CONTENUTI DEL BLOG

lunedì 14 gennaio 2019

ROSA LUXEMBURG


Nel centesimo anniversario dell’assassinio
di Michele Nobile 


1. 
Rosa Luxemburg morì il 15 gennaio 1919, assassinata poco dopo Karl Liebknecht da elementi dell’esercito tedesco. Non furono gli unici a cadere in quel gennaio berlinese: la stessa sorte toccò, nei combattimenti e nelle esecuzioni sommarie, a molte decine di operai, dirigenti sindacali rivoluzionari e militanti socialisti che si erano lanciati in rivolta, reazione a una deliberata provocazione del governo che, si badi, era un governo socialdemocratico, un governo della sinistra. 
Con Rosa Luxemburg scompariva la mente più lucida della teoria e della pratica rivoluzionaria nell’Europa occidentale nei primi due decenni del XX secolo, l’unica a potersi confrontare ad armi pari con Lenin e Trotsky.
A una mente brillante che nel modo migliore argomentò la ragione della rivoluzione socialista corrispondeva una passione inesauribile nel mettere al centro dell’azione dell’avanguardia politica organizzata il movimento sociale dei lavoratori, la dinamica delle loro lotte, la maturazione di una coscienza di classe rivoluzionaria attraverso l’esperienza diretta e l’auto-organizzazione della classe. Lottò perché la politica socialista fosse realmente un tutt’uno con la lotta di classe, intesa come movimento di auto-emancipazione sociale. Sostenne con coerenza ineguagliata la democrazia socialista come fine e come mezzo della lotta politica. 
Le implicazioni storiche di quelle esecuzioni - e in particolare di Rosa Luxemburg - furono gravissime. Retrospettivamente portarono un colpo mortale alla direzione socialista e alla possibilità di realizzare la rivoluzione nel Paese più avanzato d’Europa. Quattordici anni dopo lo Stato capitalistico tedesco, la cui ricostruzione si ergeva sulla repressione di quel moto berlinese, si sarebbe denominato Terzo Reich. Malgrado la situazione politica in Germania rimanesse tesa ancora per alcuni anni, il colpo portato al movimento operaio tedesco, a sua volta, contribuì alla rapida involuzione autoritaria della rivoluzione russa. Se Rosa Luxemburg fosse sopravvissuta alla controrivoluzione, avrebbe mantenuto nei confronti del bolscevismo russo la linea che aveva definito nei vent’anni passati: di collaborazione nella lotta rivoluzionaria e, insieme, di dura critica delle inclinazioni a sostituire l’organizzazione di massa con la direzione del vertice del partito. E certamente, in lei la dittatura di Stalin avrebbe trovato immediatamente un’avversaria formidabile nel movimento operaio internazionale. 
Esistono circostanze in cui la presenza o l’assenza o la scomparsa di singole e individualità può influire, se non sulla direzione complessiva della storia, almeno sui suoi modi e sulla possibilità che torni ad emergere una possibilità temporaneamente neutralizzata. 
Ebbene, Rosa Luxemburg fu una di queste individualità. A distanza di un secolo dalla sua morte, chi pensa a un cambiamento rivoluzionario del mondo, chi aspira a un futuro dell’umanità avviato verso la liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento attraverso il socialismo e la massima espansione della democrazia, chi spera di salvare l’umanità dai poteri economici e statali che la dominano, deve poter andare oltre Rosa Luxemburg ma non può fare a meno, innanzitutto, di comprenderne e assimilarne le lezioni.  



