di Roberto Massari
Relazione presentata all’8° Congresso internazionale di Proyecto Sur (Montevideo, ottobre 2018)
Una definizione sintetica dei termini qui impiegati è indispensabile per capire di cosa stiamo parlando.
Per una qualsiasi forma di «espressione artistica» od «opera d’arte» in senso generale, intenderò qualsiasi opera umana, qualsiasi prodotto dell’uomo e della donna che provochi uno stato di commozione, di emozione prodotta artificialmente (nel senso etimologico del termine, da artifex). Quindi non prodotta da fenomeni o spettacoli naturali come potrebbero essere un tramonto, un’eco tra le gole di un monte, il piumaggio di un uccello ecc. E nemmeno psicologico, come potrebbero essere gli stati d’animo prodotti dalla gioia, dal dolore, dall’amore... La natura e determinati contesti psichici possono provocare emozioni intense, anche superiori in confronto alle opere d’arte, ma per l’appunto non sono prodotti della specie umana, sono altro ed esulano quindi dal nostro discorso.
Avendone tempo e spazio sarebbe però interessante analizzare quei prodotti in campo artistico che possono competere su terreni analoghi con le emozioni prodotte dalla natura o da sommovimenti della psiche. Penso alla pittura in campo visuale, alla musica (soprattutto in certe composizioni dette «a programma»). Ma penso anche alla letteratura, alla poesia, alla fotografia e altri manifestazioni artistiche che possono competere con le emozioni prodotte dalla natura, imitandola o contrapponendovisi.
Una definizione così semplificatrice caratterizza l’arte come una componente molto speciale del lavoro: un lavoro manuale e/o intellettuale che produce oggetti o forme o sensazioni che in qualche modo ci emozionano. E tali prodotti del lavoro «artistico» possono sfuggire oppure non sfuggire alle categorie di feticismo della merce, incorporazione di valore di scambio e non solo di valore d’uso, alienazione del produttore ecc.
Per definire la «rivoluzione» il discorso sarebbe molto complicato, ma qui mi limito a dire che essa consiste nell’azione collettiva volta a farla finita col capitalismo per consentire all’umanità di salvare la Terra dal degrado fisico e impedire l’estinzione della specie. È però evidente che per il passato di cui ora ci occuperemo il concetto di «rivoluzione» era ben altro, giacché su cosa fosse l’arte si discuteva dai tempi del Liceo e dei primi filosofi greci.
Da queste mie definizioni iniziali rimangono scoperti due problemi spinosi. Il primo riguarda il concetto di capolavoro che sposta il discorso al di là del semplice piano emotivo per l’evidente connotato storico che lo contraddistingue: vi sono i capolavori sui quali l’umanità concorda, magari senza che tutti li abbiano visti o sentiti, ma per i quali sembra prevalere la consuetudine, vale a dire una sorta di convenzione tacita, originaria, se non un vero e proprio condizionamento prodotto dal trascorrere del tempo. Questo ci porta a considerarli opere d’arte superiori, al di sopra della media, consacrate apparentemente all’eternità in un senso del tutto astratto.
E c’è poi il problema del soggetto che usufruisce dell’opera d’arte e che può provare o non provare determinate emozioni. Ciò che può essere un’espressione artistica per me può non esserlo per il mio vicino e magari per nessun altro al mondo. Se si crede nella libertà artistica e del godimento estetico, questo secondo problema è praticamente irrisolvibile.
Arte e marxismo
Sul rapporto «arte e marxismo» o anche «creazione culturale e marxismo» esiste una letteratura immensa a livello mondiale, per lo più di pessima qualità e molto spesso inficiata di hegelismo, di discorsi astratti, di vere e proprie manipolazioni linguistiche: György Lukács (1885-1971) ne fu la massima espressione nelle parti della sua immensa opera più propriamente teoriche (quindi non solo per i suoi lavori di critica letteraria).
È anche vero però che non sempre gli autori si sono racchiusi nelle diatribe senza fine riguardanti il rapporto struttura/sovrastruttura, se sia possibile un’estetica materialistica, il problema del realismo (socialista o borghese), la cultura «comunista», il rapporto proletari/intellettuali e via discorrendo. Grazie anche ai contributi della psicoanalisi e di moderne teorie antropologiche - con l’apporto insostituibile della critica indipendente in campo figurativo, letterario, musicale ecc. - analisi interessanti sono state proposte anche in ambienti marxisti o contigui al marxismo o ispirati parzialmente dal marxismo: sempre e comunque in totale contrasto con la dottrina sovietica del realismo socialista (Andrej A. Ždanov [1896-1948]) e in contrasto con rinomati intellettuali di alcuni partiti comunisti (in primis francese e italiano) che dei dettami dello stalinismo o del breznevismo in materia culturale hanno dato tuttavia interpretazioni più libere e a volte anche criticamente concepite. Insomma, non sempre da buttar via.
