Sul libro di Bellofiore, Garibaldo e Mortágua
di Michele Nobile
È necessario uscire dall’euro? Potrebbe essere questa, se non la panacea per i problemi sociali italiani, almeno la condizione necessaria per iniziare a invertire l’orientamento antipopolare della politica economica e sociale? È questo un obiettivo per cui devono battersi lavoratrici e lavoratori, giovani e pensionati in Europa?
Se si vuole approfondire la questione è utilissimo il libro Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea, Di Riccardo Bellofiore, Francesco Garibaldo e Mariana Mortágua (Rosenberg & Sellier, Torino 2019), strutturato in due lunghi saggi e due appendici. È convinzione degli autori che
«l’euro faccia parte di una strategia più ampia - condivisa dalle élite economiche e finanziarie nazionali - di riorganizzare i capitali singoli e di comprimere i diritti della classe lavoratrice, attraverso l’accelerazione della liberalizzazione fianziaria e la maggiore esposizione delle economie nazionali alla concorrenza internazionale» (p. 81).
E tuttavia, pensare di por fine al cosiddetto neoliberismo uscendo dall’euro è un’illusione. Il libro spiega bene perché sia sbagliato il presupposto economico alla base di questa idea e perché, per cambiare la direzione prevalente delle politiche economiche e sociali, una strategia politica realistica debba avere una dimensione internazionale. Di seguito ne espongo le tesi principali, con qualche mia considerazione; le conclusioni politiche dell’ultima sezione sono mia unica responsabilità personale.
Uscire o no dall’euro è in realtà un dilemma falso e fuorviante, quando si considerino il livello d’integrazione dei capitalismi europei, le ragioni di fondo della cosiddetta crisi del «debito sovrano» e la dimensione dei problemi strutturali su scala continentale. La risposta di Bellofiore, Garibaldo e Mortágua a questi ultimi è che
«Essi resuscitano il conflitto sul “come”, “quanto” e “per chi” produrre, che furono al centro delle lotte del mondo del lavoro negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. A esse deve rispondere una politica di socializzazione dell’economia (socializzazione dell’investimento, socializzazione dell’occupazione, socializzazione della banca) e di “buoni” disavanzi statali, “programmati” e mirati alla produzione di valori d’uso sociale per il tramite di un intervento sulla composizione della produzione e di occupazione diretta dello Stato, un vero e proprio “piano del lavoro”» (p. 86).
Per quanto mi riguarda, nel 2011 scrissi
«si chiede anche di “tornare alla lira”, come se la lira fosse un qualche feticcio meno capitalistico dell’euro. O forse si pensa che in una società integralmente monetaria come quella capitalistica “l’economia produttiva” possa essere separata dal finanziamento dell’investimento e dallo sviluppo del circuito finanziario mondiale? In una società capitalistica la moneta è sempre un rapporto sociale, la forma dello sfruttamento del lavoro salariato, non un «oggetto» neutro. Scambiando l’euro con la lira si avanza verso il socialismo quanto giocando alle tre carte in una pubblica piazza»1.
L’uso della moneta è fatto talmente quotidiano e importante che essa può apparire come qualcosa di naturale e ovvio, come il popolo e la nazione: ma, al di là d’averne tanta o poca, la natura della moneta è assai problematica come, a ben riflettere, le nozioni di popolo e nazione. Un pregio del libro è d’indicare le basi teoriche utili alla comprensione del funzionamento della moneta nel sistema capitalistico, applicate al mondo contemporaneo e al funzionamento dell’eurosistema.
Da una parte si tratta di sollevare il velo naturalizzante, che tende a fare della moneta uno strumento socialmente neutrale. Che è poi, a mio parere, il presupposto implicito dei fautori del «sovranismo monetario». In questo caso, per quanto giustificate possano essere le critiche alla Banca centrale europea (BCE) e alla Commissione europea, la moneta torna ad essere neutrale quando sia ricondotta alla sovranità statale, che si presume sia, nello stesso tempo, la riaffermazione della sovranità popolare sancita dalla Costituzione. In pratica si ristabilisce il feticismo della moneta attraverso il feticcio dello Stato nazionale, come se questo non sia uno Stato capitalistico e come se, nel suo complesso, la Costituzione non sia la legge fondamentale che formalmente lo struttura come tale; come se i ceti politici e i capitalisti nazionali subiscano l’imposizione delle politiche antipopolari, invece di esserne i primi attori e beneficiari e come se il popolo sia una realtà dagli interessi sociali sostanzialmente convergenti; come se bastino l’appello alla Costituzione o il ritorno alla moneta nazionale per incrinare i regimi i regimi politici postdemocratici, cresciuti e radicati nei decenni su base nazionale.
D’altra parte, si tratta di comprendere la natura creditizia della moneta in sistema capitalistico e cosa significhi che uno Stato sia parte di un’unione monetaria.
Bellofiore, Garibaldo e Mortágua condividono con gli approcci eterodossi e critici dell’eurosistema l’analisi per cui i debiti pubblici sono conseguenza, non causa dei problemi economici; che le strutture economiche nell’ambito dell’unione monetaria divergono; che l’unione monetaria è stata concepita male o in modo contraddittorio; che le politiche d’austerità e di precarizzazione del lavoro aggravano i problemi che si presume debbano risolvere. Sono tutte ragioni per cui la stessa unione monetaria potrebbe crollare, in forza delle proprie contraddizioni interne, sul piano politico anche prima dell’economico.
Tuttavia, differenza d’altri studiosi, sia eterodossi che ortodossi, gli autorinon condividono l’interpretazione della crisi del debito sovrano di Grecia, Italia, Irlanda, Portogallo e Spagna (GIIPS, in breve) in termini di bilancia dei pagamenti e di squilibrio nel conto delle partite correnti. Contestando il rilievo attribuito alle partite correnti, notano che «i cambiamenti rilevanti nelle strutture commerciali interne all’Europa sono avvenuti ben prima dell’istituzione dell’euro», che le esportazioni dalla Spagna e dal Portogallo sono cresciute più velocemente dopo l’unione monetaria, che la liberalizzazione dei mercati finanziari risale almeno agli anni novanta e che, al contrario delle tesi più diffuse, i flussi finanziari sono causa e non conseguenza o meri amplificatori degli squilibri delle partite correnti (p. 82).
La differenza di diagnosi implica terapie diverse.
2.
Le scale geografiche e temporali entro cui si collocano i fenomeni critici ne influenzano l’interpretazione. Ricondurre i problemi europei all’euro implica sottovalutare motivi strutturali che precedono la sua introduzione e che hanno radici nelle trasformazioni dell’economia mondiale.
