hamas e Fatah risale agli accordi detti Oslo I (13 settembre 1993) e Oslo II (24 settembre 1995, che superò il primo) sottoscritti da Yasser Arafat, in qualità di presidente dell’Olp, e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Tra i più celebrati della storia della diplomazia mondiale e considerati addirittura meritevoli del conferimento del premio Nobel per la pace a soggetti - non proprio gandhiani - come Arafat, Rabin e Shimon Peres, questi accordi furono anche una grandissima truffa. Per i palestinesi potevano essere interpretati come il primo passo verso l’istituzione di un proprio Stato indipendente perché, in cambio del riconoscimento dello Stato di Israele, istituivano un’Autorità palestinese di autogoverno, con una propria polizia e responsabilità per l’educazione, sanità e servizi sociali, tasse e turismo, e prevedevano elezioni per un Consiglio palestinese quale corpo legislativo, ma lasciavano a ulteriori negoziati le questioni più spinose: quella del ritorno dei rifugiati dalla guerra del 1948 e dei loro discendenti, lo status degli insediamenti ebraici e di Gerusalemme. 

In realtà, gli accordi di Oslo non prevedevano affatto l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente, come è palese dal modo in cui (Oslo II, 300 pagine) strutturavano il territorio «palestinese». Basta osservare una mappa della Cisgiordania, divisa in tre zone. In pratica, Oslo II stabilì l’esclusivo controllo palestinese solo su circa il 3% della Cisgiordania, nella zona A (poi estesa), controllo congiunto israelo-palestinese su circa un quarto (zona B) ed esclusivo controllo israeliano sul resto, cioè circa i tre quarti della Cisgiordania (zona C), in gran parte interdetta ai palestinesi e popolata da insediamenti ebraici. In pratica il territorio era frammentato come fosse un arcipelago polinesiano: una serie di isole palestinesi separate dal mare di aree sotto controllo israeliano, una sorta di «riserva indigena», priva di elementari attributi di sovranità. 

È da prendere nota che meno di metà dei circa 12 milioni di palestinesi vive in Cisgiordania e nella striscia di Gaza, che metà risiede nei Paesi arabi e nel resto del mondo e che circa 1,5 milioni vivono in Israele, di cui un quarto rifugiati interni. Più di cinque milioni di palestinesi sono registrati come rifugiati, costituendo circa i due terzi della popolazione della striscia di Gaza, ma solo un quarto della popolazione della Cisgiordania. Questa demografia si riflette anche nella stratificazione delle diverse condizioni di vita: ad esempio, nella striscia di Gaza miseria e disoccupazione sono sempre state più alte che in Cisgiordania. Il punto è importante perché gli accordi di Oslo e l’obiettivo dei due Stati non risolve la questione della divisione interna al popolo palestinese né quella del «ritorno» dei profughi del 1948 e dei loro discendenti

Gli accordi di Oslo furono il risultato della prima Intifada e, nello stesso tempo, un modo per neutralizzarla. Fatto cruciale è che essi istituzionalizzarono in una sorta di semi-Stato non sovrano buona parte dell’apparato dell’Olp e di al-Fatah, a cui gli israeliani delegarono anche il compito di controllare e reprimere le violazioni degli accordi: il personale dell’amministrazione palestinese in Cisgiordania e Gaza crebbe fino a circa 140.000 unità, di cui non meno di un terzo addette alla sicurezza, in collaborazione con la sicurezza israeliana e ben finanziata dai donatori esteri. 

Tra repressione, operazioni militari, distruzione di abitazioni palestinesi e crescita degli insediamenti ebraici, la politica israeliana ha dimostrato in modo inequivocabile non solo che non potrà mai esistere uno Stato palestinese indipendente, ma che gli stessi accordi di Oslo possono essere calpestati; non ha mai preso vita neanche il tentativo di rianimarli, la Road map for peacedelineata da Nazioni Unite, Russia, Stati Uniti e Unione Europea del 2002 che, nella sua terza fase e a patto «dell’immediata fine di ogni atto di violenza contro Israele» (nella prima fase), indicava la costituzione di uno Stato palestinese, con confini provvisori. A questo si deve aggiungere, non in secondo piano, la corruzione pervasiva nell’amministrazione dell’Autorità e la crisi di al-Fatah a causa degli scontri per il potere tra fazioni e personalità.