Contributi importanti sono stati forniti certamente dalla Scuola di Francoforte (Walter Benjamin, Herbert Marcuse e altri), da ambienti di formazione marxista nella sociologia francese (Pierre Naville, Edgar Morin, Henri Lefebvre e altri), ma anche statunitense con gli eredi critici della «Scuola di New York» [si veda il cap. 1 di Serge Gilbaut, «New York 1935- 1941: The de-Marxization of the Intelligentsia», pp. 19-47, in How New York stole the idea of modern art, Univ. of Chicago Press, 1983)] e Meyer Schapiro [Modern Art. 19th and 20th century, G. Braziller, New York 1978 (L’arte moderna, Einaudi, Torino 1986, pp. 200-25)].
Certamente interessanti e ben argomentate sono le analisi del gallese Raymond Williams (1921-1988), per es. nel suo Marxism and literature(Oxford University Press 1977 [Marxismo e letteratura, Laterza, Roma/Bari 1979]). Trovo invece noiosa e pretestuosa gran parte della saggistica degli ultimi decenni che su questo e altri temi fa riferimento ad Antonio Gramsci seguendo l’esplosione di una moda internazionale molto sospetta, che non accenna a calare e che per lo più si fonda su interpretazioni del tutto artificiali e comunque obsolete: tutti sanno che Gramsci morì nel 1937, avendo scarsissima esperienza in campo artistico generale, se non limitatamente al futurismo e ad alcune correnti della letteratura italiana ed europea.
E qui infatti va chiarito preliminarmente che per «arte» non intendo un campo della creatività artistica in particolare: quindi non solo letteratura o arti figurative - come spesso si tende limitatamente a ritenere - ma l’insieme delle molteplici espressioni artistiche umane che possono andare dal canto e la musica al cinema, dall’architettura alla fotografia, dal teatro all’oreficeria, alla ceramica e via di seguito. Sarebbe più corretto infatti che parlassi di «arti», al plurale, ma nell’uso di alcune lingue indoeuropee ciò trasferisce subito la mente all’epoca medioevale quando per «arte/arti» si intendeva qualcosa di molto più ampio: mestieri, artigianato, corporazioni professionali ecc. Resta comunque il problema che nella lingua inglese spesso il termine art viene riferito dagli autori solo al campo figurativo.
Il mio tema non coincide, tuttavia, con il rapporto «marxismo e arte» anche se necessariamente lo attraversa, trattandosi di un segmento importante di storia culturale dell’umanità: la mia riflessione ruota intorno alla relazione storicamente determinatasi tra ARTE e RIVOLUZIONE, anche se preferisco la formula RIVOLUZIONE e ARTE, per non incorrere nel reato di presunzione visto che in analogia a quel primo titolo esistono degli illustri precedenti.
Avendo accennato al marxismo devo però ricordare che nell’opera di Marx ed Engels non esiste nulla di organico o complessivo (nella forma di saggio o di articolo) riguardo al tema dell’arte. Si trovano vari riferimenti sparsi nell’Ideologia tedesca, nell’Introduzione del 1959 alla Critica dell’Economia politica, una lunga analisi su Goethe nel Socialismo tedesco in versi e prosa di Engels (1847), pagine di commento ad autori come Chateaubriand, Carlyle, Balzac e molti altri brevi riferimenti letterari nelCarteggio tra i due amici. È noto, infatti, che al tema della produzione artistica Marx non ha dedicato un’autentica attenzione, come del resto non ha fatto per altri importanti campi di espressione umana: valga per tutti la questione dell’etica. Ciò non toglie che uno studioso sovietico di epoca staliniana - Michail Aleksandrovič Lifšic (1905-1983) - poté compilare nel 1937 un enorme volume antologico in cui sono presenti tutti i brani in cui Marx ed Engels usarono le parole «arte» e «letteratura». Che è come compilare un’antologia con i contributi di Gesù alla scienza dell’agronomia riportando tutti i brani evangelici in cui egli nomina il grano o altri cereali.
Sulla politica del partito nella letteratura (maggio 1924)
In realtà le tappe salienti (i testi chiave) della discussione sul rapporto rivoluzione e arte, non sono molti. O perlomeno non sono molti quelli che meritano di essere ricordati per aver avuto una qualche influenza sulla realtà politica e/o culturale loro contemporanea.
Si deve quindi partire necessariamente dalla storica riunione indetta dalla Sezione stampa del Comitato centrale del Pcr(b) il 9 maggio 1924, intitolata esplicitamente «Sulla politica del partito nella letteratura». Ne abbiamo i verbali e quindi possiamo vedere cosa dissero i due interlocutori più impor- tanti: Lev Trotsky (1879-1940), che per l’occasione aveva dato alle stampe uno dei suoi libri più famosi (Literatura i revoljutsija, Moskva 1923) e Anatolij V. Lunačarskij (1875-1933), commissario del popolo per l’Istruzione (autore, tra le altre opere, di Isskustvo i revoljutsija [Arte e rivo- luzione], Moskva 1924). Il secondo difendeva ancora in piena convinzione le idee sulla «cultura proletaria» fedele all’insegnamento di Aleksandr A. Bogdanov (1873-1928) che ne era stato il primo e principale ispiratore in Russia, quando ancora non era stato espulso dal Partito bolscevico per diret- to interessamento di Lenin.
