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domenica 21 marzo 2021

Elezioni legislative in Israele, la quarta volta in 2 anni

Dalle urne risposte sull'instabilità politica e il futuro dei palestinesi

di Andrea Vento

(Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati)  

 

Le nuove, imminenti elezioni anticipate israeliane per il rinnovo della Knesset, alle quali il Paese è chiamato per la terza volta in 3 anni, causate, da un lato, dalla frammentazione e dalla litigiosità delle forze politiche e, dall'altro, dai problemi giudiziari del premier di destra Netanyahu, pongono al centro del dibattito, oltre alla crisi economica e sociale innescata dalla pandemia, la questione della tipologia di politiche da adottare nei confronti dell'Occupazione dei Territori Palestinesi.  

Le posizioni interne di Israele in merito alle politiche espansionistiche e di colonizzazione dei Territori Palestinesi, oltre che frutto di dinamiche autonome, come il graduale spostamento a destra dell'asse politico degli ultimi 20-25 anni, risultano inevitabilmente condizionate dagli atteggiamenti della comunità internazionale. L'appoggio più o meno incondizionato statunitense, con i livelli inesplorati raggiunti dall'amministrazione Trump, e il basso profilo delle potenze e dell'Unione Europea, non propense a limitare i propri rapporti con Israele, nonostante le ripetute violazioni del diritto internazionale, hanno finito per rafforzare le posizioni oltranziste della destra tradizionale, dei partiti dei coloni e di quelli religiosi. Le migliorate condizioni di sicurezza degli oltre 600.000 israeliani insediati nelle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, inoltre, sono stati percepiti all'interno di Israele come il raggiungimento di un livello di "sostenibilità" del conflitto, allontanando la necessità di risoluzione dello stesso. Una porzione crescente di israeliani, pertanto, sono arrivati a ritenere il mantenimento dell'occupazione un "costo accettabile" e, comunque, il "minore dei mali". 

Conseguentemente, il sostegno al cosiddetto "partito della pace" a favore della soluzione a "Due Stati" ha perso progressivamente consensi, scendendo al livello più basso dell'ultimo ventennio, come indica anche il sondaggio effettuato fra giugno e luglio del 2018 dal Palestinian Center for Policy and Survey (Psr) e il Centro Tami Steinmetz per la ricerca sulla pace dell'Università di Tel Aviv[1]Nell'indagine demoscopica veniva presentata una proposta di accordo basata sui "Due Stati" (concernente uno stato palestinese smilitarizzato, il ritiro israeliano sulla linea precedente al 1967, la Green line, con scambi territoriali, il rimpatrio di 100.000 rifugiati palestinesi in Israele come parte del ricongiungimento familiare, Gerusalemme Ovest come capitale di Israele e Gerusalemme Est del futuro stato palestinese, il quartiere ebraico della Città Vecchia e il Muro Occidentale sotto la sovranità israeliana e i quartieri musulmani e cristiani e il Monte del Tempio sotto la sovranità palestinese) che ha raccolto solamente il favore del 39% degli ebrei israeliani e del 37% dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania.

Lo stesso sondaggio ha sottoposto al vaglio degli intervistati anche una versione ampliata dell'accordo, con clausole che si riferiscono alla creazione di un sistema democratico in un futuro Stato unitario e pari diritti per tutti i cittadini israeliani (arabi ed ebrei), dal quale è emerso che il 45% dei Palestinesi dei Territori e, sorprendentemente, il 42% degli ebrei-israeliani hanno dichiarato la loro intenzione di sostenerlo. 

Dati significativi, da un lato, da non trascurare nell'elaborazione di una strategia politica di risoluzione dell'Occupazione ma, dall'altro, in contrasto con l'arroccamento delle posizioni del panorama delle forze politiche israeliane, in netta maggioranza resistenti, con le dovute sfumature fra ciò che resta del Partito Laburista e la galassia di partiti di destra, a qualsiasi apertura verso una soluzione negoziata del conflitto che rispetti i diritti e le istanze dei palestinesi. 