Concetti importanti del libro sono la centralizzazione del capitale senza concentrazione, ovvero la costruzione di processi di lavoro e valorizzazione su scala internazionale, e il modello neomercantilistico di espansione nei mercati esteri. Il neomercantilismo genera concorrenza distruttiva ed eccesso d’offerta in settori chiave delle economie nazionali, aggravate dagli investimenti diretti all’estero che creano ulteriore eccesso di capacità produttive. Sicché, se da una parte il contesto complessivo dell’economia mondiale contemporanea è da tempo quello della sovrapproduzione dall’altra l’internazionalizzazione del capitale produttivo e la liberalizzazione del mercato dei capitali hanno «creato un immenso spazio di manovra per il capitale finanziario»; e di particolare importanza è che «le enormi possibilità di rendimenti che è possibile lucrare su investimenti puramente finanziari hanno spinto verso l’alto il margine “minimo” di profitto considerato accettabilenegli investimenti industriali» (p. 66). Se esiste un neomercantilismo del capitale tedesco, neomercantilismo e concorrenza distruttiva non sono affatto limitati né all’Europa né al periodo iniziato con l’euro.
Porto due esempi che, a mio parere, s’accordano con le analisi del libro e dimostrano l’importanza delle scale spaziali e temporali entro cui si muove l’analisi.
All’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, James Crotty applicò al comportamento delle corporations dell’industria manifatturiera statunitense una teoria che combinava le relazioni tra l’intensità della concorrenza (con modalità più o meno «rispettose» o «fratricide»), strategie d’investimento, incertezza della domanda e fragilità finanziaria. La strategia «rispettosa» è caratteristica di una situazione in cui rimane limitata la concorrenza, nazionale e internazionale: punta alla crescita, minimizzando però i rischi e mantenendo l’innovazione tecnologica entro parametri che non comportano la svalorizzazione su ampia scala dello stock di capitale e la complessiva ridefinizione delle relazioni con la forza lavoro. Tuttavia, con l’intensificarsi della concorrenza internazionale, entro la prima metà degli anni ’70 le corporations passarono a una strategia «fratricida», basata sull’attacco a tutto campo alla forza lavoro, su investimenti in tecnologia labour savinge sulla chiusura degli impianti meno redditizi; e nello stesso tempo in cui i profitti si riducevano, cresceva l’indebitamento delle imprese per finanziare la nuova strategia aggressiva e difendersi da operazioni d’acquisizione ostili. Ne risultarono, tra l’altro, la limitazione dell’orizzonte strategico al breve termine e la finanziarizzazione del capitale produttivo2. Alcuni anni dopo Crotty formulò un «paradosso neoliberista» per cui, mentre la concorrenza distruttiva nei mercati dei prodotti limitava i profitti delle imprese non-finanziarie, i mercati finanziari e i managers delle società industriali richiedevano politiche per sostenere il corso delle azioni3.
È una lettura che a mio parere s’accorda con l’idea fondamentale di Robert Brenner circa la crisi degli anni ’70 e i suoi effetti: che essa fu risultato del successo dello sviluppo ineguale e combinato delle maggiori economie capitalistiche del dopoguerra (in particolare della Germania e del Giappone) e della conseguente sovrapproduzione, aggravata dall’entrata concorrenziale dei Paesi di nuova industrializzazione dell’Asia e, in ultimo ma non meno importante, della Cina4.
Non è stata l’unione monetaria europea a creare la concorrenza distruttiva, ma essa l’ha aggravata. Via la compressione dei salari e la flessibilità del lavoro, la deflazione interna si sostituisce alla oramai impossibile svalutazione della moneta.
Ciò su cui occorre interrogarsi è come sia cambiata nel tempo l’articolazione tra capitale monetario e capitale produttivo, come essa operi concretamente nel mondo contemporaneo e nell’eurozona.
Riferendosi agli anni ’90 del secolo scorso e ancor più alla bolla speculativa che generò la crisi del 2008 (negli Stati Uniti iniziata nel 2007), gli autori notano che l’espansione del credito permise di aggirare temporaneamente il problema dei limiti della domanda effettiva. I lavoratori, traumatizzati dal ricatto della disoccupazione, dalla flessibilità occupazionale, dall’intensificazione dello sfruttamento e dalla crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito, ebbero la possibilità d’entrare nel mercato immobiliare e di mantenere o accrescere il consumo di beni e di servizi attraverso l’indebitamento. Nello stesso tempo, il servizio del debito «ha retroagito sulle condizioni di lavoro, rendendo più facile un allungamento della giornata lavorativa sociale e l’intensificazione del lavoro» (p. 23), forzando anche l’entrata nel mercato del lavoro, ma in condizione di svantaggio contrattuale. L’indebitamento dei consumatori statunitensi servì quindi sia alla crescita del settore finanziario che da «sbocco finale per le esportazioni nette delle economie neomercantiliste del Giappone, della Germania, di altre parti d’Europa e più recentemente della Cina» (p. 25). Sappiamo come sono finite le bolle immobiliari e finanziarie negli Stati Uniti e in altri Paesi. Quel che importa ora evidenziare è che «per le banche e la finanza europea, in particolare francese e tedesca, i buoni del Tesoro della periferia europea [GIIPS, nota mia] hanno svolto un ruolo simile a quello dei mutui subprime negli Stati Uniti tra il 1999 e il 2008» (p. 26); e che la crisi iniziata negli Stati Uniti colpì il mercantilismo europeo, sia riducendone gli sbocchi esteri sia a causa dell’esposizione delle banche europee alla bolla finanziaria nordamericana. In particolare quest’ultimo fatto fu decisivo - ben più degli squilibri dei saldi commerciali - per il prosciugarsi del mercato interbancario e la «nazionalizzazione» dei debiti delle banche, quindi per la «crisi del debito» dei paesi dell’Europa meridionale e per il modo in cui venne trattata.
Detto questo, l’attuale configurazione del capitalismo mondiale non è affatto stagnante, giacché - dall’Europa centro-orientale alla Russia alla Cina - ha reincorporato gli Stati ex pseudosocialisti; ha ampliato le possibilità d’investimento in industrie e servizi un tempo statali e introdotto criteri strettamente capitalistici nei servizi che restano pubblici; ha continuato a colonizzare la vita quotidiana attraverso la sua mercificazione; è cresciuta la disuguaglianza sociale, a livelli record proprio in Russia e in Cina; con l’ennesima loro «terza via» i partiti socialdemocratici hanno del tutto rinunciato a rappresentare anche gli interessi minimi dei salariati, con ciò dando vita alla postdemocrazia, mentre, per opporsi ai neoliberisti, partiti più o meno comunisti o alternativi hanno collaborato con i social-liberisti. La vicenda della sinistra post-Pci italiana dimostra in modo esemplare a quale disastro questo porti.