La polemica fra Trotsky e Lunačarskij a proposito del proletkult è ormai obsoleta e di nessuna attualità per l’epoca odierna, ma vale la pena di notare che nel libro citato Trotsky elaborò per la prima volta nella storia una teoria dell’arte nella fase di transizione. Nelle sue stesse parole, tale teoria era ispirata al principio che riguardo ai gruppi e ai movimenti artistici, siano essi «per la rivoluzione o contro la rivoluzione, si deve offrire loro piena libertà nel campo dell’autodeterminazione artistica», giacché «la rivoluzione trova nell’arte il proprio rispecchiamento» [ed. di V. Strada, Einaudi 1973, p. 8].
Le considerazioni presenti nel testo trotskiano e negli interventi che accompagnarono quello storico dibattito sono molto più ampie di quanto qui non si possa dire, ma resta il fatto che la problematica «rivoluzione/arte» riguardava essenzialmente la fase di transizione al socialismo, cioè l’epoca successiva alla vittoria rivoluzionaria (per giunta specificamente russa), mentre restava totalmente scoperta la fase anteriore, che a noi più interessa: che rapporto può esservi tra l’arte e la rivoluzione ancora da compiere? possono integrarsi e aiutarsi scambievolmente? chi sono i veri interpreti di tale rapporto: individui o gruppi sociali? cosa dobbiamo intendere per «artisti»? e per «»rivoluzionari? è forse giusto auspicare la formazione di una categoria di «artisti rivoluzionari» senza cadere nel corporativismo o in procedure di carriera burocratica parassita del movimento reale delle masse in lotta?
I due Manifesti del Surrealismo (1924 e 1929)
A queste domande non poteva rispondere nemmeno un comunista molto particolare come André Breton (1896-1966), autore del Primo e del Secondo Manifesto del surrealismo (1924 e 1929). Egli diede però un contributo fondamentale per la formulazione di molte altre domande legate alla collocazione dell’artista nella società capitalistica, purché egli intenda trasformare anche se stesso insieme alla realtà sociale.
Si trattava di un passo avanti molto importante, mirante a far scaturire l’atto rivoluzionario dal processo interiore della creatività artistica e non più viceversa, vale a dire l’adeguamento convenzionale dell’artista ai compiti o alle necessità del processo rivoluzionario. Anticonvenzionalismo eanticonformismo, come espressioni esteriori di una radicale rivolta interiore, furono i caratteri decisivi del nascente surrealismo. Ed era un autentico rovesciamento di prospettiva destinato ad esercitare una grande influenza su tutte le avanguardie artistiche novecentesche e che continua ancor oggi a far sentire i suoi effetti purtroppo... postumi.
Con Breton il tema dell’inconscio entra prepotentemente nel mondo dell’elaborazione artistica: soprattutto in pittura, poesia, teatro e fotografia, con alcune importanti incursioni in campo cinematografico (vedi Luis Buñuel [1900-1983] e non solo). Il tema della rivoluzione si carica di molte- plici altri significati e non si presta più alla visione dicotomica «classista» con gli operai da un lato (i buoni) e i capitalisti dall’altro (i cattivi). Il surrealismo dichiara invece che, dietro l’apparenza del reale, l’arte (cioè l’atto creativo artistico) può contribuire a svelare il contenuto oscuro della psiche umana, liberando risorse e potenzialità nascoste.
Il passo è importante perché nella visione di questi primi grandi interpreti del surrealismo (tra i quali alcuni pittori e poeti di fama mondiale) la creazione artistica diventa parte del processo di liberazione totale dell’individuoe non più soltanto di emancipazione delle classi sfruttate e oppresse. La sua efficacia rivoluzionaria viene a dipendere da un processo più generale diliberazione psichica, onirica, sessuale, sempre e comunque anticonvenzionalistica, antiformalistica, antiburocratica e non più solo anticapitalistica: una radicale opposizione allo stalinismo divenne praticamente d’obbligo e ciò va detto tenendo conto che Breton e altri surrealisti si dichiaravano comunisti, avendo avuto per qualche periodo addirittura la tessera del Pcf. Su tutto ciò si veda il classico lavoro di un grande studioso con cui ho avuto l’onore di collaborare in campo editoriale: Maurice Nadeau (1911-2013),Histoire du Surréalisme, Seuil, Paris, 1945 e 1964 [La storia del surrealismo, Macchia, Roma 1948 e Mondadori 1972].
Per un’arte rivoluzionaria indipendente (1938)
Il passo successivo per Breton non poteva essere altro che il tentativo di dar vita a un movimento rivoluzionario degli artisti o movimento degli artisti rivoluzionari, in aperta rottura con lo stalinismo e con la sua imposizione di una disciplina ferrea, in pratica un controllo poliziesco su ogni forma di espressione artistica. Fu in questa prospettiva, politica e artistica allo stesso tempo, che nacque il manifesto Per un’arte rivoluzionaria indipendente, redatto in Messico insieme con Trotsky (25 luglio 1938), ma firmato solo da Breton e dal grande muralista Diego Rivera (1986-1957). La vicenda è stata ricostruita con passione e dettagliatamente dal massimo studioso del surrealismo in Italia - Arturo Schwarz (n. 1924) - nel suo Breton e Trotsky. Storia di un’amicizia (1974, nuova ed., Massari, Bolsena 1997).