Tabella 1 : la composizione della Knesset dopo le elezioni anticipate del 2 marzo 2020

Liste

Voti

%

Seggi

Likud

1.349.171

29,48

36

Blu e Bianco

1.217.101

26,59

33

Lista Araba Comune

577.355

12,61

15

Shas

352.443

7,70

9

Giudaismo Unito nella Torah

273.900

5,98

7

Partito Laburista Israeliano - Gesher - Meretz

267.362

5,84

7

Israel Beitenu

262.840

5,74

7

Yamina

240.162

5,25

6

Otzma Yehudit

19.334

0,42

-

Altri <0,10%

17.636

0,38

-

Totale

4.577.306

 

120

 

Attualmente, infatti, gli unici partiti che sostengono la tradizionale soluzione a "Due Stati" sono la Lista Comune Araba, composta da Hadash, il partito comunista israeliano, e altri tre partiti arabi (da cui il partito islamista Ra'am si è sfilato il 28 gennaio 2021), che ha raggiunto il suo massimo storico con il 12,61% alle elezioni legislative del 2020 divenendo la terza forza politica con 15 deputati, e il piccolo partito di sinistra Meretz che ha ottenuto 3 seggi, alleandosi con i laburisti. Pertanto, anche in questa legislatura come nella precedente, ammontano a 18 i parlamentari che sostengono la soluzione a "Due Stati" rappresentando una ristretta minoranza rispetto ai 120 membri della Knesset, i 5/6 dei quali sono nettamente contrari verso questa soluzione e nemmeno a concedere diritti all'interno di uno stato unico (tab. 1).

Lo stesso Netanyahu è stato esplicito in merito quando pur affermando in un paio di occasioni di "sostenere i due Stati", si è premunito di specificare che nessuno stato palestinese sarà creato mentre è in carica, senza considerare che molti ministri del suo governo hanno espresso con forza la loro opposizione all'idea.

L'attuale fase di instabilità politica di Israele

La situazione politica interna di Israele, almeno dal 2019, sta attraversando una fase delicata e incerta a causa delle contrapposizioni fra i partiti di destra, soprattutto fra il Likud e i partiti dei coloni (Israel Beitenu e Yamina) e la nuova formazione centrista, Blu e Bianco, che non hanno consentito la formazione di coalizioni di governo stabili, e dei problemi giudiziari di Netanyahu chiamato in causa per corruzione, frode e abuso di potere in due distinte inchiestegiudiziarie[2]. Queste e altre problematiche hanno determinato un'inedita situazione di perdurante instabilità politica che ha costretto il paese al ricorso alle urne tre volte negli ultimi due anni (9 aprile 2019; 17 settembre 2019; 3 marzo 2020), con le prossime elezioni fissate per 23 marzo 2021. 

L'attuale maggioranza, basata sull'alleanza fra il Likud e Blu e Bianco si è sfaldata per la non rispettata alternanza nel ruolo di premier fra Netanyahu e Benny Ganz, leader di Blu e Bianco, prevista, in base ad accordi, per il novembre scorso, e per la mancata approvazione della legge di Bilancio a fine dicembre, a causa di una fronda interna al governo da parte dell'estrema destra di Yamina, che ha spalancato le porte a nuove elezioni legislative[3].

Una situazione difficile quella attuale israeliana come evidenziato anche dal rapporto Strategic Survey for Israel 2020-2021 pubblicato a gennaio 2021 dall’Institute for National Security Studies[4], dal quale apprendiamo come l'instabilità politica rappresenti una grave minaccia, addirittura considerata strategica per il paese, riconoscendo come, anche a seguito della pandemia da Covid-19, Israele sia oggetto di una crisi multidimensionale che ha coinvolto la propria economia, oltre che la situazione sociale e di governo. Una crisi complessa che potrebbe scalfire le basi della sicurezza nazionale, nel suo senso più ampio, poiché sta generando un indebolimento dei meccanismi di funzionamento delle istituzioni statali, come dimostra la mancata approvazione della legge di Bilancio 2021. Con inevitabili riflessi sociali negativi come la perdita di fiducia nelle istituzioni e diminuzione del senso di solidarietà sociale, anche se l'ottima riuscita della campagna vaccinale sta spingendo il Paese sulla strada della ripresa economica in anticipo rispetto agli atri. 