3.
La nozione che le relazioni economiche con l’estero di uno Stato siano esaustivamente descritte dai flussi netti delle partite correnti, in particolare dal saldo commerciale, presuppone che le diverse economie scambino tra loro solo prodotti finiti e che, in questo senso, ciascuna sia un’isola. È una visione dell’economia mondiale come somma di economie nazionali che interagiscono solo dall’esterno l’una dall’altra. È assai discutibile che questa visione dell’economia mondiale capitalistica sia mai stata corretta. Certamente, il concetto marxista dell’imperialismo - che iniziò a formarsi tra la fine del XIX secolo e gli anni precedenti la Prima guerra mondiale - presupponeva lo sviluppo ineguale ecombinatodelle diverse formazioni sociali. Era la visione dell’economia mondiale come un unico sistema ecologico complesso, piuttosto che come mera somma degli scambi tra nicchie relativamente chiuse. Da sempre, i capitalismi dominanti sono tali proprio perché il circuito della loro riproduzione allargata si estende ben oltre i confini statali, comprendendo sia flussi finanziari e commerciali inter-nazionali che unità produttive situate all’estero. Quel che era sbagliato un secolo fa lo è ancor più in un mondo in cui gran parte del commercio internazionale è costituito dal movimento di parti e componenti, non solo di prodotti finiti, e dai corrispondenti flussi finanziari.
Quindi «bisogna collocarsi fuori del consueto universo novecentesco delle isole “nazionali”» (p. 21), sia per quanto riguarda i flussi di merci nella divisione internazionale del lavoro che i flussi lordidi capitale. Per problematizzare la centralità delle partite correnti nell’analisi dell’economia politica internazionale consideriamo prima i flussi di merci, argomento relativamente più facile.
Porto il caso notevole di un’analisi delle esportazioni dalla Repubblica popolare cinese (RPC) nel 2002: allora le percentuali delcontenuto di parti estere erano vicine all’80% per gli elementi e dispositivi elettronici; al 95% per i computers, a circa l’85% per le apparecchiature per telecomunicazione; all’80% per le periferiche per computer5. Inoltre, se nel 1996 le esportazioni dalla Rpc verso gli Stati Uniti e il Giappone si dividevano equamente tra imprese di proprietà statale e foreign invested enterprises, nel 2007 la quota di queste ultime era cresciuta al 67%; viceversa, nel 2007 le importazioni della RPCdestinato alle foreign invested enterprisesammontavano al 72% delle importazioni totali dal Giappone e al 52% di quelle dagli Stati Uniti6. Stando alle statistiche ufficiali della RPC, la quota di parti e componenti importate nel complesso degli scambi commerciali crebbe ininterrottamente dal 1986 al 1998 - dal 18% al 57% - si stabilizzò al 55% fino al 2005 e si ridusse al 44% nel 20117. Non sono a conoscenza di analisi statistiche più aggiornate del peso di parti importate e beni intermedi nelle esportazioni dalla Cina. Tuttavia, assumendo che, nel frattempo, sia aumentato il contenuto nazionale delle esportazioni dalla Cina, bisogna pur chiedersi quale sia il valore di esse che affluisce al capitale estero: quanto delle esportazioni dalla Cina sia effettivamente cinese.Nel gennaio 2017 Ning Jizhe, vice presidente della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma e direttore dell’Ufficio nazionale di statistica, quindi fonte autorevolissima, lamentava che «l’autosufficienza per quanto riguarda i circuiti integrati rimane inferiore al 20%»8.
Almeno dal 1989, un simile processo di centralizzazione senza concentrazione si è verificato in Europa, attraverso la formazione di reti produttive che, da una parte decentralizzano il processo di lavoro-valorizzazione ma, dall’altra, «a differenza di quanto appare a prima vista, la decomposizione e/o ristrutturazione nascondono un altissimo livello di concentrazione del potere capitalistico» (p. 64), in quanto il potere decisionale risiede nelle imprese al vertice delle catene di fornitura. Il nucleo centrale dell’industria manifatturiera europea fa a capo alla Germania e ai Paesi che Bellofiore, Garibaldo e Mortágua definiscono «l’area manifatturiera tedesca allargata»: Austria, Bulgaria, Lituania, Romania, Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia, Slovenia, Ungheria. Come centro manifatturiero l’Italia è al secondo posto, prima della Francia e comunque a distanza dalla Germania, ma è «parte importante e subordinata dell’area manifatturiera tedesca allargata (p. 54).
Il successo della rete produttiva internazionale del capitale tedesco ha ridefinito e accentuato la differenziazione già esistente nel continente, in particolare tra la Germania e i Paesi meridionali che non fanno parte delle reti centrate sulla Germania: Grecia, Portogallo, Spagna e, direi, anche l’Italia meridionale.
Altri due punti importanti. Il primo è che non basta considerare i flussi commerciali lordi, in quanto questi non indicano quanto beni e servizi importati concorrano al prodotto finale: occorre considerare chi e cosa importa ed esporta, e da dove: occorre «utilizzare il valore aggiunto nei diversi passaggi della catena di fornitura» (p. 64). In secondo luogo
«Se si scompone in questo modo il commercio intraeuropeo, diviene evidente che il saldo delle partite correnti non è in grado di evidenziare l’effettivo processo di redistribuzione di potere e valore che si è verificato nell’Unione europea e nella zona euro» (p. 65).
4.
Così come i flussi commerciali netti del conto delle partite correnti non rendono conto degli sviluppi della divisione internazionale del lavoro e delle posizioni che i diversi Paesi occupano nella sua gerarchia, allo stesso modo considerare solo i flussi finanziari netti può essere fuorviante per la comprensione dei modi con cui si finanzia l’attività economica e sulle ragioni della fragilità finanziaria. Occorre fare attenzione al fatto che non c’è alcuna determinata corrispondenza tra flussi finanziari lordi e squilibri delle partite correnti. Il punto è importante perché sugli squilibri delle partite correnti vertono sia le spiegazioni della crisi finanziaria internazionale del 2008 basate sull’eccesso di risparmio della Cina, che avrebbe alimentato la bolla statunitense; sia le spiegazioni della crisi «debitoria» dell’eurozona, anche eterodosse.
Su scala globale i flussi finanziari lordi superano di gran lunga le posizioni delle partite correnti e si muovono in massima parte tra i Paesi a capitalismo avanzato, nonostante si sia ridotto il loro peso nei flussi commerciali globali.