Il trascorrere del tempo, lungi dallo sminuire l’importanza di quel tentativo di fondere rivoluzione e arte - l’unico e l’ultimo prima dell’immane catastrofe della Seconda guerra mondiale - tende invece ad attribuirgli un valore via via crescente, come dimostrano tutti i principali saggi sulla storia del pensiero artistico (e non necessariamente rivoluzionario) che al Manifesto di Città del Messico/Coyoacán continuano a fare riferimento, spesso ribadendo esplicitamente che all’epoca si perse una grande occasione e si chiuse definitivamente una pagina della storia: vale a dire l’illusione nata dal marxismo ottocentesco che la componente di avanguardia del movimento operaio internazionale potesse compiere la propria rivoluzione comunista utilizzando il patrimonio culturale accumulato nella storia umana, potenziando allo stesso tempo la creatività artistica delle varie intellighenzie - il tutto a garanzia di una definitiva liberazione per l’umanità tutta intera.
Come ebbi modo di annotare (nel mio Trotsky e la ragione rivoluzionaria, 1990/2004, pp. 335 sgg.), è a Breton «soprattutto che va il merito dell’impresa, come massimo esponente ideologico del tentativo di realizzare la grande forzatura che, sul piano politico, non era riuscita a Victor Serge (1890-1947):fondere la grandezza razionalistica della visione storico-sociale del marxismo con la profondità umanistica e l’istinto libertario dell’anarchismo. Il movimento surrealista aveva indubbiamente segnato dei grandi passi in avanti in entrambe le direzioni, da un lato distruggendo ogni sorta di conformismi o tendenze all’autosublimazione repressiva, dall’altro sperimentando nuove strade, sistematizzando ogni nuova acquisizione teorica, tentando infine di razionalizzare l’apparente “irrazionale”».
L’anelito alla libertà della creazione culturale e artistica lo riassume bene il passo seguente del Manifesto di Breton e Trotsky:
«Se per lo sviluppo delle forze produttive materiali la rivoluzione è tenuta ad erigere un regime socialista di pianificazione centralizzata, per la creazione intellettuale essa deve sin dall’inizio stabilire e assicurare un regime anarchico di libertà individuale. Nessuna autorità, nessuna costrizione, neppure la minima traccia di comando!».
E ancora (corsivi miei):
«L’arte, come la scienza, non solo non cercano direttive, ma, per la loro stessa natura, non possono sopportarne una. La creazione artistica obbedisce alle proprie leggi anche quando si mette coscientemente al servizio di un movimento sociale... L’arte può essere la grande alleata della rivoluzione in tanto in quanto resterà fedele a se stessa».
Fino al motto finale che riassume lo spirito della proposta artistico-rivoluzionaria in forma sintetica, ma per me anche commovente se penso al lugubre momento che l’umanità stava vivendo nell’estate del 1938, schiacciata fra due totalitarismi di segno opposto - nazismo e stalinismo - che tredici mesi dopo si sarebbero alleati nell’invadere la Polonia e nello scatenare la Seconda guerra mondiale.
In quella «mezzanotte del secolo» - come la chiamò un grande scrittore e rivoluzionario come Serge - all’umanità fu tolta anche qualsiasi speranza residua di veder realizzato, per la cultura ufficiale asservita dell’epoca, il sogno di un possibile riscatto rivoluzionario condensato nella formula seguente:
«L’indipendenza dell’arte - per la rivoluzione
la rivoluzione - per la liberazione definitiva dell’arte».
Il lungo vuoto del dopoguerra
la rivoluzione - per la liberazione definitiva dell’arte».
Il lungo vuoto del dopoguerra
Vennero la guerra e il suo dopoguerra, la divisione del mondo in due blocchi, la ricostruzione economica in termini di politica imperialistica in Europa occidentale e il definitivo asservimento all’Impero sovietico in quel- la orientale. Conquistarono l’indipendenza grandi collettività umane come la Cina, l’India, l’Indonesia, l’Indocina, oltre a vari Paesi africani, e vi fu l’inizio a fasi alterne di un nuovo rinascimento politico e culturale latinoamericano, mentre la guerra del Vietnam e la lotta del popolo nero portavano alla luce la vulnerabililtà dello stesso capitalismo statunitense. Ma per il poco che restava di avanguardie rivoluzionarie nel mondo le speranze si raccesero soprattutto grazie a due rivoluzioni autentiche - l’algerina e la cubana - in nessuna delle quali però ebbero un ruolo significativo l’arte o la cultura.
