di Pier Francesco Zarcone
Nella Storia ci sono eventi in apparenza uguali o simili, ma dalle conseguenze assai diverse, come il perdere le elezioni amministrative nelle grandi città (con quanto ciò significa) e vincerle nelle province. Nel 1931 in Spagna questo provocò una crisi istituzionale e la fuga del Re, mentre in Turchia per ora c’è solo l’accentuarsi della polarizzazione politica, fermo restando che un aggravamento è sempre possibile a seconda delle mosse che farà Erdoǧan, e altresì in base all’evolversi dell’attuale crisi economica e dell’interrelazione tra essa e la politica governativa.
Intanto va registrato che secondo il portavoce del Presidente turco non ci saranno altre elezioni fino al 2023; quattro anni di tempo perché Erdoǧan provi a recuperare pur tra i molti e intricati problemi di politica interna ed estera del momento.
Se all’interno c’è la ben nota crisi economica, all’esterno va riscontrata una serie di fallimenti e contraddizioni.
La possibilità di ingresso nell’Unione Europea (per quel che vale) appare definitivamente sfumata, tanto più se al prossimo Parlamento di Bruxelles ci sarà il previsto rafforzamento dei partiti definiti “sovranisti” (ma che sarebbe meglio chiamare di destra xenofoba tenuto conto della loro poca difesa sovrana di fronte alla politica di Washington). E oggi Ankara verso la Ue dispone solo dell’arma di ricatto – per avere quattrini - riguardante le migliaia di profughi dal Vicino Oriente oggi entro i confini turchi.
Il vecchio ammonimento di Mustafa Kemal “evitare i problemi con i vicini” si è rovesciato nel suo oposto, cioè “tanti problemi con tutti i vicini”: l’Iran sarebbe un rivale, e tutto sommato lo è, ma la cosa non va accentuata per i consistenti interessi energetici che legano Teheran alla Turchia, finché dureranno; i rapporti con Israele risentono ancora della crisi suscitata dall’incidente contro la nave turca Mavi Marmaradel 2010; in Siria la brutta figura di Erdoǧan è palese: dopo aver permesso un notevole afflusso di “combattenti stranieri” contro il governo di Bashar al-Assad, favorendo anche l’Isis, il risultato è che la Turchia non ha conseguito nulla se non l’incremento di attività islamiche radicali anche nel suo territorio, e in più si trova ora ad avere a che fare con l’esistenza di un’entità curda autonoma alla frontiera meridionale, per la quale ha dovuto contrattare con la Russia la possibilità di azione a fronte del sostanziale “via libera” al nemico (o ex nemico?) al-Assad; a seguito dell’avvicinamento strategico realizzato con Mosca, Erdoǧan – a parole campione dell’Islam sunnita – si è altresì dovuto avvicinare al regime sciita di Damasco alleato dell’Iran.
Infine non va trascurato il peggioramento dei rapporti con gli Stati Uniti, a far data dal fallito colpo di stato militare del 2016, dietro al quale Erdoǧan ha voluto vedere lo zampino statunitense attraverso l’imam (o presunto tale) Fetullah Gülen, che Washington non ha nessuna intenzione di estradare in Turchia. Il peggioramento dei rapporti si è aggravato a seguito della decisione di Ankara di acquistare dalla Russia il sistema missilistico S-400 e della rappresaglia Usa consistente nella sospensione dell’invio di caccia F-35. Non sarebbe cosa grave tenuto conto dei problemi tecnici di quegli aerei, ma Washington è capace di mordere davvero con le rappresaglie economico-finanziarie.
In un quadro del genere – e con specifico riferimento alla politica interna - le mosse ulteriormente divisive sono le meno consigliate; ma una mossa capace o di unire o di non avere grossi problemi da parte dell’opposizione laico-kemalista in teoria ci sarebbe, essendo alto il tasso di nazionalismo anche tra le opposizioni vittoriose nelle grandi città. In concreto si trattarebbe di accentuare l’azione anti-curda più che in Turchia soprattutto nella Siria settentrionale. Facile a dirsi e meno facile a farsi.