Porto l’esempio degli Stati Uniti: prima della crisi del 2008 (e in minor misura anche dopo) i flussi finanziari lordi annuali, sia in entrata sia in uscita, crebbero molto più velocemente dei disavanzi delle partite correnti ed erano molto più alti del deficit commerciale; la gran parte di questi flussi aveva natura privata; la quota delle «economie emergenti» con le partite correnti attive - tra cui la RPC - nei flussi lordi in entrata negli Stati Uniti era (ed è) assai modesta, ma erano (e sono) invece sempre molto grandi la quote del Regno Unito (la metà del totale nel 2007), centro finanziario mondiale le cui partite correnti sono però in deficit, e dell’Eurozona, il cui conto delle partite correnti era vicino all’equilibrio9. Inoltre, boomsdel credito e delle speculazioni finanziarie e immobiliari non sono esclusivi degli Stati Uniti e, in generale, dei Paesi con deficit delle partite correnti: si sono verificati anche negli Stati Uniti negli anni ’20, in Giappone verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso (quando il Giappone pareva una minaccia commerciale simile a quella della Cina attuale); in India (2001-2004), in Brasile (2003-2007); e nella stessa Cina in anni più recenti. In effetti, alcune crisi finanziarie che hanno segnato la storia dell’economia mondiale si sono verificate proprio nei Paesi esportatori più forti, come nei casi ricordati degli Stati Uniti e del Giappone; e la prossima sorpresa potrebbe venire dalla Cina.
Ed è bene ripensare i discorsi circa il declino della potenza economica statunitense, specialmente quando questo è argomentato sulla base delle sole partite correnti, senza considerare i giganteschi flussi lordi in entrata e in uscita.
Questi sono solo alcuni dei motivi empirici per cui si può dubitare della tesi che associa gli squilibri delle partite correnti e il finanziamento dei boom del credito nei Paesi in deficit da parte di quelli in attivo, considerando solo i flussi finanziari netti.
Per cui, tornando al libro:
«le partite correnti catturano i cambiamenti dei crediti netti verso un Paese che discendono dal commercio reale di beni e servizi: guardano, insomma al mutamento dei flussi netti di risorse. Esse escludono tuttavia i cambiamenti dei flussi lordiche ne sono all’origine, e dunque semplicemente non “vedono” il loro contributo agli stock esistenti: trascurando, per esempio, le transazioni che coinvolgono esclusivamente le attività finanziarie, e che pure costituiscono la maggior parte delle attività finanziarie transnazionali» (p. 43).
Quel che vale su scala globale a maggior ragione vale per un’unione monetaria come quella europea: «l’enfasi sulle partite correnti non riesce a catturare la rilevanza dei flussi finanziari nell’Unione economica e monetaria e come questi ultimi si rapportino alle decisioni di risparmio e di investimento: un aspetto che abbiamo sostenuto essere fondamentale» (p. 31).
A questo punto, per spiegare la crisi finanziaria degli Stati «periferici» e il possibile crollo dell’euro, è opportuno un chiarimento teorico.
È paradossale che proprio chi fa dell’uscita dall’eurosistema la questione politica centrale non veda tutte le implicazioni del fatto che il capitalismo sia un sistema integralmente monetario. La centralità attribuita alle partite correnti risale al modello della moneta-merce metallica - a David Hume e al XVIII secolo - all’idea che ai flussi di merci debbano corrispondere flussi d’oro con segno invertito; e, per giunta, questo modello si basa su scambi bilaterali. In un mondo in cui i flussi di finanziamento possono provenire da molte fonti il rapporto tra partite correnti e finanziamento non può essere così meccanico. I saldi netti commerciali tra due Paesi, come espressi nelle rispettive partite correnti, possono non avere alcun rapporto con i flussi lordi del finanziamento né col risparmio interno: in teoria un’economia con saldo positivo potrebbe essere interamente finanziata dall’estero (se ipotizziamo, ad esempio, che sia una piattaforma per le esportazioni di imprese multinazionali straniere); viceversa, un’economia con disavanzo commerciale - ad esempio perché dedita al «keynesismo in un solo Paese» - potrebbe finanziarsi interamente dall’interno; un terzo Paese potrebbe essere fonte di finanziamento sia per uno in attivo commerciale che per un altro in passivo col primo, senza per questo presentare un saldo commerciale attivo con alcuno dei due10.
Fondamentale presupposto degli autori è invece che la creazione di moneta deve essere concepita come creazione del credito, ovvero come le operazioni di finanziamentodell’attività economica, in generale e, in particolare, del capitale produttivo. Concepire la moneta in termini fisici, di moneta-merce disponibile in quantità definita a priori, poteva avere un senso quando le monete nazionali erano vincolate dalle riserve auree, anche allora in teoria più che in pratica; non ha più alcun senso nell’attuale economia capitalistica mondiale, basata sulla creazione endogena di credito e su riserve in valuta, anch’esse in pratica coincidenti con rapporti di credito e debito. Sottolineo che questo non è il risultato di uno specifico orientamento della politica monetaria o economica o di una particolare epoca storica della società capitalistica: l’essere un sistema integralmente monetario è la peculiarità fondamentale del capitalismo, inseparabile dal rapporto di lavoro salariato e dalla generalizzazione della produzione e degli scambi di merci.
Quanto sopra equivale a dire che deve essere invertito il modo usuale in cui si considera la relazione tra il risparmio e l’investimento, spesso concepito come generalizzazione del caso di un attore individuale, che genera il risparmio decidendo di non spendere parte delle sue entrate. Su scala macroeconomica l’investimento non è funzione di un fondo dato di risparmio ma è vero l’inverso, perché nella società capitalistica «il credito è presente e gode di “libero arbitrio”, cioè è determinante ben al di là delle decisioni reali di consumo» (p.40), da cui il risparmio residua a cose fatte. Il problema è, semmai, quello delle condizioni di creazione della moneta creditizia necessaria a finanziare l’attività economica. Il che rimanda alla valutazione del rischio che il capitale anticipato come credito non risulti poi convalidato dalla domanda solvibile dei possibili acquirenti (di beni di consumo e di mezzi di produzione), cioè che non si realizzi la metamorfosi della merce in denaro e che, quindi, non venga chiuso il circuito iniziato con l’erogazione del credito. O meglio, come scrivono gli autori, anziché dal risparmio - un fondo preesistente - «si deve piuttosto partire dai rapporti di credito/debito e dai rapporti di finanziamentocapitalistico: tenendo conto della possibile incompleta compensazione nell’annullamento dei debiti e crediti reciproci, sicché la differenza residua viene saldata con pagamenti in moneta: questa è una teoria creditizia della moneta, opposta alla dominante teoria monetaria del credito(p. 41).