 

L'Apartheid vaccinale

Se, da un lato, 5.0000.000 di israeliani, a circa due settimane dalle elezioni, avevano già ricevuto la prima dose di vaccino[5] consentendo al Paese di avviarsi gradualmente verso il ritorno alla normalità, dall'altro i palestinesi dei Territori stanno vivendo una drammatica diffusione della pandemia sprovvisti delle necessarie strutture sanitarie e, tanto meno, delle dosi vaccinali per poterla affrontare. Precisato che per i 5.000.000 di palestinesi dei Territori, la disponibilità totale di terapie intensive per i malati di Covid-19 è di soli 250 posti, oltre ad ulteriore centinaio per altre patologie, eloquenti e al contempo drammatiche sono risultate le parole del Primo Ministro dell'Anp Mohammad Shtayyeh nell'annunciare, pochi giorni or sono, due settimane di lockdown: “La percentuale di letti occupati in alcune zone ha superato il 100% il numero dei pazienti è in crescita  e il numero dei morti sta salendo su base quotidiana, forzandoci a prendere misure stringenti, dirette e senza precedenti”.  

Alla strutturale mancanza di servizi sanitari nei Territori si è aggiunto, infatti, un inaccettabile Apartheid vaccinale perpetrato, nel silenzio della comunità internazionale, da Israele ai danni dei palestinesi, nonostante il diritto internazionale umanitario tramite il Regolamento dell’Aia del 1907, articolo 43, e la Quarta Convenzione di Ginevra, articoli 55 e 56, indichi precisi obblighi in merito per le forze di occupazione. In particolare quest’ultimo articolo sancisce che la Potenza occupante ha, tra i vari obblighi, il dovere "di assicurare forniture mediche necessarie, come medicinali, vaccini e sieri, quando le risorse del territorio occupato sono inadeguate", oltre a stabilire "l’obbligo della Potenza occupante di cooperare con le autorità nazionali e locali in caso di diffusione di malattie contagiose e di adottare e applicare procedure di prevenzione necessarie per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemie".

La nitida fotografia dell'Apartheid vaccinale in corso, in realtà solo una sfaccettatura dell'Apartheid multidimensionale a cui sono soggetti i palestinesi, è rappresentata dal differenziale di somministrazione dei vaccini fra Israele e la popolazione dei Territori. Mentre i palestinesi, a metà marzo, avevano ricevuto solamente 37mila dosi di vaccino, in qualità di donazioni di Israele e Russia, oltre alle 20mila inviate dagli Emirati Arabi Uniti (Eau) alla Striscia di Gaza, in Israele, il 53% dei 9 milioni di abitanti aveva ricevuto almeno una dose del vaccino Pfizer/BioNTech e il 38% entrambe. 

Le imminenti elezioni legislative

In questo precario contesto interno, con le corpose proteste di piazza contro il premier Netanyahu che vanno avanti da mesi tenendo alta l'attenzione sulla questione giudiziaria, il Paese si recherà al voto il 23 marzo con scarse possibilità che dalle urne fuoriesca ancora una volta una maggioranza coesa e stabile, con l'esito appeso alle strategie elettorali dei piccoli partiti che hanno cercato di fondersi e di coalizzarsi nell'intento di superare la soglia di sbarramento del 3,25%%, innalzata prima delle elezioni del 2015 per impedire l'ingresso alla Knesset delle forze minoritarie. 

Il tentativo della destra di estromettere dal parlamento i piccoli partiti arabi si è in realtà rivelato, da un lato, inefficace per i promotori che non hanno ottenuto gli effetti sperati, e, dall'altro, controproducente in quanto ha aperto nuove prospettive ai palestinesi israeliani, che alleandosi con Adash, il partito comunista israeliano, hanno dato vita alla Lista Araba Unita, l'unica forza antisionista che, oltre ad aver evidenziato un trend crescente ad ogni tornata elettorale sino a diventare la terza forza parlamentare, ha offerto una prospettiva diversa alla società israeliana nell'approccio con i palestinesi dei Territori e nella risoluzione dell'Occupazione.

