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mercoledì 25 novembre 2020

UNA PROSPETTIVA DI LOTTA DENTRO E OLTRE LA PANDEMIA

di Michele Nobile 

Siamo nel mezzo della seconda onda di Covid-19, ancor più prevedibile e (almeno in parte) nei suoi peggiori effetti ancor più prevenibile della prima: 15.815 morti in più tra il 1 settembre e il 24 novembre, senza contare le conseguenze per tanti malati. Ancora: da 270 mila contagiati a oltre 1,4 milioni (+429%), da 107 a 3816 ricoverati in terapia intensiva (+3466%). Altro che influenza! Dobbiamo ringraziare il favore fatto all’industria del turismo e del divertimentificio durante l’estate e poi i colpevoli ritardi nel sospendere subito quel che andava sospeso: entro metà settembre nelle regioni centrali e meridionali. 

Ai drammi dell’ansia, della malattia e della morte, la crisi economica e le misure di contenimento dell’epidemia aggiungono quelli conseguenti dall’incertezza del posto di lavoro, della disoccupazione, della caduta del reddito, col rischio crescente che l’aggravarsi dei problemi sociali ed economici venga strumentalmente utilizzato per indebolire la lotta contro l’epidemia. I tardivi e inadeguati Dpcm possono sospendere attività economiche, educative, ricreative e restringere la libertà di movimento, ma non sospendono le contraddizioni che travagliano la società. Anzi, le evidenziano, le intensificano, ne aggiungono di nuove. 


Dentro questa congiuntura si possono e si devono porre questioni di più ampio respiro, perché gran parte dell’impatto della pandemia - sia sanitario sia socioeconomico - è risultato di decenni di smantellamento dei diritti sociali ed economici, di tagli della spesa sociale, d’investimenti non fatti. Non è difficile puntare il dito contro i partiti che hanno governato il Paese negli ultimi decenni. Ancor più facile è portare sul banco degli imputati centrodestra e Lega nord per le controriforme della sanità varate in Lombardia e per la lottizzazione partitica della direzione della sanità regionale. 

Tuttavia, proprio dal carattere inedito della crisi pandemica scaturisce un problema per l’opposizione antagonistica e per i movimenti sociali spontanei: come combinare coerentemente la lotta per adeguate misure di salute pubblica con quella per misure necessarie a fronteggiare la crisi sociale ed economica? Conciliare occupazione e salute non è mai stato facile, ma ora è ancor più difficile a causa della simultanea gravità sia della crisi sanitaria sia di quella socioeconomica. Il rischio che vedo emergere è che, nonostante le intenzioni, l’opposizione sociale interiorizzi nella propria pratica la contraddizione interna al capitalismo tra salute e lavoro. La fonte di questo rischio politico è la sottovalutazione della pericolosità e delle dinamiche dell’epidemia di Covid-19. Non è mia pretesa indicare specifici obiettivi di lotta: questo è compito di chi è interessato in prima persona. Si può però delineare una logica politica complessiva entro la quale potrebbero muoversi i movimenti sociali d’opposizione nel contesto della situazione pandemica.


Il punto non è al centro di questo intervento, ma nell’impostare la lotta politica in questa congiuntura non si dovrebbe mai dimenticare che siamo in presenza di un fatto totale e mondiale. Non lo si deve dimenticare innanzitutto perché una campagna di lotte che vadano oltre una sorta sindacalismo settoriale richiede che si denunci il significato sistemico e globale della pandemia di Covid-19, che si risalga fino alle trasformazioni dell’ecosistema globale conseguenti da quelle dell’economia mondiale, dalla liberalizzazione commerciale, dalle politiche sanitarie e sociali dette neoliberiste. Covid-19 non è una sorpresa, un «cigno nero»: questa pandemia è stata preceduta da molti segnali e sarà seguita da altre crisi sanitarie internazionali. Cambiamento climatico globale, sviluppo ed estensione del capitalismo e transizione epidemiologica sono connessi: chi ha manifestato simbolicamente contro il cambiamento climatico globale dovrebbe protestare in modo ancor più energico, non meramente simbolico, per la pandemia di Covid-191. Questo è indispensabile se si vuole orientare la mobilitazione sociale dentro e oltre la pandemia nella direzione politica più alta e di più ampio respiro, se si vuole che la molteplicità di movimenti e rivendicazioni parziali e locali si unifichino in una prospettiva socialista, ecologica e internazionalistica, se si vuole ancora dire che un altro mondo è possibile. Altrimenti, si resterà dentro una logica rivendicativa di tipo sindacale, del tutto inadeguata all’opportunità offerta da questa crisi sanitaria e socioeconomica mondiale. Aggiungo che un evento con l’impatto catastrofico e totale come la pandemia, a cui non sfuggono né giovani né adulti, è una grande occasione per spiegare perché il mondo in cui viviamo è socialmente «malato», come quello che generò le guerre mondiali. Su questo c’è da lavorare per molti anni, per educare un’intera generazione ai problemi globali.

      


   Nell’immediato della congiuntura, la prospettiva sopra accennata richiede che si prenda veramente sul serio la pericolosità del nuovo coronavirus per la salute umana, che si rigettino la banalizzazione della malattia e il facile ottimismo a fronte del regredire della seconda onda. La riduzione dei contagi è una buona notizia ma non è affatto una vittoria: ogni illusione in questo senso è foriera di ripresa delle infezioni, in una situazione in cui la sanità di quasi tutte le Regioni è allo stremo. Di fronte a oltre 50.000 morti da Covid-19 soltanto in Italia (che potrebbero diventare 60.000 e passa per Capodanno) affermazioni come: tanto si ammala solo il 5% degli infetti e muoiono i vecchi e chi ha patologie pregresse, sono indice di puro delirio e di cinismo morale, imperdonabili dopo tanti mesi e tante morti, in Italia e nel mondo. Tra l’altro, in agosto l’età media dei positivi era scesa a 29 anni e solo recentemente è risalita, fino a 47. L’ottimismo infondato o, piuttosto, interessato, è tra le ragioni per cui in molti Paesi, Italia compresa, la seconda onda di Covid-19 ha colpito con una durezza che, con altra visione e interessi diversi dal profitto e dalla competitività, sarebbe stato possibile mitigare. Gli argomenti banalizzanti sono la ricetta perfetta perché si verifichi una terza onda di Covid-19, una eventualità da non escludere considerando la perspicacia dei governanti. E quali che siano intenzioni, rivendicazioni e proclami, sostenere «da sinistra» gli argomenti banalizzanti significa, in pratica, ritrovarsi peggio che politicamente disarmati. Significa porsi a destra del governo Conte sulla valutazione di una questione fondamentale per il mondo e specialmente per i lavoratori e le lavoratrici, per chi vive in abitazioni e slums sovraffollati, per chi è comunque costretto a muoversi e a lavorare per sopravvivere. Più che mai nel quadro della situazione pandemica è un errore madornale separare la salvaguardia del diritto alla salute e quelli al lavoro, al reddito, all’istruzione. Non è questione di dosare i diritti ma di comprendere come, nella situazione di fatto, questi possano essere garantiti al meglio. Occorrono sia misure sanitarie e di contenimento dell’epidemia sia misure di politica economica e sociale all’altezza dei drammi economici, sociali e psicologici suscitati dalla situazione pandemica. Occorre lottare simultaneamente su entrambi i fronti. Il problema qui non sono le intenzioni, ma gli effetti concreti del modo in cui si concepisce il rapporto tra misure volte alla salute pubblica e obiettivi socioeconomici. Un modo per chiarire il punto è riflettere su come si è sviluppata la prima onda di Covid-19 in Italia.