2. 
Tra i tanti protagonisti della storia del movimento operaio e rivoluzionario scomparsi tragicamente la figura di Rosa Luxemburg ha un significato simbolico assolutamente particolare, per certi aspetti analogo a quello assunto da Ernesto «Che» Guevara per le generazioni degli ultimi decenni del XX secolo. 
Sia Rosa che Ernesto sono simboli del «combattente eroico» che cade in prima linea nel tentativo di realizzare concretamente l’ideale rivoluzionario, rifiutando comode carriere di partito e di governo. Entrambi incarnano al massimo grado di intensità lo spirito di dedizione alla causa della rivoluzione per la liberazione sociale, testimoniando nel comune destino la ferocia delle forze che ad essa strenuamente si oppongono. 
La valorizzazione simbolica però non sempre giova al valore d’uso politico. In questo la perdita della memoria del contesto specifico in cui operarono Guevara e la Luxemburg gioca un ruolo importante e negativo. Tanto più quando è gestita da una nomenklatura politica che cerca di coprire con l’immagine di chi ha dato il proprio sangue per la causa della liberazione umana la propria vuotezza ideale e programmatica, in realtà antitetica alla pienezza di contenuti della vita di Luxemburg e di Guevara. Essi sono un patrimonio dell’umanità ma non hanno veri eredi nei partiti che si richiamano al movimento operaio. 
L’accostamento di Luxemburg a Guevara ha una motivazione profonda e di sostanza politica, ovvero programmatica e ideale, che supera l’esempio delle loro morti e le pur grandissime differenze del quadro storico, sociale e geopolitico, in cui si formarono, amarono, lottarono e, infine, morirono. 
Luxemburg visse nella prima epoca dell’imperialismo, caratterizzato dall’espansione coloniale, dai processi di concentrazione, centralizzazione e internazionalizzazione del capitale, dall’inizio della crisi dello Stato liberale ottocentesco e dalla crescente rivalità tra le potenze capitalistiche, sfociata nella Prima guerra mondiale e in quel periodo che, complessivamente, può dirsi «la guerra mondiale dei trent’anni». 
Guevara visse invece nell’epoca del cosiddetto neoimperialismo (o tardocapitalismo), caratterizzato dallo sfruttamento economico di Stati ex coloniali, dallo sviluppo delle forme di intervento economico e sociale degli Stati a capitalismo avanzato, dalla contrapposizione dell’insieme degli Stati imperialisti al blocco dominato dall’Unione Sovietica e dalla Cina, dall’esistenza di mostruose dittature sul proletariato esercitate dai Partiti comunisti in questi ultimi Stati. 
In tempi e modi diversi furono degli iniziatori la cui opera pratica e teorica fu contraddistinta dalla ricerca di nuove vie per riportare il fine della trasformazione del mondo dalla promessa di salvezza in un cielo lontano al presente terrestre del movimento reale. 
Sia Luxemburg che Guevara dovettero battersi non solo con l’apparato dello Stato capitalistico ma con gli apparati burocratici scaturiti dal movimento del proletariato: quello socialdemocratico nel caso di Luxemburg e quello, enormemente più potente, dell’Unione Sovietica e dei partiti di matrice stalinista nel caso di Guevara. In diversi contesti si trovarono quindi a fronteggiare non solo il nemico della classe ma il nemico entro la classe. 
Per comprendere cosa questo significhi concretamente si tenga presente che la sanguinosa repressione del tentativo rivoluzionario tedesco del 1919, nella quale vennero assassinati a Berlino Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, non fu opera di un esercito agli ordini di un governo di destra. A fare «la parte del boia», come scrisse egli stesso, fu il socialdemocratico Gustav Noske, «commissario del popolo per l’esercito e la marina» di un governo socialdemocratico (di cui avevano fatto parte inizialmente anche i «socialdemocratici indipendenti», più a sinistra) presieduto dal socialdemocratico Friedrick Ebert, poi primo presidente della Repubblica detta di Weimar. Il governo aveva «ricevuto il potere» dall’assemblea dei delegati dei consigli degli operai e dei soldati: in Germania, al contrario di quanto era da poco accaduto in Russia, il dualismo di potere tra consigli e governo si risolse a favore di quest’ultimo, spalleggiato da un corpo volontario di stampo fascista e dall’intera borghesia. 
Esecutore materiale della repressione fu infatti un «corpo franco di cacciatori volontari» organizzato dai militari dello sconfitto esercito imperiale allo scopo preciso della guerra civile; ma quello fu anche il primo caso in cui i dirigenti governativi di un partito socialista si siano assunti la responsabilità politica dell’eliminazione fisica di militanti rivoluzionari e operai. 
Una lezione che possiamo trarre dalla vicenda di Rosa Luxemburg è che anche un governo tanto «a sinistra» può massacrare i lavoratori e sopprimere le migliori menti e gli spiriti più generosi del movimento operaio, agendo in accordo con i comandi militari e la destra tradizionale. Una prassi che poi assunse scala industriale con lo stalinismo. 