Privilegiare una delle due teorie influisce in modo decisivo sul come s’intendono l’operare della Banca centrale europea e del suo sistema di compensazione TARGET2.
5.
Se si riconosce che è assai discutibile il nesso causale che va dai saldi commerciali netti del conto delle partite correnti ai movimenti lordi dei capitali, diventa difficile interpretare la crisi di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna nei termini usuali di una crisi della bilancia dei pagamenti, provocata dalle relazioni commerciali di questi Paesi con il resto dell’Unione e, in particolare, con la Germania. Poiché si tratta di relazioni tra membri di un’unione monetaria, non esistono i problemi di violente fluttuazioni del tasso di cambio, né del ritiro dei depositi bancari e degli investimenti in titoli finanziari a causa della svalutazione della moneta nazionale, né dell’esaurimento delle riserve della banca nazionale: «in un’unione monetaria, che ha in comune il sistema dei pagamenti oltre che la moneta, e dove le riserve sono generate endogeneamente dalla creazione di credito, non è possibile che si verifichi una “normale” crisi della bilancia dei pagamenti» (p. 13).
Come in un singolo Stato non esiste un problema di bilancia dei pagamenti tra regioni, così non esiste tra gli Stati membri di un’unione monetaria. Il sistema dei pagamenti dell’eurosistema, il TARGET2, non pone limiti alle passività che una banca centrale nazionale può accumulare con la BCE in seguito a movimenti di capitale tra banche poste in diversi Stati membri, in quanto questo non altera il bilancio consolidato della BCE. Inoltre, non c’è meccanica corrispondenza tra le posizioni delle diverse banche centrali nazionali nel TARGET2 e lo stato delle partite correnti. Ad esempio, non c’è relazione tra i cambiamenti delle passività delle Banche centrali della Grecia e dell’Irlanda nel TARGET2 e il disavanzo delle partite correnti di questi Paesi. Esiste invece una chiara relazione tra queste passività monetarie e gli episodi di «fuga» in massa dei capitali da titoli e banche11, che vanno spiegati con motivi diversi da quello dei saldi commerciali. Si trattava di movimenti finanziari generati dalla previsione del non-intervento della BCE a sostegno dei titoli.
E tuttavia, nei casi di crollo della fiducia e di fuga dei capitali, l’eurosistema può sostituirsi al mercato interbancario, e l’ha fatto tardivamente, fornendo ai sistemi bancari nazionali in crisi la liquidità necessaria ad evitarne il crollo.
Faccio notare che il problema istituzionale ed economico dell’unificazione monetaria europea non è un eccesso ma un difetto d’unità. Si comprende a volo considerando che il Federal reserve system degli Stati Uniti d’America e l’eurosistema sono entrambi decentralizzati, ma in modo molto diverso: il primo non è costituito da 50 banche - quanti gli Stati dell’Unione - ma da 12 banche distrettuali, che coprono più Stati e anche solo parte di uno Stato dell’Unione. Ed è anche più significativo che la Federal reserve operi attraverso la gestione dei titoli del Tesoro statunitense e che, dedotte le spese di mantenimento, trasferisca i suoi guadagni al governo. Nell’eurosistema, invece, la responsabilità dei sistemi bancari degli Stati membri è delle banche centrali nazionali ed è netta la separazione tra BCE e governi, tra politica monetaria e politica fiscale. Benché durante la «crisi del debito sovrano»la BCE si sia decisa ad acquistare titoli di Stato della Grecia (maggio 2010), poi del Portogallo e dell’Irlanda, un anno dopo della Spagna e dell’Italia, dimostrando flessibilità nell’emergenza, la misura rimane straordinaria perché, come scrivono gli autori,
«l’Eurozona ha una banca centrale senza un governo, dei governi senza banche centrali e delle banche senza un effettivo prestatore di ultima istanza. Con un regime di bassa inflazione, ora trasformato in deflazione, e senza la possibilità di ampliare il bilancio dei governi, il sistema non era dotato di alcun meccanismo per eliminare il debito in eccesso dell’economia» (p. 26; citando da R. Bellofiore e J. Toporowski, «L’Europa al bivio. Suicidio per le banche o riforma fondamentale?», in Critica marxista, 5, 2011.
Quindi sia il Federal reserve system che la BCE sono istituzioni capitalistiche, ma è diverso il loro rapporto con la statualità. La Fed funge da banca centrale di un unico Stato federale e di un unico capitalismo. Invece la BCE ha la posizione, straordinaria nel mondo, d’essere la banca centrale di più Stati e di più capitalismi: perché, per quanto abbiano raggiunto un alto livello d’integrazione, le realtà economiche restano distinte e non esistono un bilancio comune e una politica economica sovrannazionale. O meglio, quanto v’è di sovrannazionale è l’orientamento alla compressione del costo del lavoro e alla flessibilità dei lavoratori. È un fatto che esalta la forza dell’iniziativa politica e degli originari motivi geopolitici della costruzione europea, niente affatto assimilabili all’ideologia della spontanea creatività del «libero mercato». Ma è anche una decisione che, mentre rafforza il potere dei singoli capitalismi nei confronti dei lavoratori e dei cittadini, li mantiene divisi perché - anche al di là delle differenze linguistiche - la riproduzione della forza lavoro è, di fatto, ancora in gran parte racchiusa nell’ambito nazionale. Da questo punto di vista, se non c’è un capitalismo europeo, nello stesso senso in cui si può parlare di un capitalismo statunitense, giapponese e cinese, c’è però un comune interesse capitalistico, che passa attraverso l’imposizione delle politiche d’austerità e di flessibilità del lavoro. È questo il problema fondamentale della zona dell’euro, non l’euro in sé. E non è un problema che si risolve tranquillamente uscendo dall’eurosistema e tornando alla moneta nazionale, la cui reale «sovranità», tra l’altro, sarebbe assai discutibile, specialmente per i capitalismi meno competitivi, che ricadrebbero nel più tradizionale vincolo imposto dall’estero nei confronti delle più potenti economie europee.
6.
Ovviamente tutto questo non è privo di contraddizioni e vi sono vincenti e perdenti. Perdenti - ma relativamente al più avanzato capitalismo tedesco, non certo rispetto a lavoratrici, lavoratori e comuni cittadini - sono i capitalismi dell’Europa meridionale - benché nei primi anni del XXI secolo la Spagna fosse portata ad esempio - e dell’Irlanda, un tempo caso virtuoso di piattaforma per le esportazioni.