Chi vuol comprendere quale sia la posta in gioco farà bene a leggere il libro di Francesca Nava Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, per l’editore Laterza. È un libro che esprime la sofferenza e la rabbia di chi l’epidemia l’ha conosciuta in tutta la sua forza letale, ma è anche una ricostruzione razionale e documentata di un terribile fallimento politico, innanzitutto nel focolaio bergamasco e lombardo ma poi nell’intero territorio nazionale. Questo fallimento si concretizza nella mostruosa impennata della mortalità nella provincia di Bergamo nel mese di marzo 2020: +571% sul periodo 2015-9, seguito da un +122,9 in aprile, dato che solo relativamente alla catastrofe di marzo può dirsi un miglioramento; ma tra le province italiane più colpite a marzo si devono ricordare anche altre, non solo lombarde: Cremona (+401%), Lodi (377%), Brescia (+292%), Piacenza (+271%), Parma (209%), Lecco (183,9%), Pavia (135%), Pesaro e Urbino (124%), Mantova (123%), Monza e della Brianza (100%), per segnalare solo quelle con aumento della mortalità pari o superiore al 100%. Concretamente, quel +571% significa che nella provincia di Bergamo, nel solo periodo 20 febbraio-31 marzo, sono morte 5.058 persone in più su quel che ci si poteva attendere. È anche per questo che in aprile si è costituito a Bergamo il comitato Noi denunceremo. Verità e giustizia per le vittime di Covid-19. Non è a scopo di lucro, ma pretende che la magistratura faccia luce sulle responsabilità di una tragedia che può rientrare nella fattispecie penale dell’epidemia colposa. Quanto a mortalità da Covid-19, la provincia di Bergamo è un caso limite - non solo nazionale - ma l’interesse generale di un caso limite risiede in quel che rivela della normalità della sanità, della fragilità del sistema sanitario nazionale a fronte di un shock. E mostra anche una terribile potenzialità. Per capirsi: se al posto della provincia di Bergamo fosse stata la provincia di Roma o quella di Napoli, soltanto lì avremmo avuto, rispettivamente, circa 20.000 e 14.000 morti da Covid-19. 

Sono tante le cose che tra febbraio e l’inizio di marzo sono andate male in Lombardia e nella bergamasca - molto peggio di quel che è giustificabile - ma possono ridursi a questo: l’epidemia non è stata contenuta perché non si son voluti fermare gli affari. Non solo di bar e ristoranti ma anche delle fabbriche. E sì, perché col trucco dei generici codici Ateco, in val Seriana, in Lombardia e in tutta Italia le fabbriche hanno continuato a produrre anche oltre l’essenziale, mantenendo in circolazione ed esposti al contagio molte centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici. Da questo punto di vista si deve dire che in Italia non è mai esistita e men che mai esistono ora «zone rosse». In realtà tutte le zone sono «arancioni» perché, sotto la copertura delle forniture essenziali, in tutte le zone continuano anche linee di produzione che essenziali non sono. L’errore di febbraio quanto a tempestività delle misure di contenimento dell’epidemia si è ripetuto in settembre-ottobre, questa volta senza neppure la possibile attenuante (che chi scrive non concede) della sorpresa. Quando esiste un’epidemia, sospendere quel che dev’essere sospeso due settimane troppo tardi o allentare le misure adottate troppo presto causa migliaia di morti. Il nuovo coronavirus è intrinsecamente pericoloso, ma la sua letalità non è solo funzione della biologia: dipende sia dalla preparazione dei sistemi sanitari sia dalle decisioni e non-decisioni politiche in merito alla prevenzione e al contenimento dell’epidemia. 

Il problema dei giorni cruciali a cavallo di febbraio e marzo fu l’inerzia delle autorità politiche, da cui (tra le altre questioni) il palleggio delle responsabilità tra Regione Lombardia e governo nazionale circa la non istituita «zona rossa» intorno ad Alzano lombardo. Si doveva imparare una lezione e metterla in pratica: che a fronte del crescere dell’epidemia occorre agire immediatamente e con la massima determinazione. Non bisogna attendere che divampi l’incendio ma soffocare la brace: in Corea del Sud (popolazione di 50 milioni) sono sul punto di sospendere bar, ristoranti e altro perché i contagi sono stati più di 300 (con un massimo di 386) per cinque giorni consecutivi. Invece in Italia i 300 casi positivi sono stati oltrepassati il 30 luglio, i 1000 il 22 agosto, i 2000 il 1 ottobre, i 10.000 il 16 ottobre, i 20.000 il 27 ottobre e i 30.000 tre giorni dopo. Questi sono i ritmi dell’epidemia una volta che ha preso slancio, da paragonarsi con quelli da lumacone della politica. Su questo deve riflettere chi vuole «riaprire» bar, ristoranti e scuole al più presto possibile. Non basta che i contagi inizino a calare. Devono tornare come minimo al livello di luglio e anche sotto, nelle regioni dove il coronavirus ha incidenza maggiore. Altrimenti arriverà la terza onda e con essa altre migliaia di morti evitabili. 