In esse non mancò un ruolo politico delle rispettive intellighenzie: mancò invece una fusione tra nuovi contenuti di una cultura d’avanguardia e l’azione politica. Non dimentichiamo che quest’ultima assunse una forma soprattutto militare, e ciò può in parte spiegare ma non giustificare il fatto che l’azione liberatrice delle masse non si fondesse con nuovi contenuti ideali, proiettati nel senso della «liberazione definitiva» e totale di cui si parlava nel Manifesto del 1938. La giovane generazione rivoluzionaria radicalizzatasi sulla scia dell’Algeria di Ben Bella (1916-2012) e della Cuba di Guevara (1928-1967) visse comunque con passione la nascita di movimenti radicali sia nei Tre continenti sia in Europa occidentale, e ciò diede per la prima volta una dimensione veramente internazionale al progetto rivoluzionario.
Ma possiamo constatare a posteriori quanto scarso peso vi abbiano avuto l’arte e la cultura in generale, e l’arte e la cultura rivoluzionarie in particolare. Non mancarono ovviamente tentativi generosi (soprattutto nei primi anni a Cuba), ma per l’appunto «tentativi» furono, come possiamo oggi valutare definitivamente.
Il fatto è che dal dopoguerra in poi si era verificato anche il trionfo delconsumismo, di un’etica materialistica priva di qualsiasi connotato liberatorio, quasi una realizzazione delle peggiori anticipazioni marxiane riguardo all’alienazione (si veda la critica di Henri Lefebvre [1901-1991]). Sul piano culturale, tuttavia, mentre proseguiva la crisi inarrestabile del pensiero marxista rivoluzionario e libertario - per me l’unico erede legittimo dell’opera di Marx e di alcuni suoi degni eredi tra i quali in primis Rosa Luxemburg (1871-1919) che però di arte si interessò poco o niente - avveniva la crescita teorica e la diffusione del freudismo in tutti gli ambiti culturali, in tutte le discipline umanistiche (humanities) e non solo.
Arte e Kultur nel freudismo
Sappiamo che Sigmund Freud (1856-1939) dedicò molta attenzione e testi immortali all’interpretazione psicanalitica della Kultur e dell’arte (Kunst), anche se lo fece completamente al di fuori di qualsiasi idea di rivoluzione sociale. Spettò al freudismo «di sinistra» - a partire da Wilhelm Reich (1897-1957) e proseguendo con Herbert Marcuse (1898-1979) - riempire di contenuti sovversivi le grandi acquisizioni della psicoanalisi, riuscendo anche a trasmettere alcuni frutti di tale riflessione teorica alle nuove generazioni: quelle, per intenderci che formeranno la spina dorsale dei grandi movimenti di ribellione antisistemica nella seconda metà degli anni ‘60 e in parte dei ‘70; salvo poi lasciarsi distruggere dalla controrivoluzione ideologica dei diversi apparati statali o farsi riassorbire nella gestione dei sistemi sociali di appartenenza o di adozione. Ciò è stato vero dagli Usa alla Cecoslovacchia, dall’Argentina all’Italia, dalla Jugoslavia al Giappone.
Il freudismo e la sua evoluzione più radicale avevano gettato le basi teoriche di una possibile rivoluzione interiore individuale, avviando però anche un discorso a tutt’oggi inconcluso sulla dimensione sociale all’interno della quale avvengono i processi di scomposizione e ricomposizione della psiche umana. Mi riferisco al saggio del 1929, Das Unbehagen in der Kultur, che in italiano viene tradotto comunemente Il disagio della civiltà e in spagnolo El malestar en la cultura a causa del doppio e ambiguo significato del tede- sco Kultur (in francese Malaise dans la civilisation; in inglese Civilization and its discontents).
Si tratta di un’opera arcinota e ai fini del nostro discorso basterà ricordare che in essa la funzione del «principio del piacere», che costituisce lo scopo primario dell’esistenza umana, impossibile da soddisfare se non in forma episodica, è fonte inesauribile di sofferenza al punto che il bisogno di evitare il dolore spinge in secondo piano o rimpiazza l’obiettivo della ricerca del piacere. Secondo Freud, la tecnica, la scienza, la cultura in generale spingono l’individuo a combattere la sofferenza associandosi e alleandosi ad altri esseri umani, con il risultato non trascurabile di potenziare quella stessa scienza e cultura, spingendole al di là dei loro obiettivi primari.
Anche il godimento della bellezza rientra in questa traiettoria dell’essere umano che cerca le vie per assoggettare alla propria volontà
«la bellezza delle forme e dei gesti umani, degli oggetti naturali e dei paesaggi, delle creazioni artistiche e persino scientifiche. Questo atteggiamento estetico in relazione allo scopo della vita offre scarsa protezione contro la sofferenza incombente, ma può in grande misura compensarla» (in Opere, X, Boringhieri, Torino 1978, p. 574, corsivi miei).
«la bellezza delle forme e dei gesti umani, degli oggetti naturali e dei paesaggi, delle creazioni artistiche e persino scientifiche. Questo atteggiamento estetico in relazione allo scopo della vita offre scarsa protezione contro la sofferenza incombente, ma può in grande misura compensarla» (in Opere, X, Boringhieri, Torino 1978, p. 574, corsivi miei).