Per la Siria sono in campo tre ipotesi indipendenti da Ankara:
a) gli Stati Uniti pongono fine alla loro presenza militare (ancora una volta in dispregio del più elementare diritto internazionale) di modo che i Curdi potrebbero essere costretti a stringere migliori rapporti con Damasco per autoprotezione: scenario tutt’altro che gradito ad Ankara poiché – a seconda degli sviluppi – ciò potrebbe anche riprodurre la situazione del decennio 1980-90, caratterizzata dall’appoggio di Hafiz al-Assad al Pkk di Turchia; una naturale vendetta per gli aiuti di Erdoǧan ai jihadisti “moderati” nella guerra siriana. Tuttavia non è detto che si verifichi tale ipotesi giacché, pur a prescindere da un ritiro statunitense, potrebbe continuare l’appoggio Usa ai Curdi, e questa eventualità sarebbe per Erdoǧan peggiore del “rappacificamento” tra Damasco e i Curdi siriani;
b) gli Stati Uniti restano e ovviamente continuano a proteggere i Curdi, i quali in tal modo potrebbero meglio rafforzarsi nell’area; cosa ritenuta una minaccia da Erdoǧan in base al suo punto di vista;
c) la terza ipotesi, indipendente dal ritiro o meno degli Usa, potrebbe consistere nel formarsi di un’alleanza tra Curdi e tribù arabe della zona appoggiata dalle petro-monarchie sunnite del Golfo Persico (ipotesi di recente caldeggiata dal segretario di Stato Usa, Mike Pompeo proprio in una visita a quegli Emirati), le quali avrebbero l’occasione per far pagare ad Erdoǧan l’alleanza col Qatar e la sostanziale ententecon l’Iran; e già Trump (per essere chiaro) ha minacciato di distruggere l’economia turca in caso di attacco ai Curdi siriani.
Quindi in tutte e tre le ipotesi non ci sono risvolti positivi per Erdoǧan. Sembra che al momento la cosa più conveniente per lui si riduca ad accettare una “zona tampone” di 20 km. alla frontiera turco-siriana come proposto da Trump. L’unico risultato minimamente accettabile di questa eventualità starebbe in un piccolo allontanamento curdo dalla frontiera turca, ma nulla esclude la possibilità che tale ritirata possa portare ad un avvicinamento dei Curdi a Damasco.
Certo è che se Erdoǧan fosse costretto a fare soltanto “la faccia feroce” il nazionalismo turco – da cui le opposizioni, come detto, non sono affatto esenti – potrebbe cominciare a non vedere più in lui la carta vincente, accentuandone la debolezza politica.
I margini di manovra per Erdoǧan sono tutt’altro che ampi altresì a motivo della pesante crisi economica che colpisce il settore dell’economia reale, cioè della produzione di beni e servizi, e rischia di durare per almeno altri tre anni salvo complicazioni. L’inflazione è arrivata al 19,6%, il tasso di disoccupazione al 13,5%, i consumi si sono ridotti del 24% (particolarmente nei settori manifatturiero e della produzione industriale), la lira turca si è fortemente svalutata e i generi alimentari sono aumentati del 25%. In conclusione, per la maggior parte dei Turchi non è facile arrivare a fine mese.Le misure economiche adottate a ridosso delle elezioni amministrative sono consistite essenzialmente in provvedimenti fiscali di breve termine ma non sostenibili a lungo termine. Se ci fosse unqualche ritorno di investimenti le cose migliorerebbero, ma che possa trattarsi di investimenti privati, pare molto difficile, talché nessuna meraviglia se Ankara si trovasse costretta a rivolgersi al famigerato Fondo Monetario Internazionale: ne conseguirebbe un disastro sociale senza precedenti e dalle conseguenze politiche non prevedibili oggi, ma sicuramente sconquassanti. In siffatta situazione è un’esercizio retorico chiedersi se sarebbero sostenibili avventure militari e se queste non provocherebbero il crollo a precipizio della lira turca.
Si resta in attesa di vedere se e cosa riuscirà ad inventarsi Erdoǧan.
Infine va pure messo nel conto l’abbassarsi del tasso di religiosità nel paese: cosa grave tenuto conto del carattere islamico del partito di maggioranza che vuole fare dell’Islamismo il collant nazionale, che tuttavia si riduce solo a circa metà della popolazione. Ferma restando l’esigenza di prendere sempre le statistiche con “beneficio di inventario”, pare che la percentuale delle persone dichiaratesi religiose sia sceso dal 55% al 51%, gli atei dichiarati siano passati a 3% e i senza religione al 2%. Paradossalmente (ma non tanto) sembra proprio che, non riuscendo l’islamismo del governo a rafforzare la religione nella società turca, qualcuno cominci a pensare e a dire che forse la laicità dello Stato riuscirebbe meglio a tutelare l’Islam in quel paese. Un problema suscettibile di costituire per Erdoǧan un fronte ulteriore.
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