Evidentemente, la lezione della prima onda non è stata appresa. Durante la seconda onda le autorità hanno iniziato a preoccuparsi quando i decessi da Covid-19 hanno superato il centinaio al giorno, ma allora era già troppo tardi perché l’impennata della mortalità implica che l’epidemia sia già fuori controllo. All’inizio della seconda onda è stata gravemente sottovalutata la velocissima dinamica dell’epidemia, che nelle regioni centrali e meridionali si poteva cogliere già non oltre la fine d’agosto e che, volendo, si poteva tentare d’arginare con misure tempestive e decise. Invece i ritornelli sono stati mai più lockdown!, le scuole non chiudono! A proposito lasciamo pure la parola al Ministero della Salute, che nel Monitoraggio settimanale Covid-19, report 31 agosto 6 settembrecomunicava: «si conferma un aumento nei nuovi casi segnalati in Italia per la sesta settimana consecutiva con una incidenza cumulativa (dati flusso ISS) negli ultimi 14 gg (periodo 24/8-6/9) di 27.89 per 100.000 abitanti, in aumento dal periodo 6/7-19/7» (corsivo mio). Precisamente, il dato per 100.000 abitanti in quelle settimane di luglio era 4.6 (Monitoraggio settimanale Covid-19, report dal 13 al 19 luglio): quindi in poco più di un mese l’incidenza era aumentata di sei volte, dopo un periodo di stabilità. Il Monitoraggio ci informava anche che «a partire da giugno, probabilmente per effetto delle riaperture del 4 e 18 maggio e del 3 giugno, a livello nazionale si è notato un leggero ma costante incremento dell’indice di trasmissione nazionale (Rt) che ha superato la soglia di 1 intorno al 16 agosto 2020. Nel periodo 20 agosto - 2 settembre 2020 l’Rt calcolato sui casi sintomatici è pari a 1.14», ma questo «potrebbe sottostimare leggermente la reale trasmissione del virus a livello nazionale» e «il virus oggi circola in tutto il Paese» (corsivi miei). Appunto. Ammesso sia calcolato correttamente, un indice di trasmissione superiore a 1 significa che l’epidemia continua ad autoalimentarsi; e, per quanto in un dato periodo la crescita appaia lenta, ci si deve aspettare che diventi esplosiva molto rapidamente. Inoltre, se nelle regioni centrali e meridionali la fase 2 poteva essere anticipata ad aprile, ora è l’intero territorio nazionale ad essere gravemente coinvolto. Faccio queste osservazioni non tanto per riguardo al passato ma per il futuro prossimo: perché, a fronte di un declino delle curve dell’epidemia, in particolare dei nuovi casi, ci si deve attendere pressioni per tornare troppo presto alla normalità, anche sulle piste da sci. Troppo tardi e troppo presto sono egualmente nefasti.

Uno studio dei primi d’agosto stimava che se le misure del 9 marzo fossero state adottate una settimana prima, per il 3 maggio avremmo avuto una riduzione del 60% dei casi positivi, del 52% dei ricoveri, del 48% dei pazienti in unità di cura intensiva e del 44% delle morti accertate: circa 12.000 morti in meno, invece di 28.8842. Su dati fino al 10 novembre, un altro studio stima chesenza efficaci misure di contenimento o lockdown per la fine del 2020 in Italia si sarebbero verificati in totale 130.000 decessi da Covid-193. È il risultato di un modello epidemiologico, come tale discutibile; inoltre, bene o male il contenimento esiste. Tuttavia, i modelli e le proiezioni servono a mettere a fuoco delle possibilità, degli scenari, a mettere in guardia. Il senso di questi lavori è che ritardare anche solo di una settimana le misure di contenimento dell’epidemia (e applicare mezze misure, aggiungo) è costato migliaia di morti, sia nella prima che nella seconda onda di Covid-19. E, a dire, il vero, non occorrevano neanche studi sofisticati per capire che la marea stava montando e che se non si fosse agito subito avrebbe finito col sommergere il Paese. Ma i politici di tutti i colori spesso vedono solo quel che vogliono vedere, che sia per codardia, stupidità, interessi di bottega e adattamento all’ambiente, si tratti degli industriali o della «base». 

Il punto importante è che al fine della valutazione etico-politica e della prospettiva d’azione non ha importanza quante esattamente siano queste migliaia o decine di migliaia di morti evitabili: parliamo di esseri umani. Tempestività dell’azione, correttezza e completezza dell’informazione sono mancate tra febbraio e marzo e, ancora una volta, in questo autunno. Il risultato è che ora l’epidemia cresce con forza anche nelle regioni centrali e meridionali che erano state risparmiate dal peggio durante la prima onda di Covid-19. Si vedano i grafici allegati (dal sito CovidStat del gruppo di lavoro dell’Istituto nazionale di fisica nucleare). Si consideri se le curve sono rassicuranti; si guardi alle differenze tra le province: dati medi nazionali e regionali possono indurre a decisioni sbagliate. 

Ora, chi vuole che bar, ristoranti, scuole, pizzerie e discoteche (perché no le discoteche, non siamo moralisti, vero?), aprano al più presto possibile deve avere il coraggio di dire che da ora a Capodanno alcune migliaia di morti sono un prezzo accettabile. Ovviamente, un prezzo che altripagheranno. Più precisamente, lo pagheranno tanti di quelli che per vivere devono lavorare e tanti in pensione dopo una vita di lavoro. È un coraggio che giudico ripugnante, infame e degno del più grande disprezzo, ma l’onestà intellettuale e politica vorrebbe che si dichiarasse quante morti si considerano socialmente accettabili. Tuttavia, l’onestà non è compagna di mentalità del genere. Se poi non si è in grado di fare qualche calcoletto basandosi su ciò che è sotto gli occhi di chiunque, allora bisognerebbe avere un altro e più apprezzabile coraggio: tacere!

Dovrebbe essere cosa ovvia che, in definitiva, condizioni per por fine agli enormi problemi sociali ed economici suscitati da questa particolarissima crisi sono il contenimento e la riduzione dei contagi e possibilmente l’eradicazione di Covid-19. Non ci si può affidare all’attesa di un vaccino efficace e sicuro, né si può ipotizzare l’«immunità di gregge», che implica migliaia e migliaia di morti, e neanche sperare nella riduzione della virulenza del coronavirus: per questo occorre garantire la salute pubblica con misure non farmaceutiche. E questo significa una cosa molto semplice: sospendere tutte le attività che non siano strettamente indispensabili alla riproduzione sociale, tutte e senza deroghe né trucchi. La medicina è amara ma non ne esiste altra. 