Freud non esita a indicare la sensitività sessuale alla base dell’amore per il bello, considerandolo un classico esempio di «impulso inibito alla meta» (anche p. 591), da cui la novità del discorso sull’origine delle nevrosi che nell’uomo moderno non può più essere compensata nemmeno dall’identificazione umana col divino. I processi di civilizzazione dell’individuo e la sua evoluzione libidica proseguono di pari passo, finendo col dominare il campo delle relazioni sociali, quindi anche la produzione artistica e la dimensione culturale extraindividiuale.
Questo punto di arrivo della psicoanalisi dev’essere collegato a un’altra opera molto nota - Jenseits des Lustprinzip (Al di là del principio del piacere) del 1920 - in cui Freud aveva affermato che il principio di piacere poteva essere sostituito dal principio di realtà (in Opere, IX, 1977, pp. 196-7), deli- neando in tal modo un complesso panorama di conflitti pulsionali, con le relative difese elaborate dalla psiche individuale, tra le quali principale la «coazione a ripetere» (cioè la tendenza a ripetere il contenuto rimosso come forma di esperienza attuale, invece che limitarsi a ricordarlo includendolo nel proprio passato). Lotta tra conscio e inconscio, narcisismo, coazione a ripetere, proiezione, ripudio delle pulsioni sono le varie possibilità che Freud indica come reazioni della psiche a una realtà fonte di insostenibile angoscia. Il conflitto fondamentale, tuttavia, viene indicato tra le pulsioni dell’Io che spingono verso la morte e le pulsioni libidiche che spingono verso la continuazione della vita: è il noto contrasto identificato con i miti di Thanatos ed Eros, che Freud condensa nella formula di «nevrosi di traslazione» (p. 237).
Sono discorsi complessi e affascinanti allo stesso tempo, che sto richiamando solo per preparare la tappa successiva del mio discorso, e cioè per presentare l’unica corrente politico-filosofica nota che di questi contributi freudiani abbia fatto tesoro per sviluppare una moderna teoria della sovversione totale, anche se non proprio di rivoluzione totale: mi riferisco all’Internazionale lettrista e alla sua erede diretta, l’Internazionale situazionista, dalla metà degli anni ‘50 ai primi anni ‘70.
Desidero però abbandonare Freud ricordando le sue ultime parole nel testo qui citato, perché rappresentano un grande esempio di modestia teorica e un invito a noi posteri ad approfondire i termini della ricerca, seguendo anche il suo esempio etico (che è poi ciò che stiamo tentando di fare, nel nostro piccolo, con questa riflessione su Rivoluzione e Arte):
«A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quan- to pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni» (p. 249).
Superamento dell’arte e sovversione totale: il lettrismo/situazionismo
Non è qui possibile spiegare in poche parole cosa abbiano rappresentato il Lettrismo e il Situazionismo sulla scena culturale essenzialmente europea e in particolare di alcuni Paesi futuri fondatori della Comunità europea, come Francia, Italia, Olanda, Belgio, Danimarca. Al Situazionismo ho dedicato vari lavori, e per una sua attualizzazione e superamento mi impegno a convocare annualmente dei non-convegni intitolati «Punti della Situazione», con i numeri progressivi: a gennaio 2019 sarà il PdS n. 5.
La natura del discorso racchiuso nei contributi contributi teorici di questa corrente è un po’ complesso e non sempre disponibile a un’interpretazione univoca. Ma così voleva essere tale linguaggio, creativo e immaginifico, forse per contrapporsi alla mediocrità e alla banalità del quotidiano anche sul piano linguistico. Questa corrente (detta pomposamente «Internazionale situazionista») scomparve di fatto dopo il ‘68 francese e italiano, ma il suo lascito teorico va invece riscuotendo una crescente attenzione in vari settori dell’attività culturale: dalla pittura al cinema all’urbanistica, unita a suoi contributi fondamentali per l’analisi della società capitalistica attuale, come La società dello spettacolo di Guy Debord o il Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni di Raoul Vaneigem, entrambi del 1967.
Si sa che ciò che un movimento dichiara di voler fare, trovandosi per giunta a uno stato nascenrte, non va preso per oro colato: le parole non costano niente e si possono cambiare a differenza dei fatti e dei passi con- creti compiuti. Ma una dichiararzione programmatica contiene pur sempre un aspetto intenzionale, una parvenza di volontà soggettiva o, nel peggiore dei casi, un desiderio di essere percepiti in un determinato modo piuttosto che in un altro. Per questo vale la pena di riportare una dichiarazione sintetica, formulata a nome del gruppo lettrista da alcuni membri deestinati a svolgere un ruolo importante nella storia del Situazionismo, come Michèle Bernstein (n. 1932) e Gil Joseph Wolman (1929-1995).
«Lo sviluppo finale delle costruzioni collettive che ci piacciono sarà possibile solo dopo la scomparsa della società borghese, della sua distribuzione dei prodotti, dei suoi valori morali.
«Daremo il nostro contributo alla rovina di questa società borghese perseguendo la critica e la sovversione totale della sua concezione dei piaceri e anche fornendo slogan utili all’azione rivoluzionaria delle masse» (Potlatch n. 13, ottobre 1954 [corsivi miei].