3.
Il problema fondamentale con cui si confrontò Luxemburg fu quello delle incipienti tendenze alla burocratizzazione, all’adattamento al capitalismo ed alla conciliazione con l’imperialismo interne al movimento operaio organizzato e di matrice marxista. Dovette affrontarlo fin dal suo esordio nell’arena politica del Partito socialdemocratico tedesco (Spd), la più forte organizzazione della Seconda Internazionale e riverito cuore teorico della stessa. 
A cavallo tra il XIX e il XX secolo quelle tendenze alla burocratizzazione e all’elettoralismo, già attive nella pratica politica quotidiana e locale, iniziarono a definirsi, a livello nazionale e internazionale, come strategia esplicita e complessiva che richiedeva l’abbandono della fraseologia rivoluzionaria e la revisione dei cardini teorici di quella che era considerata l’ortodossia marxista. I partiti socialisti muovevano i primi passi verso l’integrazione attiva nello stato borghese ai più alti livelli. Nel 1899 il socialista francese Alexandre Millerand entrò nel gabinetto Waldeck-Rousseau, infrangendo quello che allora era un tabù ed ancora doveva rimanere formalmente tale per la maggioranza della socialdemocrazia internazionale fino alla Prima guerra mondiale. 

La Luxemburg non ridusse queste tendenze a una questione di «tradimento» soggettivo individuale e di «vendita al nemico» (che pure può esserci) o all’afflusso di elementi borghesi nel movimento operaio, ma le interpretò come una politica dotata di una logica oggettiva e conseguente che richiedeva quindi una spiegazione altrettanto oggettiva delle sue radici sociali. 
La logica politica è quella del sostituzionismo: della sostituzione del primato della lotta di classe con il primato dell’organizzazione partitica e sindacale e della integrazione nello Stato e nella competizione tra frazioni politiche borghesi, magari presentata come «conquista» dello stesso attraverso la vittoria elettorale e la collaborazione con le frazioni politiche «progressiste» rappresentanti l’imperialismo «nazionale». 
Per dirla con Luxemburg, in termini sociali si può dire che le tendenze alla conciliazione nascono dal fatto che, mentre la lotta dei lavoratori per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro può forzare trasformazioni, pur rimanendo entro i limiti del sistema e delle sue istituzioni fondamentali, l’interesse storico obiettivo del lavoro salariato si pone al di là dell’ordine sociale esistente. 
Già prima che iniziasse il XX secolo Luxemburg aveva compreso che, i rapporti politici e giuridici «innalzano tra la società capitalistica e quella socialistica una barriera sempre più elevata. Lo sviluppo delle riforme sociali e della democrazia non fanno delle brecce in questa barriera, ma al contrario, l’irrigidiscono e la rafforzano. Essa potrà essere abbattuta unicamente dal colpo di maglio della rivoluzione, cioè dalla conquista del potere politico da parte del proletariato» (Riforma sociale o rivoluzione?, 1889). 
S’intende dalla precedente citazione che, pur battendosi con la più grande energia per l’estensione dei diritti democratici e per la saldatura tra lotta democratica e sociale (in particolare nel movimento tedesco per il suffragio egualitario del 1910, anno della sua definitiva rottura con Karl Kautsky), Luxemburg non aveva alcuna illusione nella trasformazione del sistema sociale a colpi di leggi parlamentari o nella conquista del potere mediante la graduale accumulazione di una maggioranza elettorale. 
L’alternativa elaborata da Luxemburg sulla base delle esperienze del tentativo rivoluzionario in Russia (che inventò il Soviet) e nella Polonia russa del 1905 - dove la lotta fu ancor più aspra e operaia che nel resto dell’impero zarista - fu quella sintetizzabile nel concetto di sciopero di massa. Questo non ha nulla a che fare con quanto deciso a tavolino da un’organizzazione politica o sindacale, fosse anche per i più giusti dei motivi, né a maggior ragione con gli scioperi dimostrativi e le manifestazioni simboliche. Lo sciopero di massa a cui si riferiva Luxemburg è l’esplodere di processi «inconsci» nella società. Si tratta della logica dell’interazione e dell’esempio, della generalizzazione di lotte e movimenti sociali che possono essere in parte preparati dall’azione dell’avanguardia politica ma che nessun vertice dirigente o apparato può decidere: «è impossibile “propagandare” lo sciopero di massa come un astratto mezzo di lotta esattamente come è impossibile propagandare la “rivoluzione”» (Sciopero di massa, partito e sindacati, 1906). In effetti, per Luxemburg gli apparati burocratici erano - e sempre sono -  tendenzialmente conservatori di sé stessi, timorosi dei contraccolpi dell’avversario e orientati a considerare prematuro l’esplodere spontaneo di movimenti sociali che non sono sotto il loro controllo. Al contrario, per Luxemburg l’avanguardia politica poteva svolgere la sua missione solo come parte integrante di questi movimenti, battendosi perché essi proseguissero fino in fondo nel perseguire i loro obiettivi e per estendere e radicalizzare la lotta verso obiettivi ancor più avanzati. È solo attraverso l’esperienza diretta dell’azione di lotta che si forma una coscienza rivoluzionaria di massa e che la maggioranza del popolo può essere conquistata al socialismo. Ed è solo attraverso questo processo che grandi masse possono organizzarsi. 
In questo modo Luxemburg abbatteva metodologicamente la differenza tra programmo politico minimo - quello delle conquiste parziali entro il sistema - e programma massimo - la rivoluzione e la conquista del potere - tendendo a creare un ponte tra il presente e il futuro. 