E, tuttavia, le ragioni del declino industriale di un Paese come l’Italia datano a molto prima dell’introduzione dell’euro: volendo, per la più avanzata frontiera tecnologica si può risalire alla metà degli anni ’60 del secolo scorso; oppure allo smantellamento dell’IRI avviato da Romano Prodi, futuro capo della coalizione del nuovo centro-sinistra.
Ad innescare la crisi del «debito sovrano» di Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna fu la rischiosa situazione determinata dall’esposizione delle banche tedesche e francesi alla crisi finanziaria statunitense, che portò alla contrazione del credito e al deflusso di fondi dall’estero, in particolare dalla «periferia» meridionale», determinando una crisi di liquidità; e, mentre i titoli di Stato tedeschi fungevano da rifugio sicuro, avveniva la «nazionalizzazione» dei debiti delle banche. Negli Stati Uniti la recessione fu grave ma ad essa seguì una debole ripresa; invece in Europa, superata la prima, si verificò una seconda crisi, che non era affatto inevitabile, almeno in quella forma. Invece di rilanciare in modo coordinato la domanda interna continentale, le istanze inter-governative dell’eurozona imposero agli Stati in difficoltà una serie di accordi-capestro, in forma di prestiti con annessi programmi d’aggiustamento e di riforme strutturali che, a loro volta produssero ulteriore caduta della produzione, dell’occupazione, della domanda, aggravando la crisi fiscale; il tutto complicato dai conflitti interni alla BCE a proposito dell’intervento (tardivo) per fermare gli attachi speculativi sui titoli di Stato della «periferia» - che proprio sul non-intervento contavano - e quindi sul ruolo di prestatore di ultima istanza.
Qui a mio parere si misura il limite dell’«internazionalismo» capitalistico. La crisi del «debito sovrano» non è imputabile all’unione monetaria in quanto tale, ma alla separazione tra questo livello sovrannazionale e la conduzione nazionale degli altri strumenti della politica economica, entro i parametri deflazionistici del Trattato di Maastricht e del modello neomercantilistico della crescita trainata dalle esportazioni. In quella separazione e in quei parametri si condensano tre fatti strutturali.
Il primo è che, per quanto possano avanzare le reti della divisione internazionale del lavoro e la mobilità internazionale dei capitali, lo sviluppo capitalistico riproduce in modi nuovi lo sviluppo ineguale e combinato, la gerarchia del potere strutturale dei diversi capitalismi.
Il secondo fatto è che l’incorporazione subordinata in questa gerarchia non è qualcosa che s’impone costrittivamente dall’esterno, secondo una relazione di tipo neocoloniale. Abbiamo pur sempre a che fare con molte tra le formazioni sociali più avanzate del mondo e con Stati a tutti gli effetti imperialisti, nel senso marxista che non riduce l’imperialismo a una politica estera aggressiva. Stati imperialisti sono la Germania, la Francia, l’Italia, la Svizzera, la Svezia, l’Austria, il Regno Unito, che facciano o meno parte dell’eurosistema. Anche gli Stati - e i capitalismi - di Grecia, Spagna e Portogallo non devono essere visti come vittime innocenti e «Stati soggetti a tributo». Semmai, sono i lavoratori e i comuni cittadini ad essere soggetti a «tributi», da pagare al capitale nazionale e internazionale.
Il terzo, conseguente fatto, è che le relazioni all’interno dell’eurozona e dell’Unione europea non sono solo tra Stati e governi: sono anche e principalmente rapporti tra classi sociali. I salariati dei capitalismi più avanzati non partecipano dello sfruttamento dei salariati dei capitalismi più deboli: sfruttatori dei primi e degli altri sono i capitalisti, nazionali ed esteri. È per questo motivo che politici e capitalisti dei Paesi «periferici» accettano i programmi d’austerità e di riforma del mercato del lavoro: per quanto possano comportare fallimenti d’imprese, quei programmi rafforzano la complessiva disciplina del capitale nazionale, grande e piccolo, sul lavoro salariato.
Tuttavia, «riconquistare» la sovranità monetaria non implica affatto un cambiamento dell’orientamento antipopolare della politica economica e sociale.
Bellofiore e Garibaldo indicano quattro motivi per cui l’uscita dall’eurosistema non è affatto la soluzione, o la condizione della soluzione, dei problemi sociali di un Paese:
1) i movimenti di capitale - i flussi lordi - sono «altrettanto se non più determinanti degli squilibri delle bilance di conto corrente»;
2) date l’integrazione finanziaria e la divisione internazionale del lavoro, uscire dall’unione monetaria può risultare assai costoso;
3) «i costi e vantaggi di una flessibilità del cambio sono molto più complicati e differenziati di quanto non si creda»;
4) «il ritorno alla sovranità nazionale sarebbe in larga parte illusorio, e si concretizzerebbe in più e non meno austerità, come peraltro è già avvenuto in passato» (pp. 89-90).
«Riconquistare» la sovranità monetaria può comportare la continuità del modello neomercantilista della crescita trainata dalle esportazioni: non comprendo, altrimenti, quale potrebbe essere l’utilità della flessibilità del cambio. E tuttavia, neanche la svalutazione competitiva può essere sufficiente, tanto più se scomparisse l’intero eurosistema: crescerebbe ulteriormente la concorrenza distruttiva. Una politica che è sconfitta qualora si generalizzi non è una buona politica. E, oltre ad una assai probabile crisi del sistema bancario nazionale - per essere eufemistico - il «keynesismo in un Paese solo» espone, in questo caso realmente, a una crisi della bilancia dei pagamenti provocata dal deficit commerciale.
Per Bellofiore, Garibaldo e Mortágua la regressione nazionalista deve essere contrastata sia per motivi politici che economici. Questo significa che il rilancio della domanda deve darsi con il coordinamento delle politiche su scala continentale e con l’innalzamento sovrannazionale dei livelli della regolazione.
7.
Infine, le mie personali considerazioni politiche, che ritengo coerenti con l'analisi del libro.
L’architettura istituzionale dell’Unione europea è una caricatura della democrazia e la migliore incarnazione internazionale della postdemocrazia12. E, senza dubbio, oltre a rispondere alle esigenze geopolitiche conseguenti dalla riunificazione della Germania (innanzitutto della Francia, intenzionata a contenere l’autonomia politica del grande vicino), l’unificazione monetaria europea è stata parte integrante dell’offensiva capitalistica contro i lavoratori e i comuni cittadini del continente.