Si possono differenziare le misure, su base provinciale perché anche nelle singole regioni esistono differenze anche notevoli, ma in autunno l’epidemia ha un’incidenza che in tanti territori è molto più alta che in marzo-aprile. Si possono criticare la sospensione di alcune attività, alcuni divieti inutili, ma il problema fondamentale non è aver sospeso troppo e troppo presto, ma il contrario: di non aver sospeso abbastanza e d’averlo fatto troppo tardi. Alla magistratura spetta accertare le responsabilità penali individuali. Sul piano politico e storico le cose stanno però diversamente. Se è vero che è dovere costituzionale dello Stato in tutte le sue articolazioni proteggere la salute dei cittadini - «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti» (articolo 32 comma 1 della Costituzione) - allora ci troviamo di fronte a qualcosa di simile a una grande sconfitta in guerra pagata con tante morti. Qualcosa che chiede che questa classe politica venga cacciata. È per questo che di fronte a decine di migliaia di vittime e ad altre decine di migliaia di malati si deve dire apertamente che, da un punto di vista politico e storico, ci troviamo di fronte a quel può dirsi Strage di Stato. 

 

2. La contrapposizione di salute pubblica e profitti privati richiede scioperi di massa per una vera «economia di pandemia»

Sia nei giorni cruciali di fine febbraio, in cui sarebbe stato possibile contenere l’epidemia, sia nella definizione delle attività da tenere aperte quando il governo nazionale decise di muoversi (con un paio di settimane di ritardo), gli interessi delle grandi imprese capitalistiche - rappresentate da Confindustria - hanno influenzato in modo nefasto le decisioni politiche, così che profitti aziendali e competitività nei mercati internazionali avessero la priorità sulla salute della cittadinanza. Anche dopo il Dpcm del 22 marzo «in Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna abbiamo calcolato che in piena fase uno circa tre milioni e mezzo di persone sono state chiamate al lavoro, di cui circa 300 mila solo nella provincia di Bergamo: si può parlare di lockdown a fronte di cifre così consistenti?»4.

Questi interessi capitalistici hanno dalla loro parte due alleati potentissimi: il ricatto della continuità dell’occupazione e del reddito al prezzo del rischio per la salute; e il disagio sociale prodotto dalla messa in quarantena di attività come quelle scolastiche, in particolare per i bambini del primo ciclo. Più procede l’epidemia, più ricatto e disagio possono essere strumentalizzati dal padronato e dai partiti per allentare la lotta contro l’epidemia, ad esempio in vista dello shopping natalizio e delle vacanze sulla neve. 

A Dalmine, comune di 23 mila abitanti a meno di 10 chilometri da Bergamo, fino al 22 marzo erano già morte 70 persone. Dalmine è anche sede dello storico impianto siderurgico, la «Dalmine», ora Tenaris dopo la privatizzazione del 1996. L’ansia era alle stelle e tra marzo e aprile morirono due degli oltre 3.000 operai della «Dalmine». Uno di loro ha così commentato una riunione con la dirigenza: 

 

«volevamo garanzie sui dispositivi di protezione, sulle misure igieniche adottate. Era il minimo, vista la situazione. All’inizio ci avevano dato le mascherine scartate da Regione Lombardia, quelle che sembravano delle garze con due buchi per le orecchie. Abbiamo anche minacciato di fermare la produzione, certo. È l’unica arma che abbiamo. Loro si sono sentiti ricattati, noi abbiamo detto “ricattati è poco, possiamo fare anche di peggio” perché c’era tutta una rabbia addosso»5.

 

         E in effetti, di fronte a 50.000 morti la rabbia dovrebbe essere enorme ed esplosiva. A marzo la giusta reazione a questo pericolo è venuta spontaneamente da grandi fabbriche metalmeccaniche, chimiche, tessili, sia con l’elementare autodifesa individuale del rimanere a casa, sia con una serie di scioperi tra il 12 e il 19 marzo e anche oltre, che portarono ai Protocolli di sicurezza. E tuttavia, neanche questi Protocolli sono sufficienti, men che mai nelle piccole imprese. 

Il rischio per la salute costituito dalla pandemia si pone non solo nei trasporti o nelle attività diverse dal lavoro ma fin dentro il processo di lavoro, con forza diversa a seconda delle circostanze ma di certo in tutti i luoghi di lavoro. La pandemia impone alla lotta di tutti i lavoratori un obiettivo che, senza dubbio, su questa scala è senza precedenti: non lavorare, mantenendo il posto e il salario. Ovvero, contrapporre la salute al profitto. Se l’assenteismo è la reazione individuale, lo sciopero deve essere la risposta collettiva, popolare e di classe. Sciopero di massa di chi lavora, ma anche per chi non lavora e per il riconoscimento e la regolarizzazione del precariato creatosi in questi anni. Lo sciopero di massa e generale non è un mero restare a casa in solitudine, è quel che può unire la collettività e incidere realmente, di certo più delle manifestazioni simboliche. E se le piazze si devono riempire, allora che sia sulla spinta di un autentico movimento di massa, di un obiettivo politico che unifichi lotte particolari contro il lavoro a tutti i costi, l’inerzia, le non-misure e le mezze misure a fronte della pandemia, l’inadeguatezza della politica sociale. Che sia per cacciare i responsabili, disposti sull’intero spettro parlamentare.

