Il volto occultato dei miti di Panarabismo e Panislamismo
di Pier Francesco Zarcone
La miglior comprensione di tanti moderni avvenimenti in quell’area non può fare a meno della demistificazione del panarabismo e del panislamismo. Per quanto il primo di essi per il momento appartenga alla Storia recente ma trascorsa, capirlo aiuta per il presente. Il prefisso “pan-” di entrambi i termini dà l’impressione di tendenze volte ad unificare rispettivamente il mondo cosiddetto arabo[2]e il mondo islamico. Unificare può avere il duplice significato di armonica riunione di elementi diversi e di egemonica imposizione da parte del più forte su tutto il resto. È questa seconda accezione che è si è affermata, nel senso che panarabismo ha significato arabizzazione sunnita e sunnificazione il panislamismo. Le due mitologie in questione sono state presentate (e recepite anche all’esterno) come se si riferissero a realtà rispettivamente omogenee la cui frammentazione attuale sarebbe dovuta all’intreccio fra ambizioni ed errori politici, oltre all’intervento del colonialismo occidentale. Invece tali realtà omogenee non lo sono affatto e forse non lo sono mai state. Lo scopo del presente scritto è rappresentare in modo chiaro alcuni eventi recenti alla luce del conflitto ormai millenario che travaglia il mondo islamico.
Il panarabismo
Dagli invasori arabi una grande estensione territoriale e di popoli ricevette religione e lingua, ma la rapida frammentazione dell’originario impero califfale riportò alla ribalta antiche differenze (etniche, di mentalità, costumi, tradizioni ecc.) a buon bisogno coniugate con fenomeni successivi, e poi rimaste tali, cosicché il divieto di farsi guerra fra musulmani rimase lettera morta in un infinito susseguirsi di conflitti dinastici, tribali e poi – in epoca moderna – anche connotati da nazionalismi tut’altro che panarabi.
Dal canto suo una certa omogeneità religiosa (ma all’interno le differenze ci sono, e notevoli; basti pensare alle varie correnti sufiche, alcune obiettivamente eterodosse) riguarda il 90% dei Musulmani, che sono di osservanza sunnita. I veri e propri conflitti islamici considerabili interconfessionali sono assenti nell’Africa musulmana, ma ben presenti nel Vicino e Medio Oriente dove la componente sunnita – non dovunque maggioritaria si è sempre confrontata con l’irriducibilità degli Sciiti, minoranza nel contesto generale dell’Islām. I più importanti insediamenti sciiti sono in Irān, Iraq sudorientale, Libano, Pakistan, Afghanistan, India.
In fondo per l’Occidente gli Sciiti sono stati una scoperta recente, poiché il cosiddetto “Orientalismo” per lungo tempo si era focalizzato quasi esclusivamente sui Sunniti, considerati espressione dell’Islām tout court; lo Sciismo era stato ridotto a mera prosecuzione (un po’ anacronistica) del conflitto apertosi alla morte del profeta Muḥāmmad per la successione alla guida della comunità islamica (umma, derivata dalla parola “madre”).
La realtà è alquanto diversa. Innanzi tutto il conflitto iniziale non si riduceva al solo fatto successorio, anche se ebbe il suo ruolo. Alla Mecca la maggioranza dei musulmani, seguendo la tradizione tribale, vollero che il successore (khalifah) del profeta fosse eletto da un’assemblea di saggi o presunti tali – essi sarannno i Sunniti; per la minoranza, invece, che si basava su detti del profeta abbastanza chiari ma opportunisticamente non presi in considerazione dai vincitori, la successione spettava a suo cugino e genero ‘Alī, i cui discendenti diretti ne avrebbero proseguito l’incarico. Esisteva anche un altro elemento di differenziazione: per i Sunniti il Califfo era il capo politico della comunità, titolare dei compiti di difendere la legge islamica, ma non di interpretarla, e di amministrare legge e giustizia. Quindi (prescindendo dalle deviazioni successive una volta diventato il Califfato vera propria monarchia ereditaria) il Califfo è capo solo temporale ma non spirituale.