Al di là dell'esito delle imminenti elezioni dalle quali uscirà ancora una netta maggioranza di centro-destra, senza tuttavia garanzie di stabilità, il grande merito della Lista Araba Unita è quello di aver riaperto nella società israeliana il dibattito sulla miglior strategia da adottare per arrivare, dopo oltre mezzo secolo, alla fine dell'Occupazione, quando invece la discussione è risultata a lungo monopolizzata dal tema della strategia della gestione della presenza palestinese, evitando la cosiddetta "minaccia demografica", all'interno della soluzione ad uno "Stato unico". A tal proposito Yehuda Shaul, dell'organizzazione pacifista e per i diritti umani israeliana "Breaking the silence", in un'intervista rilasciata ad inizio febbraio 2021 che in merito esistono all'interno di Israele due correnti di pensiero, il "Campo di controllo" e il "Campo della sovranità", su come perseguire tale obiettivo e nessuna contempla la soluzione con "Due stati" sovrani. Yehuda Shaul afferma che, seppur con strategie diverse "entrambe le visioni sostengono il progetto di insediamento e il proseguimento del controllo militare sui palestinesi e interpretano la segregazione e l’autogoverno palestinese come elementi essenziali per scongiurare i rischi di uno Stato bi-nazionale ". 

Il "Campo di controllo" e il "Campo della sovranità"

La tradizionale destra israeliana, con il Likud del premier Netanyahu, l’establishment militare e dei servizi segreti, sostengono la tesi del cosiddetto "Campo di controllo", ai quali recentemente si sono aggiunti anche il vice primo ministro Benny Gantz (Blu e Bianco), il leader dell’opposizione Yair Lapid e l’asfittico Partito Laburista, tutti concordi nel mantenere la separazione politica e fisica fra i coloni ebraici e i palestinesi nei Territori Occupati, sotto il controllo militare israeliano, ritenendosi di essere in grado di gestire una annessione de facto.

In opposizione a questa consolidata corrente di pensiero, recentemente si è formato il "Campo della sovranità" che ha incontrato consensi sostenendo l'attuazione di politiche e pratiche finalizzate all'estensione della sovranità israeliana sull'intera o su parte della Cisgiordania, attraverso l'annessione de jure, superando quindi quella de facto. Una corrente che non si presenta tuttavia compatta: a fronte di una maggioranza costituita dai giovani politici di destra come Naftali Bennet, leader del raggruppamento Yamina[6], e altri che non sono disponibili ad offrire ai palestinesi nemmeno una forma di autogoverno sotto il controllo israeliano, sussiste una minoranza, guidata dal Presidente israeliano, Reuven Rivlin, che invece è propensa a concedere ai palestinesi della Cisgiordania la cittadinanza israeliana e i diritti civili, ma non quelli collettivi nazionali, vale a dire il riconoscimento della loro identità di popolo e, quindi, lo Stato bi-nazionale. 

Se il "Campo di controllo" è stata la corrente prevalente dalla Guerra dei 6 Giorni ad oggi, la deriva destrorsa della società e della politica israeliana degli ultimi 25 anni e l'inesorabile processo di colonizzazione della Cisgiordania, che ha ridotto ai minimi termini il Territorio sotto il controllo dell'Anp, ha reso sempre meno sostenibile per i governi israeliani il mantenimento dello status quo. Vale a dire perdurare nell'occupazione de facto cercando di bloccare qualsiasi sviluppo basato su un accordo negoziato, sia per l'annessione ma, anche per, una sempre meno probabile, de-Occupazione de jure dei Territori Palestinesi.