L’attuale crisi socioeconomica globale è straordinaria per dimensioni e ancor più per genesi. È stata innescata da un problema sanitario, che sul piano nazionale è percepito come esogeno al sistema economico ma che, al livello decisivo dell’economia mondiale, si dimostra in realtà endogeno, risultato della sinergia tra sviluppo ed estensione del capitalismo e trasformazioni dell’ecosistema globale. Inoltre, la crisi socioeconomica è determinata dalle misure di salute pubblica che colpiscono l’economia, sia dal lato dell’offerta che della domanda; ma, nello stesso tempo, è senza precedenti l’ampiezza del sostegno all’economia da parte dei governi nazionali e delle Banche centrali, un altro esempio di quanto sia inadeguata la nozione di neoliberismo, almeno quando si tratta di salvare le imprese private. Resta il fatto che nella situazione pandemica bisognerebbe battersi per una «economia di pandemia» come definita sotto che, se mai avesse successo, potrebbe porre su nuove basi l’intera politica economica e sociale nella situazione post-pandemica. Le questioni fondamentali sono la necessità di un rilancio su ampia scala dell’investimento pubblico nei servizi sociali, dalla sanità all’istruzione, con un orientamento verso un’economia ecologicamente sostenibile (o almeno meno insostenibile); il blocco dei licenziamenti; la fine del precariato e l’obiettivo della piena occupazione da realizzare attraverso la creazione di posti di lavoro nel settore pubblico; la riduzione dell’età per la pensione e dell’orario di lavoro. E questo richiederebbe anche un coordinamento macroeconomico internazionale, innanzitutto nell’area dell’euro e dell’Unione Europea. Una svolta radicale di questo genere, in sostanza sarebbe un nuovo New deal. Non è questo il luogo per approfondire la questione, ma trovo condivisibile il giudizio di Papadimitriou e Zezza per cui 

 

«Il dibattito politico in Italia si è concentrato eccessivamente, a nostro avviso, sulla necessità di evitare ulteriori aumenti del debito pubblico e se i fondi europei - dall’ESM o da altre fonti - rappresentino un'opportunità per accedere a una fonte di finanziamento a basso costo»6.

 

Ovviamente tutto questo non potrà mai avvenire per spontanea evoluzione dell’orientamento delle classi politiche. Non nutrivo illusioni in questo senso neanche durante la Grande recessione: sono perfettamente consapevole che condizione per un nuovo New deal è una massiccia ripresa della lotta sociale. Più che mai nel quadro della postdemocrazia la conquista di riforme passa per la radicalizzazione del conflitto sociale e, per questo stesso motivo, la lotta per obiettivi di riforma del sistema può evolvere in lotta per rovesciarlo. Occorre una visione ampia e radicale di quelli che dovrebbero essere i compiti politici già nel pieno della situazione pandemica, altrimenti si rischia di porre in contrasto obiettivi di salute pubblica e obiettivi per fronteggiare il dramma socioeconomico. 

Per garantire il diritto umano e costituzionale alla salute nella situazione pandemica è necessario che tutte le attività non realmente indispensabili alla riproduzione sociale siano sospese. Era vero nella prima onda, è ancor più vero ora, quando l’incidenza di Covid-19 è notevolmente cresciuta in tutto il territorio nazionale. Tuttavia, questo dovrebbe implicare una straordinaria capacità progettuale e d’azione dell’esecutivo e del legislativo. Se i governanti fossero all’altezza della situazione, se fossero capaci d’andare oltre spedizioni militari neocoloniali per andare à la guerre comme à la guerre contro un nemico insidioso e non-convenzionale come Covid-19. Tuttavia, non è così: la situazione pandemica rivela quanto in basso sia caduta la qualità dei governanti dei regimi postdemocratici, la loro congenita inadeguatezza nell’assicurare la sicurezza della vita e della salute per tutti, l’incapacità di reagire a una crisi devastante con progetti di riforma nello stile di un nuovo New deal

Alla gestione sanitaria ed economica della situazione pandemica attuata dai governi, ovunque lavoratori e cittadini comuni dovrebbero contrapporre un’«economia di pandemia», per alcuni aspetti simile all’«economia di guerra»: la pianificazione dei flussi economici veramente essenziali e la mobilitazione di tutte le risorse nazionali sia per fronteggiare l’attacco alla salute sia per garantire reddito e occupazione. Come l’«economia di guerra», in prima approssimazione l’«economia di pandemia» non è incompatibile con la riproduzione del capitalismo. In una grande guerra si vestono, si nutrono, si alloggiano e si armano centinaia di migliaia e milioni di soldati, si centralizzano e si ripartiscono materie prime e rifornimenti, si requisisce e si nazionalizza, si indirizza l’economia. Si fa per uccidere, perché non per salvare vite? 

Ribellarsi alla guerra e al dispotismo dell’«economia di guerra» è giusto. Ed è altrettanto giusto ribellarsi per un’economia volta alla vita anziché alla morte. Come la guerra, la pandemia è un fatto sociale totale, che coinvolge ogni angolo e dimensione della vita: e come la guerra richiede una risposta totale, a tutto campo, il che non significa affatto totalitaria e passivizzante.

         Si dirà che tutto questo è ora impossibile. Certamente, dati i rapporti di forza esistenti tra le classi. E tuttavia è una prospettiva politica unificante, che saldi bisogni sanitari e sociali, può iniziare a costruirsi a partire da lotte per obiettivi parziali, nello stesso tempo offrendo una prospettiva politica più ampia. Si parta dal livello minimo: la sicurezza dei lavoratori dentro i luoghi e il processo di lavoro. Questo comporta misure di riduzione dell’affollamento, la disponibilità di adeguate protezioni individuali e di mezzi per l’igiene e strumenti di sanificazione, per cui necessariamente arriva a toccare l’organizzazione del lavoro, i ritmi della produzione e il suo volume. Dunque, se è presa sul serio, la pandemia costituisce anche un’occasione al di là dell’emergenza: ritorna oggettivamente una questione che fu cruciale nelle lotte degli anni ’60-70 e che tocca direttamente il potere del comando capitalistico nelle fabbriche e in tutti i luoghi di lavoro. Su scala più ampia, interrompere le produzioni non essenziali e scioperare affinché si mobiliti l’economia contro la pandemia, non solo cozzerebbe frontalmente col cosiddetto neoliberismo - di cui la controriforma sanitaria lombarda è un bell’esempio catastrofico, nonostante gli sforzi eroici di medici, infermieri, autisti d’ambulanze - ma imporrebbe d’orientare la produzione e le politiche pubbliche a soddisfare i bisogni sociali fondamentali e interromperebbe ampia parte dello sfruttamento del lavoro vivo. Non per attuare il sacrosanto diritto all’ozio ma qualcosa di più semplice e primordiale: il diritto all’esistenza in sicurezza, ora e per le future generazioni. In questa fase storica, battersi per l’«economia di pandemia» significherebbe radicalizzare lo scontro sociale ben oltre singole specifiche rivendicazioni di politica sanitaria, economica e sociale. Perché, obiettivamente si tratta di mettere in discussione il come e il cosa si produce, la colonizzazione della vita quotidiana e del tempo libero dalla mercificazione.