Il revisionismo pratico della socialdemocrazia tedesca può considerarsi come il prototipo dei processi che hanno trasformato i partiti operai in partiti politicamente borghesi, totalmente integrati nell’ordine capitalistico nazionale e mondiale, la cui funzione reale non è più neanche la rappresentanza politica dei salariati ai fini del graduale miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro mediante le riforme sociali, ma la trasmissione e la mediazione entro il movimento operaio degli interessi immediati del capitalismo, nazionale e mondiale. 
Il revisionismo teoricodi Eduard Bernstein nell’ultimo decennio del XIX secolo poneva un problema reale, quello dell’adeguamento tra la teoria e una prassi diffusa, benché non generale. Era un’alternativa coerente e complessiva alla politica «isolazionista» e alla presunta «ortodossia marxista» di Karl Kautsky - il «papa rosso». In realtà Kautsky aveva rielaborato in modo originale il pensiero di Marx trasformandolo in un’ideologia identitaria, utile a consolidare i progressi elettorali e organizzativi della socialdemocrazia ma incapace di saldare i movimenti di lotta su questioni parziali con l’obiettivo di abbattere il potere il potere statale della borghesia. La stessa politica kautskiana era più la razionalizzazione passiva dell’esclusione della Spd dal sistema politico che una strategia attiva ed incisiva. Era la promessa di una rivoluzione senza rottura rivoluzionaria. Fu anche per questo che in definitiva la più coerente prospettiva di Bernstein finì per egemonizzare la politica dei partiti socialdemocratici.   
Tra l’ultimo decennio del XX secolo ed i primi anni del XXI si è consumata la vicenda delle due correnti che hanno dominato il movimento operaio per quasi un secolo: quella socialdemocratica, che sorse nei partiti socialisti dei paesi imperialisti europei ed ebbe come culla la Seconda internazionale; e quella stalinista, prodotto della degenerazione della rivoluzione russa e del riflusso della marea rivoluzionaria europea dopo la prima guerra mondiale, la cui espressione organizzata fu la Terza internazionale a partire dalla metà degli anni Venti. 
La putrefazione politica (dal punto di vista ideale e programmatico) dei partiti della sinistra storica può essere vista anche come la chiusura di un cerchio. Ma non si tratta di un ritorno all’origine: non solo perché il mondo è cambiato ma anche perché, nel frattempo, le qualità morali ed intellettuali della sinistra sono precipitate a livelli di bassezza senza paragoni. La putrefazione dei partiti e dei sindacati di sinistra è parte integrante e causa della postdemocrazia: un regime in cui la concentrazione del potere nei vertici dei partiti e nei governi, congiunta alla convergenza programmatica tra i partiti, rende più che mai formali le libertà politiche. 