L’architettura istituzionale dell’Unione europea è una caricatura della democrazia e la migliore incarnazione internazionale della postdemocrazia12. E, senza dubbio, oltre a rispondere alle esigenze geopolitiche conseguenti dalla riunificazione della Germania (innanzitutto della Francia, intenzionata a contenere l’autonomia politica del grande vicino), l’unificazione monetaria europea è stata parte integrante dell’offensiva capitalistica contro i lavoratori e i comuni cittadini del continente.
Tuttavia, la postdemocrazia non discende dall’alto del cielo di Bruxelles. Non esiste un’eurocrazia dotata di un potere indipendente da quello dei governi degli Stati membri e a questi superiore. La natura postdemocratica dell’Unione europea è l’espressione, in forma collettiva e unificata, di processi nazionali di trasformazioni strutturali della statualità e dei sistemi di partiti. Esiste una dialettica tra il livello europeo e quello nazionale: certo il primo sostiene i regimi postdemocratici degli Stati membri, ma resta il fatto che l’architettura postdemocratica dell’Unione è conseguenza, non causa delle postdemocrazie nazionali13.
Quanto all’unione monetaria, Euro al capolinea?chiarisce bene che, per quanto importantissimo, essa fu solo un passo intermedio dell’offensiva capitalistica e della ristrutturazione dei capitalismi del continente. In effetti, l’offensiva iniziò circa vent’anni prima dell’euro, a cavaliere degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. Di quella prima fase sono emblemi storici Margaret Thatcher e Ronald Reagan, ma partiti e sindacati di sinistra s’adattarono - nel complesso volontariamente - all’iniziativa d’avanguardia di quei conservatori di nuovo tipo: sul livello dei sistemi partitici è questa la ragione della postdemocrazia.
Avanzo alcune ragioni politiche che, da sinistra, dovrebbero almeno indurre dubbi circa il valore politico della proposta d’uscita dalla zona dell’euro e dall’Unione europea.
Primo: la proposta implica che con l’uscita si ristabilisca la «sovranità popolare», magari perché la sinistra (ma quale sinistra?) ha vinto le elezioni. Il minimo che si possa dire è che questa idea, errata in regime liberaldemocratico, è assurda a fronte della consolidata realtà strutturale della postdemocrazia. Qualcosa si dovrebbe pur imparare dalla vicenda del governo greco di Tsipras, ultimo chiodo sulla bara dell’elettoralismo.
Secondo: non è che la natura sociale di uno Stato cambi con la denominazione della moneta. E allora, uscita dall’euro e «keynesismo in un Paese solo» in cosa si risolverebbero? Con ogni probabilità, nel sostegno alla parte più arretrata del capitale nazionale. Sicuramente, nella riconquista della sovranità monetaria di uno Stato imperialista, fosse pure di piccola taglia. È una posizione coerente per la destra più nazionalistica, nostalgica della grandeur o della romanità o del tempo in cui Britannia rules the waves; ma è contraddizione letale per chi ha la presunzione di difendere gli interessi dei lavoratori o aspira al socialismo.
Terzo: la proposta d’uscire dalla zona dell’euro e dall’Unione divide lavoratori e cittadini europei lungo linee nazionali, pur in un contesto di elevata integrazione dei capitalismi. È un fatto che «a sinistra» dovrebbe generare preoccupazione, innanzitutto per le implicazioni politiche.
Quarto: ma chi e come concretamente potrebbe gestire un’uscita dalla zona dell’euro e/o dall’Unione? La sola possibilità visibile all’orizzonte è che essa sia gestita da un governo pseudopopulista e sciovinista, di destra. Tuttavia, si può fare un esperimento mentale, una ragionevole fantasticheria. Se in un Paese si formasse un governo che fosse espressione di grandi lotte di massa - il fatto elettorale in questo contesto ipotetico è secondario - esso dovrebbe volontariamente uscire dalla zona dell’euro? A dire il vero, a monte ci sarebbero ben altri problemi politici: quelli di una situazione assai critica, forse pre-rivoluzionaria. Ed è per questo motivo che un tale governo, non volendosi piegare alla volontà dei capitalisti nazionali ed esteri, potrebbe essere espulso dalla zona dell’euro. Non sarebbe però il caso di fare un favore al nemico di classe anticipandone la mossa. Invece, bisognerebbe fare una grande campagna internazionale tra i lavoratori e i comuni cittadini del continente, non diplomatica ma di vera e propria agitazione popolare, per diffondere il proprio esempio e i propri obiettivi di lotta sulla scala dell’Unione e oltre, per un’Europa unita su una prospettiva opposta a quella del padronato e dei partiti postdemocratici. In tale contesto l’espulsione potrebbe avere l’effetto contrario a quello voluto; e comunque sarebbe solo un episodio di un più lungo processo politico internazionale.
Che la destra nazionalista e xenofoba agiti la bandierina dell’uscita dall’eurozona e dall’Unione Europea non è affatto motivo di sorpresa. Gli pseudopopulisti sanno che è elettoralmente redditizio presentarsi sul mercato politico come i «protettori» del popolo dalla lontana élite eurocratica e da ciò che definiscono alieno: insieme alla tradizione della «legge e ordine», almeno in campagna elettorale possono evocare in modo più o meno vago il protezionismo economico e il sovranismo monetario, magari conditi con qualche misura demagogica. Inoltre, gli pseudopopulisti sanno che, proprio per la sua rozzezza, il nazionalismo è l’antidoto più efficace per prevenire un autentico moto popolare che potrebbe rivolgersi contro l’insieme del regime postdemocratico. Essi non possono smuovere il gigantesco cumulo di nefandezze eretto dalla postdemocrazia di cui sono parte: ma possono strisciarvi sopra, e sventolare la loro bandierina come fossero immuni dal sudiciume in cui si sono rotolati per raggiungerne la cima.
Il caso di Donald Trump è esemplare della contraddittorietà dello pseudopopulismo: un miliardario figlio di papà che s’atteggia ad avversario dell’élite di cui è parte, che demagogicamente scarica sull’estero problemi di natura interna; e, mentre pretende di proteggere il popolo dalle minacce esterne, in politica interna persegue le peggiori misure antipopolari. Per contrastare lo pseudopopulismo occorre far leva sulle sue specifiche contraddizioni: smascherare il protezionismo, in tutte le sue varietà, come demagogica copertura di provvedimenti che non sono affatto alternativi all’indirizzo antipopolare da tempo dominante; smascherare le responsabilità che i partiti pseudopopulisti hanno condiviso e condividono con l’establishmenta cui demagogicamente dicono di contrapporsi14.