 

3. Ristorazione, scuole e altro: perché certe attività devono essere sospese 

Se si vuole ragionare in termini di costi/benefici sociali delle misure di prevenzione e comprendere perché occorre sospendere tante attività economiche e sociali come la scuola (almeno la secondaria di primo grado a partire dalle seconde e la scuola superiore) e nelle università, è fondamentale sapere che il contagio non avviene solo con la modalità detta per contatto diretto (direct contact), cioè tramite superfici contaminate oppure goccioline con traiettoria balistica, che ricadono verso il suolo entro 1-2 metri7. Numerosi studi sperimentali e casi di studio evidenziano l’importanza del contagio per via aerea (airborne transmission), forse perfino più importante del contagio per contatto diretto. Via aerea qui significa contagio tramite sospensione di particelle infettive in una nuvola di aerosol, che può muoversi a distanze ben superiori ai 2 metri e può «galleggiare» nell’atmosfera da decine di secondi a ore, a seconda delle dimensioni e dei flussi d’aria. Il 6 luglio, 237 scienziati hanno sottoscritto un appello di Lidia Morawska e Donald K. Milton rivolto all’Organizzazione mondiale della sanità perché riconoscesse anche questa via di contagio: come per altre malattie la questione è oggetto di discussione, ma le evidenze sono comunque tali che nel mezzo di una pandemia è gravissimo continuare a ignorare o sottovalutare questa via di trasmissione del coronavirus. L’Organizzazione mondiale della sanità e i governi non riconoscono apertamente il contagio per via aerea perché le conseguenze sul piano economico sarebbero ancor più pesanti. Le probabilità di contagio tramite aerosol sono infatti tanto maggiori quanto più si cumulano questi fattori: ambienti chiusi, affollati, poco o per nulla ventilati, in cui si parla ad alta voce per lunghi periodi. S’intendono gli effetti circa la i trasporti, le scuole e gli edifici pubblici, la ristorazione e qualunque situazione in cui sia necessario fare a meno di dispositivi di protezione individuale (da considerarsi sempre indispensabili) o si faccia sforzo fisico. La trasmissione per via aerea tende a spostare l’enfasi dai corretti comportamenti individuali alle condizioni obiettive di lavoro. 

       


  Se si ammette anche la trasmissione per via aerea, durante la pandemia appare insensata l’alternativa didattica a distanza o in presenza8. Che l’istruzione sia normalmente in presenza è ovvio. Ripetere questo a un insegnante è offensivo quanto dire a un medico che la peste fa male: e da persona con più di trent’anni d’insegnamento alle spalle dico che il punto non merita ulteriore discussione, tanto è banale. Tuttavia, dovrebbe essere pure altrettanto ovvio che quella della pandemia non è affatto una condizione normale e che il problema non è solo quello dell’affollamento dei mezzi di trasporto pubblico nelle ore di punta dei giorni di scuola. L’altro grave problema è che gli ambienti scolastici sono luoghi ideali per la trasmissione del coronavirus: i giovani sono meno suscettibili e vulnerabili degli adulti ma da asintomatici possono trasmettere il coronavirus tra loro e ai loro famigliari, al personale scolastico e a chiunque altro. In altri termini: la scuola è uno di quei luoghi che fanno da amplificatore di un’epidemia. Anche questo dovrebbe essere ovvio, a chi non ha sugli occhi bende ideologiche. S’intende quanto fosse assurda l’idea che le aule scolastiche fossero sicure anche senza mascherina in posizione «statica», purché si rispettasse la distanza di un metro; e aggiungo che la mascherina chirurgica serve ma, alla lunga non è una garanzia, men che mai in un ambiente sociale e fisico come quello scolastico. Servirebbero i dispositivi di protezione che garantiscono il filtraggio del 95% delle goccioline respiratorie (tipo Ffp2 o equivalenti: N95 o KN95, almeno uno per giornata di lavoro, eventualmente riutilizzabile dopo sterilizzazione mediante raggi ultravioletti). 

         Quel che occorre comprendere una volta per tutte è che, nel mezzo di una pandemia l’alternativa non è scuola aperta o chiusa, didattica in presenza oppure a distanza. L’alternativa reale è fra chiudere subito le scuole in modo da ridurre i contagi, soffocare l’epidemia e poterle quindi riaprire al più presto possibile, oppure essere comunque costretti a chiuderle quando i contagi sono oramai fuori controllo, quindi nelle condizioni peggiori e per un periodo più lungo. Stabilito questo elementare princìpio, si può ragionare sui tanti modi in cui è possibile alleviare il disagio sociale che ne risulta, specialmente per i bambini più piccoli, allievi dislessici, con bisogni educativi speciali, sprovvisti di computer ecc. Per gli allievi obiettivamente in difficoltà si può praticare la didattica in presenza, ma non è razionale intestardirsi nel tentare una quasi-normalità in una situazione del tutto anormale come quella pandemica.   

Infine, è vergognoso che i sindacati della scuola abbiano contrastato la didattica a distanza proprio nelle settimane in cui, per abbattere la seconda onda mentre montava, era invece indispensabile ridurre il flusso di studenti. Tra l’altro, si dimentica il diritto alla salute del milione abbondante di lavoratori della scuola che questi sindacati pretendono di rappresentare, quasi la metà con un’età superiore ai 54 anni nelle superiori, vicino al 40% negli altri ordini della scuola. Tra il 19 ottobre e il 1 novembre i contagiati d’età compresa tra 51 e 70 anni sono aumentati dal 17,5% al 26,5%, con letalità 6% nella fascia 60-69 anni. Soltanto nella provincia di Bari, al 7 novembre erano contagiati 92 docenti. Quanti nel resto d’Italia? È un segreto di Stato? 

È giusto che inizi subito la lotta per investimenti in risorse, reclutamento e stabilizzazione del personale, cambiamenti normativi ecc.: l’eccezionalità della situazione pandemica rivela una normalità patologica che va ribaltata. Tuttavia, i ritmi velocissimi dell’epidemia non sono quelli della contrattazione sindacale, né delle manifestazioni simboliche nazionali, né degli investimenti nell’edilizia. Quando si combatte un nemico mortale occorre usare tutte le armi, non legarsi le mani. 