In capo a dieci anni crollò il consenso per l’Autorità palestinese e al-Fatah, già visibile nei risultati delle elezioni del 1996, boicottate da Hamas e da altre organizzazioni: Arafat ottenne la Presidenza con l’88% dei voti validi ma, pur ottenendo il 62% dei seggi nell’Assemblea legislativa, al-Fatah ottenne solo il 30% dei voti validi, contro il 60% dei candidati indipendenti, che però ottennero solo cinque seggi. Il colpo di scena - a conferma dei risultati delle municipali dell’anno precedente, alle quali Hamas aveva partecipato - furono le elezioni del Consiglio legislativo del 25 gennaio 2006: Hamas vinse 76 seggi su 132, contro i 43 di al-Fatah. Iniziarono subito scontri fra Hamas e al-Fatah, che divennero più gravi nel 2007. I risultati finali di questa guerra civile fra palestinesi furono: 

a) 350 morti, migliaia di feriti, una stretta repressiva sui dissidenti in entrambi i territori; 

b) la divisione delle amministrazioni della Cisgiordania e della striscia di Gaza, la prima in mano ad al-Fatah e all’Autorità palestinese, la seconda in mano ad Hamas e altre fazioni; 

c) poiché Hamas è classificata organizzazione terroristica e isolata dagli aiuti e dalla diplomazia internazionale - innanzitutto perché non riconosce né Israele né gli accordi di Oslo e quindi persiste nella strategia delle armi - crebbe ulteriormente la polarizzazione socioeconomica - in miseria e disoccupazione - tra la striscia di Gaza, sottoposta a blocco economico, e la Cisgiordania, sulla base di un divario già da tempo esistente a causa del differente atteggiamento dell’Egitto e della Giordania nei confronti delle vicine regioni palestinesi, prima e dopo il 1967.

Il cinico calcolo politico della direzione politica di Hamas - presumibilmente non dei fanatici esecutori - è che, pur riducendo in macerie la striscia di Gaza, Israele decida di non procedere con l’invasione totale della striscia o che non possa poi controllarne, se non temporaneamente, il territorio e la politica. Il sacrificio tattico di Gaza e della sua popolazione smaschererebbe definitivamente l’opportunismo di al-Fatah e dell’Autorità palestinese, quindi conquistando ad Hamas, Jihad islamica e soci l’obiettivo strategico della direzione unica della lotta, sia in Gaza sia in Cisgiordania. 

Quali che siano stati i calcoli che hanno portato all’Operazione alluvione Al-Aqsa, sarà questa la strategia di Hamas e soci a conclusione della guerra. Folle, cinica e barbara, questa strategia ha però una sua logica fanatica, quella del martirio elevato alla potenza ennesima. Ha una sua logica anche perché non fa altro che portare alle estreme conseguenze la strategia della lotta armata per la distruzione di Israele, che ora è finalizzata a uno Stato palestinese islamico. Tuttavia è pure estremamente contraddittoria, perché nasce proprio dal fallimento di quella prospettiva militare, che l’Operazione alluvione Al-Aqsa forse intende «sbloccare» mediante un’azione senza precedenti. 

È fallita la strategia formulata da al-Fatah dopo la guerra arabo-israeliana del 1967, fatta propria dalla Olp nel 1971: conquistare con la lotta armata, aperta anche agli ebrei, uno Stato democratico palestinese. Erano importantissimi il rigetto dello sciovinismo, sia arabo che ebraico, e la distinzione fra il sionismo, un’ideologia politica, e il popolo ebraico; tuttavia non riconosceva gli ebrei in quanto collettività nazionale. 

È fallita anche la possibilità di giungere alla coesistenza di due Stati, l’uno ebraico, l’altro arabo-palestinese, alimentata dall’illusione degli accordi di Oslo. I fatti dicono che, fino a quando Israele sarà uno stato ebraico ed etnocentrico, un’entità politica palestinese non potrà mai avere i caratteri di sovranità politica e di vitalità economica propri di un autentico Stato. 

Sono falliti sia l’obiettivo dello Stato democratico palestinese che quello dei due Stati. Sono fallite sia la lotta armata sia la via diplomatica

L’alternativa a questi fallimenti è l’incubo peggiore dei sionisti e dei fanatici della guerra santa, perché ne nega la ragion d’essere: che arabi ed ebrei riescano a pacificamente convivere in un unico Stato. Per i palestinesi arabi significherebbe riprendere l’obiettivo originario della lotta per un unico Stato democratico, ma con due fondamentali differenze rispetto al passato dell’Olp. La prima è che questo Stato si fonderebbe sull’esplicito riconoscimento di due nazionalità con eguali diritti, l’araba e l’ebraica; la seconda differenza riguarda la forma di lotta: politica, non bellica. Gli ebrei d’Israele dovrebbero invece prendere piena coscienza della differenza fra sionismo, che è uno specifico movimento nazionalista e colonialista, ebraismo e nazionalità ebraica. Il che richiede un movimento di lotta contro i rispettivi nazionalisti sciovinisti e fanatici, in cui confluiscano arabi palestinesi ed ebrei israeliani, la ridefinizione delle loro identità, in definitiva il rivoluzionamento sia della scena politica palestinese sia di quella israeliana. 

Mi rendo conto di quanto siano enormi i problemi psicologici, politici e sociali, ideologici e pratici di questa strada, e di quanto essa sia assai lunga e difficile. Tuttavia non se ne vedono altre che possano mettere fine al susseguirsi di angherie, attentati, rappresaglie e controrappresaglie. I primi interessati a percorrerla sono proprio i palestinesi di Gaza, Cisgiordania, Israele. È su questa strada che si può ricostruire un movimento internazionale credibile e potente per la pace e la giustizia in Palestina-Israele. 

 


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