Inevitabilmente, il "Campo della sovranità" risulta in trend espansivo e sta esercitando crescenti pressioni sul governo Netanyahu, tant'è che, quest'ultimo era arrivato a dichiarare l'annessione, poi non attuata, di parte della Cisgiordania per il 1 luglio 2020. Sussistono, inoltre,  serie possibilità che l'eventuale suo successore avrà questa impostazione nei confronti dell'Occupazione. La crescita di questa corrente è legata anche alla capacità di aver colto il momento politico più opportuno di massima forza israeliana e di estrema debolezza politica palestinese, per avanzare le pretese annessionistiche, coadiuvata in questo anche dall'Accordo di Abramo e dalla divisione interna alla Lega Araba che, ha in pratica, abbandonato i Fratelli palestinesi.

All'interno del "Campo di controllo", a seguito delle preoccupazioni per la modificazione degli equilibri demografici a favore dei palestinesi in caso di creazione di uno "Stato unico", è in atto un processo di ridefinizione del modello di occupazione: invece di progettare il ritiro di Israele dai Territori Occupati per consentire la nascita di uno Stato palestinese, stanno attuando pressioni sui palestinesi, per ottenerne la rinuncia alle "condizioni del Processo di pace", a favore della situazione creata sul campo da Israele.  Ed è proprio attraverso questa lente che dobbiamo leggere i contenuti del "Piano Kushner" che, se accettato, avrebbe istituzionalizzato questa strategia di colonizzazione all'interno di un accordo di pace, totalmente sbilanciato a favore di Israele. 

Il Piano in questione, denominato "Peace to prosperity" (“Dalla pace alla prosperità”), curato dal genero di Trump e consigliere per il Medio Oriente dell'Amministrazione, Jared Kushner, dietro la promessa di 50 miliardi di investimenti internazionali in infrastrutture a favore dei palestinesi, conteneva una serie di proposte completamente sbilanciate a favore di Israele che, assecondando le richieste di Netanyahu, decretavano la definitiva sepoltura delle aspirazioni palestinesi di creare di uno Stato sovrano e autonomo nei propri Territori. 

Accanto ad Israele, il piano prevedeva la nascita di uno Stato denominato "Nuova Palestina" privo di continuità territoriale fra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, smilitarizzato e di fatto dipendente da Israele, anche per il controllo delle sue frontiere, con gli insediamenti israeliani in Cisgiordania considerati come legittimi, Gerusalemme unita definitivamente riconosciuta come capitale di Israele, mentre ai palestinesi veniva concessa la possibilità di creare una nuova capitale nel territorio sotto il loro controllo. 

Una proposta talmente sbilanciata a favore di Israele da non poter essere presa nemmeno in considerazione, come in passato, dal pur moderato Abu Mazen in quanto rappresentava un palese arretramento delle condizioni offerte ai palestinesi rispetto ai vari piani di pace sino a quel momento avanzati da Israele e dagli Usa: dalla "generosa offerta" di Ehud Barak a Arafat a Camp David nel 2000 alla "Road map" di Bush Jr, sino alla Conferenza di Annapolis del 2007. 

Restavano, infatti, inevase le principali tre questioni fondamentali poste da parte palestinese sin dagli Accordi di Oslo: 

1.     il ritiro di Israele entro la "Green line", i confini antecedenti il 1967, con annessa la questione degli insediamenti colonici; 

2.     Gerusalemme Est capitale del futuro stato palestinese; 

3.     il ritorno a casa dei profughi.

Quale strategia per la fine dell'Occupazione?

Il conclamato stadio di avanzamento della colonizzazione in Cisgiordania[7] (carta 1 e 2 - grafico 1) e la sua centralità nel dibattito politico interno, hanno ormai assunto un ruolo talmente rilevante che una eventuale fine dell'Occupazione, con conseguente nascita di uno Stato palestinese, comporterebbe un costo politico altissimo, per qualsiasi governo israeliano decidesse di affrontarla. E andrebbe, inoltre in senso contrario rispetto ad oltre mezzo secolo di intensa azione colonizzatrice che ha costituito la bussola delle politiche attuate da tutti i governi, sino ad oggi succedutisi alla guida del paese, a prescindere dall'orientamento politico.