Da quanto sopra s’intende anche perché sia necessario fermare attività che implichino il consumo ai tavoli o il fare a meno di dispositivi di protezione individuale. Il che pone un altro enorme problema sociale: quello della sopravvivenza economica dei piccoli esercenti della ristorazione e di altri lavoratori autonomi. La questione ha assunto rilievo politico con le proteste promosse in alcune città, a quanto pare da gruppi di destra o comunque da soggetti non riconducibili alla sinistra. Tuttavia, se ne sente l’eco anche a sinistra, nella prima parte dello slogan «tu ci chiudi, tu ci paghi». 

 

4. Regolarizzare i lavoratori in nero e precari, fare attenzione a non cadere nella trappola dello pseudopopulismo dei piccoli esercenti

Per quel che riguarda l’eterogenea categoria dei lavoratori autonomi, l’Italia è terza in Europa, dopo la Grecia e la Romania, ma nell’ultimo decennio la tendenza è verso una loro consistente riduzione numerica. Questo peso del lavoro autonomo è uno dei fatti più tipici della relativa arretratezza del capitalismo italiano e un campo in cui si constatano i limiti del welfare Statenazionale. È giusto che in quanto lavoratori, anche gli autonomi che sono costretti a sospendere la loro attività a causa della pandemia abbiano diritto a un reddito d’emergenza e ad altre misure che ne permettano la sopravvivenza economica. 

Tuttavia, occorre anche mettere in chiaro che nella galassia del lavoro detto autonomo o indipendente esistono gruppi sociali molto diversi, in effetti appartenenti a differenti classi sociali: e questo è il motivo perché dentro e intorno a questa generica categoria giuridica esistono forme feroci di sfruttamento del lavoro. Si consideri che dei 5,3 milioni di lavoratori detti indipendenti, ufficialmente 1,3 milioni hanno alle loro dipendenze altri lavoratori, che gli autonomi «puri» - ufficialmente senza dipendenti - sono 3,1 milioni, ma che tra i lavoratori indipendenti figurano anche 450 mila dependent contractor che, in realtà, tutto sono fuorché indipendenti o autonomi (la categoria è stata introdotta dall’International labour organization e recentemente recepita dall’Istat). Gli indipendenti datori di lavoro e i «puri» si concentrano nel commercio (rispettivamente il 23% e il 21% degli stessi) e i primi anche nella ristorazione (il 15%). Nel commercio e nella ristorazione si concentra però quasi il 29% dei dependent contractor, molto presenti anche nei servizi alle imprese (20%) e nella sanità e assistenza sociale (10%). Questo restando alle categorie giuridiche e ai dati ufficiali. Sappiamo però che esistono circa 4 milioni di «unità di lavoro irregolari» che costituiscono la massa del lavoro nero. E queste sono concentrate nei rami a più alta intensità di lavoro, ridotta dimensione aziendale e scarsa sindacalizzazione: agricoltura, commercio al dettaglio e all’ingrosso, ristorazione e alberghi, costruzioni, trasporti e magazzinaggio, servizi per la persona, con un peso nell’economia del Mezzogiorno che è il doppio di quello delle altre macroregioni nazionali. Lavoro nero che specialmente nel Mezzogiorno non è complementare ma sostitutivo di un lavoro regolare. E di quei circa 211 miliardi di euro che si stima per l’economia sommersa (nel 2018, il 12% del Pil) almeno il 37% si può attribuire allo sfruttamento del lavoro irregolare, circa 78 miliardi di euro. La parte maggiore di questo sommerso è però la sottodichiarazione, ovvero l’evasione fiscale: non ci si può aspettare che da quella parte venga un gran sostegno agli investimenti pubblici nella sanità né, almeno per motivi ideologici, alla tassa patrimoniale. 

       

E dunque, se come altri cittadini anche i lavoratori autonomi devono essere sostenuti, a sinistra il nocciolo della questione dovrebbe essere far emergere il lavoro nero e sommerso, precario e stagionale, affinché possa essere regolarizzato in lavoro stabile e dignitoso, con tutti i diritti. Anche a costo di spaccare questa eterogenea categoria, nel campo del lavoro detto autonomo sono innanzitutto i dependent contractor, gli autonomi che in realtà non sono tali, i precari, gli stagionali, i riders, che dovrebbero essere il riferimento sociale della sinistra, non i padroncini. Si prenda ad esempio la lotta dei riders o fattorini d’imprese piccole e grandi, di questi lavoratori che proprio nella pandemia si sono dimostrati «essenziali ma senza diritti». 

         Viceversa, si capisce bene perché i neofascisti possano mettersi alla testa o comunque trovare spazio in certe proteste di piccoli e meno piccoli esercenti. Essi ne possono ben strumentalizzare l’ideologia spontanea: lasciateci lavorare, ovvero lasciateci continuare a sfruttare il lavoro nero, oppure pagateci, ma con le tasse che i lavoratori dipendenti non possono evadere e che gli autonomi evadono. È un terreno sul quale la sinistra non deve scendere. I problemi dei lavoratori autonomi, di baristi, ristoratori e piccoli esercenti vari vanno trattati con gli strumenti adeguati, che sono quelli della politica economica. Tuttavia, nel bel mezzo di una pandemia non è possibile fare alcuna concessione per quel che riguarda le misure di prevenzione del contagio, che si tratti della pizzeria o della grande impresa che vuol continuare produzioni non essenziali sotto la copertura d’altre invece indispensabili. Che questo genere di pseudopopulismo rimanga dove è giusto debba rimanere: alla Confindustria, ai politicanti demagoghi, a Matteo Renzi, a casa Pound.  