Per gli Sciiti (da shī’at ‘Alī, partito di ‘Alī), invece, il successore del profeta non era «califfo» nella riduttiva accesione sunnita, ma Imām, capo temporale e spirituale in quanto titolare della funzione d’interpretare i significati nascosti della Rivelazione coranica e degli insegnamenti profetici. Era il custode attivo dell’esoterismo islamico, incarnava un’istituzione di origine divina ed era ritenuto in possesso della isma, o immunità dall’errore.Quindi in quest’ottica la missione profetica non era finita con la morte di Muḥāmmad, ma continuava nell’Imām sia pure in una direzione diversa. Nel corso del tempo lo Sciismo (pur nelle branche in cui si sarebbe diviso) svilupperà un proprio diritto (con gli strumenti idonei per dotarlo di un ininterrotto avilppo). una propria teologia e una propria spiritualità, così divergendo ulteriormente dal Sunnismo.
Spesso perseguitati dalla maggioranza sunnita e costretti a nascondere le proprie credenze, e comunque emarginati, tuttavia dal 1501 gli Sciiti con l’avvento in Persia della dinastia Safávide ebbero come riferimento lo Stato iraniano, rapidamente diventato culla di una fioritura intellettuale tanto rilevante quanto ancora poco conosciuta in Occidente. Questo portò i Sunniti a considerarli in bloco come “quinta colonna” persiana, e la Persia sciita era diventata la grande nemica di quell’impero ottomano (sunnita) che aveva sostanzialmente unificato il mondo arabo, Marocco escluso. Per conseguenza gli Sciiti di lingua araba diventarono “Arabi di seconda categoria”; nell’Anatolia ottomana il massacro degli Sciiti assunse i caratteri del genocidio.
Poi si ebbe una sorta di normalizzazione precaria che, vista dall’esterno, poteva anche sembrare “convivenza”. Due episodi posero le basi per il rinnovarsi di un conflitto che i mediadefiniscono impropriamente “settario”: la fine del potere ottomano nella Mezzaluna Fertile dopo la Prima guerra mondiale, e nel 1979 la rivoluzione islamica in Irān. Il primo evento non squilibrò di molto i nuovi paesi di quell’area, a parte però la Mesopotamia diventata regno dell’Iraq per volontà britannica e dove la maggioranza della popolazione era sciita. Getrude Bell (1868-1926), che era diventata l’ascoltatissima consigliera del governo britannico per la politica araba, tanto disse e tanto fece che in Iraq fu installato come re fantoccio il sunnita Faysal ibn Husayn (1883-1933), figlio dello Sharifdella Mecca e amico del colonnello Thomas Edward Lawrence (1888-1936). Di conseguenza il potere politico in Iraq fu dato ai Sunniti. Situazione mantenuta con la forza fino alla caduta di Saddam Husayn (1937-2006)
Il nazionalismo panarabo
Il nazionalismo panarabo, apparentemente irresistibile, fu un fenomeno sunnita a prescindere dall’avere avuto dei cristiani tra i fondatori. Ebbe anche degli effetti seduttivi nell’ambiente sciita, benché non mancassero quanti scelsero l’opzione di sinistra e in particolare per i locali partiti comunisti. In definitiva il miraggio del panarabismo prospettava per le minoranze sciite l’esistenza di un’identità inclusiva anche per esse. E paesi come il Libano, l’Iraq, il Pakistan e il Bahrayn furono teatro di accordi di subordinazione tra i notabili delle comunità sciite (capi tribali e latifondisti) e le classi dirigenti sunnite, di modo che alle minoranze sciite furono attribuite collocazioni definite in quelle società, ma di secondo piano e umili. Poi con l’emergere sempre più pesante dell’autoritarismo governativo e dell’intolleranza sunnita fu accentuata la marginalità sciita. La delusione era inevitabile, e la facile conclusione fu che indipendentemente dalle connotazioni politiche dei regimi sunniti il pregiudizio anti-sciita restava intatto, il nazionalismo arabo si riduceva alla secolarizzazione della tradizionale politica sunnita e il modernismo (più presunto che reale) dei regimi nazionalisti era solo modernizzazione sunnita.
I primi a volare le spalle al panarismo furono gli Sciiti del Libano, inizialmente col movimento Amal(speranza), nato per resistere all’ormai intollerabile prepotenza palestinese in quel paese e poi con l’Hezbollah(partito di Dio) nato per combattere la presenza israeliana. Di stimolo ed esempio fu l’azione di autorevoli mullācome l’iraniano Musa as-Sadr (n. 1928 e scomparso in Libria nel 1978).