Considerata, inoltre, la sostanziale impunità che Israele gode a livello internazionale, a seguito, dell'indissolubile alleanza con gli Stati Uniti, da un lato, e dell'immobilismo europeo, dall'altro, è ormai opinione diffusa l'elevata improbabilità della fine dell'Occupazione. Tale, oramai predominante convinzione viene confortata anche dalle parole di Daniel Seidemann, analista israeliano fra i maggiori esperti del conflitto israelo-palestinese, in una intervista rilasciata a Hugh Lovatt dell'Eurpean Council of Foreign Relations (Ecfr): “Se Israele ha la volontà e la capacità di trasferire 180.000 coloni, la soluzione a due Stati vive. Se non ce l’abbiamo noi (israeliani, ndr), è morta[8]. Ritenendo, e lasciando intendere, che sia estremamente improbabile il suo verificarsi. Convincimento che, di riflesso, sta sempre più diffondendosi anche in campo palestinese come testimonia il "Sondaggio di opinione pubblica n. 77" realizzato dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR - Centro palestinese per la ricerca e l'indagine politica)[9] in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, tra il 9 e il 12 settembre 2020, dal quale apprendiamo come una netta maggioranza del 62% degli intervistati sia convinta che la soluzione dei "Due Stati" non sia più praticabile o realizzabile a causa dell'espansione degli insediamenti israeliani, mentre solo il 31% crede il contrario. Inoltre, addirittura il 77% ritiene che le possibilità per la creazione di uno stato palestinese accanto allo stato di Israele nei prossimi cinque anni siano scarse o inesistenti.

 

Carta 1: lo stato attuale della colonizzazione in Cisgiordania. Fonte B'Tslelem



Grafico 1: l'espansione degli insediamenti colonici in Cisgiordania e Gerusalemme Est 2002-2018 


Carta 2: l'avanzamento della colonizzazione ebraica di Gerusalemme Est 


Le principali questioni al centro dalle prossime elezioni

Le prossime elezioni legislative israeliane, in base ai sondaggi da noi consultati, non lascerebbero, presagire significativi cambiamenti in campo politico. Infatti, da una delle ultime indagini demoscopiche del Panels Research, effettuata nei primi giorni di marzo su commissione dell'emittente israeliana Radio 103 FM, appartenente al gruppo Jerusalem Post, la ripartizione dei 120 seggi vedrebbe in vantaggio il Likud di Benjamin Netanyahu che ne otterrebbe 28, seguito da Yesh Atid di Yair Lapid con 19, quindi, Nuova Speranza di Gideon Sa’ar 13, Yamina di Naftali Bennett 11, la Lista Araba Unita 9, il partito ultra-ortodosso sefardita Shas 8, Yisrael Beytenu di Avigdor Lieberman e l’ultra-ortodosso askenazita Ebraismo Unito della Torà 7 ciascuno, il Partito Laburista 6. Indubbiamente un quadro politico frammentato e incerto, ulteriormente condizionato dall'eventuale superamento della soglia di sbarramento da parte di Blu e Bianco di Benny Gantz, del Meretz e del Partito Sionista Religioso di Bezalel Smotrich, che in tal caso otterrebbero 4 seggi ciascuno. 

Nell'eventualità che tali previsioni dovessero fuoriuscire anche dalle urne, il compatto raggruppamento di partiti di destra, anche estrema, che proporrebbe ancora Netanyahu come Primo Ministro si fermerebbe a quota 47 seggi, assai distante dal minimo necessario di 61 per raggiungere la maggioranza. Dall'altra sponda, l'eterogeneo insieme delle forze che vorrebbero un cambio nella leadership di governo, composto da Yesh Atid, Nuova Speranza, Yisrael Beytenu, Laburisti, Blu-Bianco e Meretz, arriverebbe a conquistarne 53, lasciando ruolo di arbitro della partita a Naftali Bennet che, con gli 11 seggi che dovrebbe conquistare Yamina, nel caso appoggiasse la fazione avversa a Netanyahu diventerebbe, oltre che timoniere delle sorti politiche del Paese, anche di quelle dell'attuale Primo Ministro, che dovrebbe così affrontare i processi non più da Premier.