Nondimeno, riflettere sulle due strategie con le quali la Luxemburg si scontrò, quella revisionista rappresentata nel migliore dei modi da Eduard Bernstein e quella ortodossa incarnata da Karl Kautsky, e sulla linea alternativa da lei proposta è un buon punto di partenza per comprendere non solo alcune delle ragioni del percorso storico ma anche gli sviluppi più recenti e futuri. 
Intanto è necessario porre la questione in tutta la sua durezza e porsi da una parte o dall’altra rispetto ad essa, perché, se non si inizia con il riconoscere la realtà effettuale non si potrà neanche iniziare a cercare vie d’uscita ad una crisi profonda della soggettività politica. 
Il compito elementare dei socialisti era per Luxemburg mantenere l’indipendenza politica dei lavoratori dalla borghesia e dallo Stato. Deve essere chiaro che questo implicava il rigetto della collaborazione con i progressisti liberali - pur nella Germania del Kaiser e dei limiti al diritto di voto; e Luxemburg non era neanche lontanamente sfiorata dall’idea di poter appoggiare un qualsiasi governo borghese, neanche sul piano locale. Le idee oggi diffuse della collaborazione con i partiti liberali (di centro-sinistra diremmo oggi) in nome del «meno peggio» e del far da ponte tra Piazza e Palazzo erano per lei - come per la sinistra rivoluzionaria del tempo - semplicemente abominevoli. Da ciò si può intendere come possano essere giudicati i partiti di sinistra contemporanei - e intendo proprio quelli considerati sinistra-sinistra - con termini e criteri luxemburghiani: una bizzarra combinazione di conciliatori politici e di «pratici» parasindacali (che rientrerebbero nel campo del «revisionismo») e di kautskiani che proclamano l’ortodossia (nel nostro caso i nostalgici dell’Unione Sovietica e dei vecchi partiti comunisti, del «socialismo reale» scomparso o sussistente). 

4.
Con l’esplodere della Prima guerra mondiale si produsse la netta e irrevocabile rottura nell’ambito della sinistra socialista dell’epoca. Da una parte coloro che ritennero di dover proteggere il futuro delle organizzazioni del loro movimento operaio nazionale sostenendo il proprio imperialismo, in nome della «difesa della patria», con ciò spingendo il proprio proletariato a farsi massacrare e a massacrare i proletari in diversa uniforme. 
Dall’altra parte si collocò quella minoranza che poneva l’alternativa tra la barbarie della guerra e la lotta per il socialismo. Alla realtà in atto dello scatenarsi della guerra tra gli imperialismi opponeva una realtà mondiale da costruirsi con urgenza, quella della fratellanza organizzata dei lavoratori contro il sistema del massacro. Questa fu l’origine del movimento comunista del Novecento, della rivoluzione russa e dei movimenti di massa che giunsero a sfiorare la rivoluzione socialista in diversi paesi. 
Nel fuoco della carneficina fu Rosa Luxemburg a esprimere nel modo più doloroso il significato della parola d’ordine socialismo o barbarie. 