Dopo la rivoluzione islamica iraniana
Venne poi la rivoluzione islamica iraniana a squilibrare definitivamente lo scenario dei rapporti tra Sunniti e Sciiti, tanto che fenomeni come al-Qaidae l’Isisvanno considerati risposte dei centri di potere sunnita ai pericoli costituiti dalla rivincita sciita nel Vicino e Medio Oriente. La vittoria della rivoluzione islamica in Irān provocò nel mondo sunnita una reazione caratterizzata da un coacervo di sentimenti: invidia per essere riusciti proprio gli eretici sciiti a farcela, rabbia per non essere riusciti i “veri credenti” a combinare alcunché di analogo, timore per il rafforzamento dello Sciismo, desiderio di emulazione, accrescimento dell’odio verso gli Sciiti.
Khomeini non nascondeva il desiderio di diventare il lider dell’intero mondo musulmano, e per questo attenuò le tradizionali punte polemiche verso il Sunnismo altresì cercando di concentrarsi su aspetti di tipo “secolare” considerati idonei ad unire tutti i Musulmani; cioè la lotta all’imperialismo e ad Israele. Tuitto ciò – oltre a non riuscuotere successo – alla fine si rivelò controproducente, perché la sua ambizione fu intesa come l’ennesima sfida sciita per la leadershipislamica.
Anche negli ambienti sciiti non iraniani la rivoluzione del ’79 ebbe effetti dinamici, a prescindere dall’aderire o meno alle dottrine politiche di Khomeini. In Libano, Iraq, Arabia Saudita, Bahrayn, Kuwait e Pakistan si accese una fiammata di orgoglio che portò molti sciiti ad abbandonare definitivamente le ideologie panarabe e di sinistra (comunismo compreso) per optare in favore di movimenti politici prettamente sciiti e di programmi sciiti. In Libano il movimento Amal, mai ben visto dall’Irān si scisse e la sua ala più islamica costituì l’Hezbollāh, che tra il 1982 e il 1984 avrebbe combattuto e sconfitto Israele – restia a ritirarsi dal Libano – causando quasi 600 morti fra i soldati sionisti. Quello che non era riuscito ai Palestinesi era avvenuto ad opera dei disprezzati sciiti libanesi. Si aggiunga che nel 1983, a Beirut, dei camion bomba di Hezbollāhuccisero 241 marinesstatunitensi e 58 pará francesi nelle loro caserme. Da questi successi il formarsi di una stretta alleanza tra Hezbollāhe Damasco: la prima parte del futuro corridoio sciita nel Vicino Oriente era messa a punto.
Il falimento dell’aggressione irachena (1980-1988) a un Irān abbandonato da tutti fu un altro insuccesso sunnita.
La vittoria di Khomeini rappresentò la fine della più o meno precaria tolleranza verso gli Sciiti nel mondo musulmano e l’inizio di un periodo, che ancora continua, di riorganizzazione dell’estremismo sunnita e di appoggio ad esso da parte dei centri di potere che si sentivano e si sentono più direttamente minacciati dal risveglio sciita. Da rilevare un aspetto in genere trascurato dall’anti-iranismo diffuso: mentre la rivoluzione islamica iraniana rimpiazzò lo Stato monarchico con una propria specifica organizzazione istituzionale, l’estremismo sunnita non si caratterizza affatto per un tale fine, ma sostanzialmente solo per l’islamizzazione spinta e totalitaria del “sistema” esistente.
Il radicalismo islamista
In Arabia Saudita e in altre capitali musulmane era ormai chiaro che si doveva dare luogo a una politica di contenimento verso gli Sciiti. L’appoggio statunitense c’era ma da solo non bastava a rassicurare i potentati sunniti; era il caso di giocare a tutto campo, pur coi rischi inerenti, la carta del radicalismo islamista: cioè il Golem dei Sunniti. Faceva parte del gioco – come poi accadde in Nigeria e in Malaysia negli anni ’90 – reprimere duramente gli stessi islamisti se cominciavano a voler sovvertire in area sunnita accusandoli di essere al servizio vuoi dell’Irān vuoi dello Sciismo.
La prospettiva di poter ammazzare Sciiti a man bassa (e ogni tanto anche qualche infedele non musulmano) si è dimostrata allettante per incrementare il reclutamento di jihadisti in mezzo mondo, e parallelamente ha rafforzato negli Sciiti l’esigenza di apposite contromisure uguali e contrarie.
Intanto la definitiva sconfitta di Saddam faceva sì che in Iraq la maggioranza sciita prendesse il potere, e in questo modo si completava il corridoio sciita da Tehrān a Baghdād, a Damasco e Beirut. Damasco c’entra a pieno titolo poiché la minoranza alawita di cui fa parte Bashar al-Assad, in precedenza aveva ottenuto da Tehrān una fatwā(parere giuridico; la pronuncia di condanna è un decreto che si chiama hokm) di riconoscimento dell’appartenenza alawita allo Sciismo.