Per quanto di difficile realizzazione, una prospettiva politica realistica non può essere di qualità inferiore a quella dell’avversario e del livello di sviluppo storico raggiunto dalla società capitalistica. E il terreno su cui occorre pensare e agire contro «l’Europa del capitale» è quello dell’unità continentale di lavoratrici e lavoratori, giovani e pensionati, non della loro divisione su linee nazionali. È vero che la lotta sociale si svolge sulla scala nazionale: ma è appunto questo il limite che occorre superare per essere all’altezza del nemico di classe e della «eurocrazia» postdemocratica, per trattare problemi sociali, economici ed ecologici che si estendono sul contenente e anche oltre. Interiorizzare questo limite, sventolando l’uscita dall’eurozona e dall’Unione europea come obiettivo centrale, non è realismo ma essere perdenti in partenza, schiacciati da una parte dall’«internazionalismo» del capitale e dall’altra dalla destra sciovinista, a cui il nazionalismo calza un modo tanto più credibile. Rivedendo Lenin, si può dire che se l’estremismo era l’esuberante malattia infantile del comunismo, il nazionalismo fuoriuscitista è una delle noiose patologie che affliggono la sinistra senile.
È del tutto irrealistico pensare che rapporti di forza tra le classi sociali consolidati da circa quarant’anni e regimi postdemocratici oramai affermati possano essere, non dico rovesciati, ma anche solo incrinati da preferenze di voto o da referendum o da campagne d’opinione.
Per rovesciare il corso intrapreso da decenni dalle le politiche statali occorre una serie internazionale d’esplosioni spontanee delle lotte dei lavoratori e dei conflitti sociali, di qualità almeno pari a quelle tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Occorrono un nuovo 1968 internazionale e nuovi autunni caldi, anzi caldissimi. Eventi che oggi appaiono improbabili e lontani, certo, ma le correnti sotterranee della società a volte erompono in modo sorprendente. E, comunque, non si tratta di attendere fatalisticamente gli eventi ma di lavorare perché possano accadere, fare il possibile per alimentare il conflitto, conseguire vittorie parziali, accumulare esperienze, stabilire legami e coordinamenti, sapendo che la strada è lunga e tortuosa. È importante concepire anche i piccoli passi in una dimensione internazionale. L’internazionalismo non è solo l’espressione di solidarietà per lotte lontane. Richiede una visione orientata a far convergere lotte sociali di massa in più Paesi intorno a un obiettivo unificante contro il nemico comune. Certamente sono rare le circostanze in cui questo può accadere, ma sono quelle che offrono l’opportunità di cambiare il corso della storia.
Al contrario, campagne per l’uscita nazionale dalla zona dell’euro e dall’Unione europea, frammentano una lotta che deve avere dimensione internazionale e sono regressive rispetto al livello d’«internazionalismo» oggettivamente e soggettivamente raggiunto dal nemico di classe. L’uscita dall’eurosistema non può che avvenire verso destra: con effetti peggiorativi sulle condizioni di vita e di lavoro e, con ogni probabilità, anche per le libertà.
Senza grandi lotte di massa, condotte con la massima determinazione e durezza intorno a obiettivi parziali ma importanti, non è possibile conquistare riforme importanti, stabilire livelli più elevati della lotta di classe e della coscienza politica, ridare vita a una prospettiva anticapitalista. E senza la sinergia su scala continentale di grandi movimenti sociali, non è possibile conseguire uno storico rovesciamento della direzione della politica economica e sociale, e agire con la prospettiva della socializzazione, nella dimensione adeguata all’Europa del XXI secolo: quella continentale. In ciascun Paese occorre far vivere una prospettiva unificante a lungo termine, che sia globalmente alternativa all’Europa «del capitale», di cui l’Europa «delle patrie» e il sovranismo monetario sono solo varianti. Ritengo essa debba essere la visione dell’unità continentale nella forma degli Stati Uniti socialisti d’Europa.
Note
1 «Tornare alla lira e cancellare il debito? Quando si vuole gestire il capitalismo meglio della propria borghesia e si finisce invece nel più ingenuo nazionalsciovinismo»,http://utopiarossa.blogspot.com/2011/09/tornare-la-lira-e-cancellare-il-debito.html
2 James Crotty, «Rethinking marxian investment theory: Keynes-Minsky instability, competitive regime shifts and coerced investment», in Review of radical political economics, n. 25, 1993.
3 James Crotty, «If financial market competition is so intense, why are financial firm profits so high? reflections on the current “golden age” of finance», Political economy research institute, working paper n. 134, aprile 2007.
4 RobertBrenner, «The boom and the bubble. The US and the world economy», in New Left reviewn. II/6/, 2000;The economics of global turbulence. The advanced capitalist economies from long boom to long downturn, 1945-2005, Verso, Londra e New York, 2006, in gran parte pubblicato nella New Left review nel 1998.
5 Judith M. Dean-K. C. Fung-Zhi Wang,«Measuring vertical specialization. The case of China», inReview of international political economy, vol. 19, n. 4, 2011.
6 Si veda anche Judith M. Dean-Mary E. Lovely-Jesse Mora, «Decomposing China-Japan-U.S. trade. Vertical specialization, ownership, and organizational form», inJournal of Asian Economics, vol. 20, n. 6, 2009. Questi studi utilizzano la metodologia di Robert Koopman-Shang-Jin Wei-Zhi Wang, «How much of Chinese exports are really made in China?», NBER working paper 14109, National Bureau of Economic Research, Cambridge, Massachusetts 2008.
7 Tao Yuan, On China'strade surplus, Springer Verlag, Berlino, 2014, tabella 2.3, p. 25.
9 Si vedano: Claudio Borio-Piti Disyatat, «Global imbalances and the financial crisis: Link or no link?», Bank for international settlements working papers, n.346, 2011; Claudio Borio, «Capital flows and the current account: Taking financing (more) seriously», Bank for international settlements working papers, n.525, 2015.
10 Per queste osservazioni si vedano i papers della nota precedente.
11 Ulrich Bindseil- Philippine Cour-Thimann-Philipp Johann König, «Target2 and cross-borderinterbankpayments during the financial crisis», CESifo Forum, 13, 83, Institut für Wirtschaftsforschung (Ifo), 2012.
12 Si veda Perry Anderson, The new old world, Verso, Londra 2011. L’istituzione internazionale più oligarchica è però il Consiglio di sicurezza dell’Onu.
13 Michele Nobile, Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, Massari, Bolsena 2012.
14 Michele Nobile, «Postdemocrazia, pseudopopulismo e la trappola dell’antipopulismo», 14 gennaio 2018, http://utopiarossa.blogspot.it/2018/01/postdemocrazia-pseudopopulismo-e-la-trappola.html)
Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com