«Daremo il nostro contributo alla rovina di questa società borghese perseguendo la critica e la sovversione totale della sua concezione dei piaceri e anche fornendo slogan utili all’azione rivoluzionaria delle masse» (Potlatch n. 13, ottobre 1954 [corsivi miei].
Il movimento lettrista, poi situazionista, partiva da un’analisi errata della condizione capitalistica, considerata in pieno disfacimento, e definiva l’insieme delle manifestazioni artistiche interne alla «decomposizione» della società borghese come un espediente estremo per nascondere tale realtà. Ma se sbagliava nel definire moribondo il sistema del capitale su scala mondiale, aveva però ragione nel considerare in piena decomposizione le varie forme di espressione artistica: tutte, non solo le ufficiale, ma anche quelle considerate autonome dal condizionamento borghese, come l’astrattismo in pittura, l’antitonalismo in musica, l’anticonvenzionalismo nel design e lo stesso surrealismo. Di quest’ultimo il situazionismo si considerava un superamento, ma in realtà non ne fu altro che un figlio «degenere» (oppure un «figliol prodigo»? come si potrebbe pensare a tanti anni di distanza).
In pratica e in teoria il lettrismo/situazionismo operò per accelerare la decomposizione dell’arte, convinto per questa via di accelerare anche la decomposizione della società borghese. Un errore di prospettiva che si fondava, come detto, su una percezione giusta solo per metà del rapporto creati- vità artistica/capitalismo.
Nel convegno convocato ad Alba (settembre 1956) da due artisti figurati- vi (Asger Jorn [1914-1973] e Pinot Gallizio [1902-1964]), a nome del Movimento per un Bauhaus immaginista - come anticamera della fondazione dell’Internazionale situazionista che avverrà poco lontano a Cosio d’Arroscia nel luglio 1957 - fu affermato esplicitamente il principio del superamento dell’arte nel contesto della sovversione diffusa contro la società borghese. Tale superamento avrebbe dovuto avere come base indispensabile la fine della «divisione del lavoro artistico» in funzione di una nuova concezione dell’opera arte totale, cioè multimediale, multimaterica, multisituazionale ecc. Al di là delle astruserie di linguaggio, si trattava in fondo di una versione aggiornata del progetto del Bauhaus di Walter A. Gropius (1883-1969), ovviamente ben distinto dalla vecchia accezione operistica wagneriana, che avrebbe dovuto contare sul reciproco assorbimento, già in atto, fra arte e tecnica.
«Qualsiasi credito la borghesia voglia oggi concedere a tentativi artistici frammentari, o deliberatamente retrogradi, la creazione non può essere adesso che una sintesi che tenda alla costruzione integrale di un’atmosfera, di uno stile di vita... Un urbanismo unitario - la sintesi capace di annettersi arte e tecnica, che noi reclamiamo - dovrà essere edificato in funzione di alcuni valori nuovi della vita, che d’ora in avanti dovranno essere riconosciuti e diffusi» (Potlatch n. 27, novembre 1956).
Ebbene, nell’indiscutibile astrattezza ed esplicita inconcludenza di queste concezioni, sorprende e vale la pena di riportare anche il seguente riferimento politico alla situazione internazionale del «fatidico» 1956. Era incluso nella stessa Piattaforma di Alba, a dimostrazione del connubio tra interessi politici e artistici che animò fin dal nascere il lettrismo/situazionismo:
«Il Congresso di Alba seguirà senza dubbio una delle difficili tappe, nell’ambito della lotta per una nuova sensibilità e per una nuova cultura, del rinnovamento rivoluzionario generale che caratterizza il 1956, e che emerge nei primi risultati politici della pressioni delle masse in Urss, in Polonia e in Ungheria... nei suc- cessi dell’insurrezione algerina e nei grandi scioperi in Spagna. Lo sviluppo futuro di questi avvenimenti fa intravedere le più grandi speranze» (ibid.).
Quelle grandi speranze andarono tutte deluse non solo in Ungheria, Algeria e Spagna, ma anche nella stessa Francia dove risiedeva il principale nucleo dell’IS. I situazionisti tentarono di mettere in pratica la loro idea del connubio tra arte e sovversione totale, ma si autodistrussero sia per il tentativo di funzionare come gruppo politico, per giunta settario (vedi la loro lunga sequela di espulsioni alla quale ho dedicato il testo dell’«Espulsione come pratica antirivoluzionaria» in Da Cosio nasce cosa..., [PdS n. 4, Bolsena 2019, pp. 14-18]), sia per la loro idiosincrasia verso i movimenti di massa che non condividessero le loro posizioni: cioè tutti i movimenti degli anni ‘60.