A dimostrare quanto siano cambiate le cose dall’ormai trascorso periodo di tolleranza interconfessionale sta la questione dell’attribuzione islamica alla scuola giuridica sciita (la jafārita) da parte del Sunnismo[3]. Nel 1959 il Grande Imāmdell’Università di al-Azhar (Il Cairo) emanò unafatwādi riconoscimento; ma nel 2012 – su pressione degli ambienti radicali della medesima Università – il Preside della Facoltà di Studi Islamici emise una contro-fatwācol divieto di avvalersi della tradizione giuridica sciita.
La risposta al ritiro statunitense dall’Iraq, dopo non avervi combinato granché, fu la comparsa in grande dell’Isisanche nel territorio di quello Stato; e il ruolo egemonico assunto da questa organizzazione nell’eterodiretta guerra in Siria. La funzionalità di questa irruzione stava nell’esigenza di smantellare la coalizione damascena tra Alawiti, Cristiani delle varie confessioni e Sunniti moderati per affermare il carattere radicalmente anti-sciita di quell’area, oltre che spezzare il corridoio sciita. Il famigerato principe saudita bin Salman ha avuto l’improntitudine di dichiarare che prima della rivoluzione iraniana non c’era estremismo nel mondo musulmano: cosa vera, ma solo perché fino a quell’evento i potentati sunniti non vedevano nello Sciismo alcun vero pericolo per se stessi.
È interessante notare che in tutto questo turbinio di sanguinosi eventi non sono mai stati toccati interessi statunitensi e israeliani. Per non dire altro. Come pure va rilevato che nel mondo musulmano in sole due località ci furono pubbliche manifestazioni di cordoglio per le vittime del’11 settembre: in Irān e a Karachi (qui su iniziativa del partito sciita Muttahida Qaumi Momevment).
Per il momento ancora una volta i piani sunniti non si sono realizzati, collocando così un’altra “perla” nella collana dei fallimenti del “vero” Islām. Questo è dovuto all’azione della Russia, dell’Irān, di Hezbollāh, delle locali milizie scite irachenee di quelle siriane di autodifesa, oltre che degli eserciti iracheno e siriano; mentre i mediaoccidentali hanno presentato le cose in modo da far sembrare che i salvatori fossero le milizie curde, il cui ruolo militare invece risulta assai limitato e spesso ambiguo, dando a volte adito a sospetti di accordi “sotto banco” con l’Isis.
[1]Ordinariamente di parla solo di Medio Oriente, termine sbagliatissimo alla luce della geografia, ma storicamente spiegabile; i Francesi, più precisi, parlano di prochaine Orient. Orbene, se denominiamo quest’area Medio Oriente, e giustamente Cina, Indocina e Giappone Estremo Oriente, c’è da chiedersi dove mai sia l’Oriente Vicino implicato dai due termini predetti: certo non nei Balcani. Infatti il vero Medio Oriente è dato da Irān, Pakistān, Afghanistān, India e se vogliamo Asia Centrale. Il fatto è che all’inizio della II Guerra mondiale i comandi militari britannici in Oriente erano strutturati con due sedi: una in India, detta Middle East Command, e una sede in Egitto detta Near East Command; per maggiore funzionalità si decise di unificarle e la nuova struttura, a motivo della maggiore importanza e consistenza di quella indiana, ne assunse il nome, e si ebbe il Middle East Command. Termine che, per la nota esterofilia lessicale dei mediaha finito col designare l’intera area in questione.
[2]Più esatto sarebbe definirlo mondo di lingua araba o, meglio ancora, di lingue derivate dall’arabo classico. Infatti in tutti questi paesi esiste un vero e proprio bilinguismo: la lingua popolare, che è o un dialetto o un insieme di dialetti originati essenzialmente dall’arabo classico; e la lingua colta, per lo più un’arabo standard che si avvicina molto a quello classico. Questo vuol dire che un marocchino che parlasse solo il suo dialetto e un egiziano nella stessa condizione non si capirebbero molto fra di loro.
[3]Questione importante anche in termini pratici, poiché nel mondo musulmano aderire per i propri affari a una scuola giuridica riconosciuta come islamica, o poi sceglierne un’altra, fa parte della libertà personale.
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