Nonostante, dal quadro analizzato emerga come l'attuale fase politica israeliana si presenti particolarmente fluida e dagli incerti sviluppi, riteniamo, attraverso la nostra analisi, di aver individuato due questioni centrali che riguardano l'imminente tornata elettorale.   

La prima è costituita dal perdurare della, storicamente inedita, condizione di instabilità politica causata dalla fine della tradizionale alternanza fra coalizioni di centro-sinistra e di destra, determinata dello spostamento a destra del baricentro politico del paese e dalla frequente nascita, e talvolta scomparsa nel giro di pochi anni, di nuove formazioni politiche che hanno reso il quadro frammentato, incerto e in continua evoluzione, pur nel solco della continuità del progetto sionista. Nel caso delle prossime elezioni, probabilmente si ripeteranno, infatti, gli scenari delle ultime tre ravvicinate, in quanto anche con la formazione di una maggioranza che avrebbe il proprio collante nell'avversione verso Netanyahu, ne uscirebbe un governo instabile ed eterogeneo, sulla cui durata in pochi sono disposti a scommettere.

La seconda riguarda i rapporti con i palestinesi, verso i quali la netta maggioranza delle forze politiche sono indisponibili all'apertura di una qualsivoglia trattativa equa, accertato che la "Soluzione a Due Stati" sta raccogliendo, sempre meno consensi e, quindi, possibilità di realizzazione, come appena visto, anche in seno alla popolazione dei Territori, ormai consapevoli sia dell'empasse strategico in cui è volontariamente impantanato il "processo di pace", che del carattere regressivo di tutte le proposte avanzate da parte israeliana e statunitense dopo quella di Oslo.

La formazione di un eventuale governo che abbia una preminenza e un leader che afferisce al "Campo della sovranità" e proceda all'annessione de jure dei Territori Palestinesi, potrebbe, tuttavia, offrire, con la formazione dello "Stato unico", nuove prospettive di risoluzione dell'Occupazione aprendo il campo alla lotta per l'equiparazione dei diritti fra le due compenti etniche e per la fine dell'Apartheid, come sostenuto da autorevoli voci sia all'interno di Israele, come Ilan Pappe[10] e Gideon Levy[11], che nella comunità ebraica internazionale, come Peter Beinart[12] e Joshua Leifer[13], solo per citarne alcuni.

Anche l'analista di origine giordane dell’International Crisis Group[14], Tareq Baconi[15], nel saggio "Il piano di annessione di Israele, una nuova era della resistenza palestinese" pubblicato il 2 luglio 2020 sul New York Review of Books[16], conferma che le aspirazioni e le richieste dei palestinesi sembrano essere in fase di trasformazione e potrebbero allontanarsi dalla creazione di una propria entità statuale per concentrasi sulla parità dei diritti. Baconi prende atto della crescente attenzione mostrata dall'opinione pubblica palestinese verso l'estensione dei diritti, arrivando ad affermare che tale "cambiamento supera le carenze della soluzione dei due Stati, che questi attivisti considerano sancirebbe le divisioni tra i palestinesi e frammenterebbe il popolo palestinese (…) La vecchia strategia dei due Stati non è riuscita, ai loro occhi, a tener conto dei loro diritti collettivi come popolo (…) Il linguaggio dei diritti, affermano i suoi fautori, può riunificare il popolo palestinese come un unico collettivo che cerca l’auto-determinazione, laddove il progetto di creazione statale reifica la loro frammentazione geografica".

Il dinamismo sociale, la conoscenza e la capacità di divulgazione costituiscono i principali strumenti a disposizione del popolo, che se utilizzati proficuamente possono portare all'obiettivo di garantire il diritto all'autodeterminazione e la fine dell'Apartheid attraverso l'unico percorso possibile: la realizzazione di un unico Stato israeliano bi-nazionale per ebrei e musulmani, nel quale i palestinesi siano inclusi come cittadini con pieni diritti.