Mentre i loro diretti predecessori - i «mitici» Provos (Provocatori) di Amsterdam, nel 1965-67 - avevano saputo anticipare in teoria e in pratica le battaglie ecologiche e anticonsumistiche della fine degli anni ‘60-inizio ‘70, i situazionisti si chiusero invece in un’autosufficienza ideologica che impedì loro di cogliere la radicalità eversiva della rivolta dei giovani tedeschi, finendo scavalcati e travolti dai movimenti del ‘68 italiano, del Maggio francese e della Primavera di Praga. Ciò che restava in senso organizzativo del gruppo situazionista, anche a intenderlo nel senso più ampio (includendo quindi gli ex, i simpatizzanti ecc.) fu totalmente ignorato dalle nuove avanguardie, benché fossero state proprio alcune loro idee a prevalere confusamente nella fase nascente dei movimenti antisistema.
Morì l’IS ma sopravvisse il loro appello a coniugare la sovversione totale con l’opera d’arte totale (questa da intendere situazionisticamente come superamento dell’arte stessa). Dopo di loro non ci ha provato di nuovo alcuna corrente artistica o movimento politico: una sorta di interruzione «epocale» che rende ancor più difficile attualizzare oggigiorno la prospettiva di un connubio tra arte e cultura, da un lato, e il sogno rivoluzionario, dall’altro. Ma per quanto difficile, il tentativo va fatto.
Va fatto anche perché dopo il lavoro pionieristico, di sfondamento operato da Breton e i surrealisti, i situazionisti sono stati la principale corrente di pensiero che abbia valorizzato il contributo dato da Freud alla comprensione del ruolo dell’inconscio nella creazione del fatto artistico.
In verità ai situazionisti non interessò la «comprensione» freudiana in quanto tale, a causa del loro generale atteggiamento programmaticamente antiteorico - che non significava però ignoranza delle correnti di pensiero più moderne, quanto rifiuto presuntuosamentet infantile di riconoscere la loro effettiva importanza. Essi misero la produzione artistica sotto il segno della massima istintività psichica, vale a dire come espressione il più possibile incontrollata e incontrollabile delle pulsioni profonde emanate dalle profondità dell’inconscio. Da questo punto di vista (cioè dell’istintività creativa) e sotto il profilo figurativo, l’esperienza lettrista/situazionista fu un’emanazione diretta del gruppo CoBrA, la cui figura di maggior impatto qualitativo, per generale riconoscimento, fu Karel Appel (1921-2006) delle cui opere è conservata un’ampia scelta nello Stedelijk Museum di Amsterdam.
Una concezione etica della rivoluzione e quindi della creatività artistica
Questo è un gradino irrinunciabile nella scala presente e futura dei pro- cessi di liberazione culturale e creazione artistica. Perché se ancora si difende una concezione partitica, sindacalistica o addirittura militaristica della rivoluzione - secondo idee obsolete dei secc. XIX-XX che hanno dimostrato abbondantemente il loro fallimento storico - non può sopravvivere alcuno spazio per una valorizzazione della creatività artistica, cioè per un’arte rivoluzionaria e indipendente, anticonformistica e collettiva allo stesso tempo, senza barriere nazionali, di etnia, di genere o di provenienza sociale. Il futuro vedrà la creazione di opere d’arte reali (autentiche?) sempre meno come fatto individuale e sempre più come un continuum nel tempo, comunitario e trasversale rispetto alle varie discipline.
Non potrà essere un’arte finalizzata in quanto tale alla rivoluzione perché ciò ne ucciderebbe la genuinità, ma sarà il prodotto diretto - quindi senza mediazioni spettacolari - dell’insoddisfazione crescente verso il sistema di rapporti sociali che sta distruggendo l’habitat terrestre. Creazione artistica e opposizione antisistemica dovrebbero e forse potranno scaturire da analoghi processi di critica radicale alla gestione privata dei principali mezzi di produzione sulla Terra. Ma tale processo sarà possibile solo se le menti più consapevoli, libere dai condizionamenti della società spettacolare di massa, cominceranno a operare congiuntamente per il conseguimento di tale fine.
In questo senso pienamente utopistico - nel significato più vero del termi- ne, storicamente reale e realizzabile - si pone il fattore etico. Questo è da intendere come coerenza tra la critica del sistema che sta distruggendo la Terra e l’impegno apertamente anticapitalistico (politicamente rivoluziona- rio in questo senso). L’etica dello scienziato (sociale) critico e quella dell’artista critico dovranno apparentarsi sempre più strettamente, fornendoci gli strumenti per intravedere un futuro (possibilmente non troppo lontano) in cui tra la creazione artistica e quella politico-scientifica non vi sarà più una divaricazione professionale o ideale, pur sopravvivendo necessariamente una divisione delle competenze strumentali sul piano delle procedure.
Etica però anche in un altro senso. Perché se è vero che il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi impiegati dev’essere riflessa l’essenza del fine, quale occasione migliore si potrebbe offrire al sogno di realizzare l’opera d’arte totale?
Il collettivo di scienziati-artisti del futuro - impegnati congiuntamente nella difesa del Pianeta contro la minaccia rappresentata dalla sopravvivenza di rapporti scoiali fondati sulla legge del profitto capitalistico - potrebbe diventare una realtà anche se oggi appare solo come un’auspicabile utopia.
(Montevideo, ottobre 2018)
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