Una posizione che da sinistra banalizza la pandemia o che fa concessioni all’ideologia spontanea dei piccoli esercenti dimostra di aver compreso poco o nulla del significato mondiale della pandemia di Covid-19, espressione di una epocale transizione epidemiologica, di quali siano le conseguenze della malattia anche quando non mortale, delle contraddizioni interne delle misure di contenimento messe in atto dai governi. Significa cadere con entrambi i piedi in una trappola micidiale, che permetterà di fare qualche corteo simbolico e forse di raspare qualche voto dal fondo del barile, ma al prezzo di perdere un’occasione storica, da decenni senza precedenti, per far luce a livello di massa sull’iniquità sociale e sui problemi ecologici globali creati dallo sviluppo capitalistico, di cui la pandemia di Covid-19 è manifestazione. Infine, una posizione del genere è, alla lettera delirante, perché non riesce a vedere decine di migliaia di morti nel proprio Paese, di cui una gran parte non inevitabili, e molte centinaia di migliaia nel resto del mondo - di cui abbiamo notizia incompleta - in gran parte in Paesi sottosviluppati ed «emergenti» (siamo già vicini al milione e mezzo di morti a causa di Covid-19, cifra certamente inferiore al dato reale e che continuerà a crescere: se un paio di milioni di morti paiono pochi...). 

Peggio di tutto, banalizzare in pratica Covid-19, fino a contrapporre in questa congiuntura il diritto alla salute ad altri diritti socioeconomici, è cosa eticamente indegna e disprezzabile. E questo alla lunga si paga, e giustamente molto caro. 

 

Note

1       Ho trattato ampiamente della pandemia, della politica sanitaria internazionale e delle transizioni epidemiologiche nel libro Un solo mondo, una sola salute. Il rapporto fra capitalismo, pandemie ed ecosistemi, Massari editore, Bolsena 2020, di cui alcune parti erano già state pubblicate nel blog di Utopia rossa. Il primo capitolo, un intervento dal titolo originario «La diffusione del Coronavirus annuncia pericoli maggiori», è del 4 marzo, quando andavano per la maggiore le tesi banalizzanti di Giorgio Agamben. Purtroppo vedo che, nonostante i mesi trascorsi e l’enormità della tragedia, questa logica non è ancora scomparsa.

2       Raffaele Palladino-Jordy Bollon-Luca Ragazzoni-Francesco Barone-Adesi, «Excess deaths and hospital admissions for COVID-19 due to a late implementation of the lockdown in Italy», International journal of environmental researchvol. 17, n. 16, 5 agosto 2020. 

3       Hua Zheng-Aldo Bonasera, «Aggressive COVID-19 “second wave” in Italy», medRxiv preprint, 12 novembre 2020.

4       Matteo Gaddi in F. Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionaleop. cit., pp. 112-3. Si vedano anche Matteo Gaddi-Nadia Garbellini, «Settori fondamentali: li stiamo identificando nel modo giusto?», Fondazione Claudio Sabbatini, http://www.fondazionesabattini.it/ricerche-1/ricerca-coronavirus-e-lavoro e le interviste a Gaddi nel sito www.erbacce.org; Michele Nobile, «Covid-19 è Strage di Stato», 13 novembre 2020, http://utopiarossa.blogspot.com

5       Francesca Nava, Il focolaio. Da Bergamo al contagio nazionale, Laterza, Bari-Roma, 2020, pp. 124-5, corsivo mio.

6       Papadimitriou, Dimitri B.-Francesco Zezza-Gennaro Zezza, «When will Italy recover?», Levy Economics Institute of Bard College, Annandale-on-Hudson, NY, Strategic analysis, ottobre 2020.

7       Ne ho scritto in «Covid e aerosol: un rischio generale per la seconda onda imminente», 9 ottobre 2020, ora in Un solo mondo, una sola salute. Il rapporto fra capitalismo, pandemie ed ecosistemi. Lo si prenda come un tentativo di far ragionare i duri di comprendonio a fronte della tempesta in arrivo. Si veda almeno: Nicholas R. Jones et al., «Two metres or one: what is the evidence for physical distancing in covid-19?», British medical journal, 25 agosto 2020.       

8       Si prenda il caso delle epidemie e delle pandemie d’influenza stagionale: da una rassegna di oltre 2500 articoli della letteratura internazionale risulta che nella maggior parte dei casi sospendere la frequenza scolastica ha avuto un effetto positivo nel contenere queste epidemie, specialmente tra gli scolari, e che la ripresa della normale attività scolastica può avere l’effetto opposto (Charlotte Jackson-Emilia Vynnycky-Jeremy Hawker, et al., «School closures and influenza: systematic review of epidemiological studies», British medical journal Open, 3, 2013). Oso dire che sia la scoperta dell’acqua calda, ma a questo proposito pare che durante la pandemia di Covid-19 molti abbiano la vista del tutto offuscata dal vapore. Per quanto riguarda Covid-19 e la scuola mi limito a portare un singolo esempio, da Israele. Dopo la sospensione decisa il 13 marzo, in Israele le scuole riaprirono il 17 maggio: prima del 24 maggio - data di riferimento dell’indagine epidemiologica - la proporzione dei casi positivi d’età 10-19 anni nel distretto di Gerusalemme era il 19,8%, aumentata al 40,9% nelle settimane successive. Nel distretto di Gerusalemme era prominente tra gli infetti la fascia d’età 10-19 anni (22,6% del totale), mentre nel resto dello Stato (escluso il distretto di Gerusalemme) per questa fascia la percentuale era 13,9%. Tra il 26 e il 27 maggio, in un istituto con allievi di 12-18 anni risultarono contagiati 153 studenti su 1.161 testati e 25 membri del personale su 151 testati; tra questi, sintomatici il 43% degli studenti, il 76% del personale. Compresi i parenti e gli amici contagiati, questa singola esplosione ha coinvolto in tutto 260 persone (accertate) (Chen Stein-Zamir-Nitza Abramson-Hanna Shoob-Erez Libal-Menachem Bitan-Tanya Cardash-Refael Cayam-Ian Miskin, «A large COVID-19 outbreak in a high school 10 days after schools’ reopening, Israel, May 2020», Euro Surveillance, vol. 25, n. 29, luglio 2020). Certo, questo può dirsi un caso limite, perché le aule erano molto affollate (anche 35-38 studenti), il distanziamento inferiore al metro e mezzo prescritto (ma un metro in Italia, in teoria!); un’ondata di caldo estremo aveva portato ad esentare dall’uso mascherine per tre giorni (19-21 maggio; ma in Italia questo si considerava sicuro, purché «statici»!) e in tutte le classi funzionava l’aria condizionata. Tuttavia, il caso è indicativo di quel che accade su scala minore e più lentamente, come diffusione delle infezioni tra giovani e da questi agli adulti, e probabilmente anche del ruolo dell’aerosol. 

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