Una soluzione che inevitabilmente riporta all'attenzione di politici, movimenti e attivisti il nucleo centrale del programma storico del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di George Abbash in merito alla fine dell'Occupazione, secondo cui il movimento di liberazione nazionale palestinese si sarebbe dovuto prefiggere di "lottare contro il sionismo in quanto movimento razzista e aggressivo [..] con lo scopo di fondare uno stato democratico in Palestina nel quale arabi ed ebrei possano vivere come cittadini con gli stessi diritti e gli stessi doveri", sostituendo il conflitto interetnico con quello di classe. 

Una proposta tornata oggi prepotentemente sotto i riflettori che, da un lato, conferma la capacità e la lungimiranza progettuale del gruppo dirigente del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina e, dall'altro, chiama tutti coloro che hanno a cuore le sorti del popolo palestinese a impegnarsi in prima persona, in quanto le pressioni che non è stata in grado di effettuare la politica sull'establishment israeliano, possono esercitarle le società civili, nel caso riescano a prendere coscienza dei propri mezzi.

Andrea Vento

17 marzo 2021 - Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

Carta 3:  la Striscia di Gaza oggi


[1] https://www.timesofisrael.com/support-for-two-state-solution-at-lowest-in-nearly-20-years-poll/

[2] https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2021/02/08/israele-netanyahu-in-tribunale-il-suo-processo-va-avanti_23bbc278-aab4-4dc8-a7a8-7121e6d82996.html

[3] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/israele-cerca-di-stabilita-politica-29199#n1

[4] https://www.inss.org.il/wp-content/uploads/2021/01/StrategicAssessment20-21_ENG_e.pdf

[5] https://www.corriere.it/esteri/21_marzo_15/israele-covid-stadi-aperti-test-rapidi-entrare-locali-paese-torna-vita-ipotizza-l-addio-mascherine-obbligatorie-aprile-ab47e25e-857c-11eb-9163-c4d65be13e50.shtml

[6] Naftali Bennett's stability initiative-Doing what's good for Israel- https://www.youtube.com/watch?v=n1oFOEY_6lM

[7] Attualmente sono 132 gli insediamenti abitativi alcuni città di medie dimensioni, cosiddetti ufficiali, riconosciuti dal governo israeliano, ma illegali per il diritto internazionale, oltre ai 124 outpost, censiti dall'organizzazione pacifista israeliana Peace now, che nemmeno la legge israeliana riconosce. https://www.mondoemissione.it/medio-oriente/insediamenti-israeliani-il-giorno-dellannessione/

[8] https://ecfr.eu/podcasts/episode/interview_with_daniel_seidemann/

[9] https://www.pcpsr.org/en/node/819 - Palestinian Center for Policy and Survey Research (PSR)

[10] Saggio "Programma per il movimento dello Stato unico" dello storico israeliano, leader della corrente dei Nuovi storici, Ilan Pappe, contenuto nel libro "Ultima fermata Gaza" uscito in Italia per Ponte alle grazie nel 2010,

[11] https://nena-news.it/chi-ha-paura-dello-stato-binazionale/

[12]  Beinart, Peter (2020-07-08). Saggio:"Opinione | Non credo più in uno Stato ebraico" . Il New York Times . ISSN 0362-4331 . Estratto 2020-07-20 . 

[13] Joshua Leifer: "La soluzione dei due stati è una finzione politica a cui i sionisti liberali si aggrappano ancora"

 https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/jul/14/two-state-solution-political-fiction-liberal-zionists

[14] L'International Crisis Group una delle principali ong che si occupa di prevenzioni di conflitti, e che ha nel suo organico numerosi politici, diplomatici e professori provenienti in particolare dagli Usa e dagli altri membri della Nato

[15] https://www.972mag.com/tareq-baconi-annexation-apartheid/

[16] https://www.nybooks.com/daily/2020/07/02/israels-annexation-plan-a-new-era-in-palestinian-resistance/



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