Per il proletariato, «giganteschi come i suoi compiti sono i suoi errori. Nessuno schema prestabilito, valido una volta per tutte, nessuna guida infallibile gli mostra il sentiero che deve percorrere. L’esperienza storica è la sua sola maestra, la strada di spine della sua autoliberazione non è lastricata soltanto di infinite sofferenze, ma anche di innumerevoli errori (...)» (La crisi della socialdemocrazia-Juniusbroschüre, 1916). 
Il socialismo è umanismo nel senso più pieno della parola, innanzitutto nella salvaguardia della vita umana; la barbarie è disumanizzazione di sé e dell’altro, annientamento della vita e in particolare delle vite più giovani alle quali appartiene il futuro e l’energia per formarlo. Nel suo procedere la barbarie rende ancor più urgente l’alternativa socialista ma nello stesso tempo ne mina le basi umane. A un più di barbarie non corrisponde meccanicamente un più di socialismo. Un aspetto del ragionamento luxemburghiano che occorre tener bene da conto anche per comprendere ciò che è stato della sinistra. 
D’allora obiettivamente l’alternativa tra socialismo e barbarie è tornata in una lunga serie di occasioni: di fronte al fascismo ed al nazismo, ad esempio, di fronte a ciascuna delle catastrofi sociali o militari della storia del Novecento. 
Quel grido d’allarme all’origine del comunismo moderno non ha cessato d’essere obiettivamente d’attualità. Anzi, dopo Hiroshima e Nagasaki, con la produzione industrializzata di armi di distruzione di massa e con un tipo di sviluppo economico che minaccia gli equilibri ecologici planetari, esso assume una dimensione realmente globale, universale. Esso avverte che l’umanità può porre fine con le proprie mani alla sua storia. 
Sicché, possiamo dire che nell’epoca dell’Antropocene e dell’arma nucleare, in cui le forze di produzione fungono nello stesso tempo da forze della distruzione in atto o latente, l’alternativa tra socialismo e barbarie non si pone più solo su scala continentale e relativamente alla giovane generazione massacrata nella guerra tra gli imperialismi. 
Il tempo non è passato senza conseguenze. Ora, socialismo oppure barbarie comporta la missione di salvare l’umanità. Tuttavia, nello stesso tempo è massimamente valorizzato il socialismo come socializzazione politica e sociale, in radicale contrasto sia con il capitalismo che con il sedicente «socialismo reale», come possibilità tutta a costruire, contro i poteri del capitale, degli Stati e dei partiti: umanistica, democratica, egualitaria e internazionalista. 
La citazione precedente continua con queste parole: 

«La meta del suo viaggio dipende dal problema se il proletariato è in grado di apprendere dai propri errori. L’autocritica, un’autocritica spietata, crudele, capace di penetrare fino al fondo delle cose, costituisce l’aria e la luce del movimento proletario. La capitolazione del proletariato socialista nell’attuale guerra mondiale è senza esempi nella storia, è una sventura per tutta l’umanità». 

L’autocritica spietata e radicale, ma senza venir meno all’alternativa tra socialismo e barbarie, è quanto ha fatto difetto ai socialisti del mondo, che hanno venerato come feticci il Partito e lo Stato, con ancor maggiore credulità quando essi si identificavano agitando la bandiera rossa, come il torero davanti al toro. Questo compito elementare è ancora da portare a termine. 

5.
Rosa Luxemburg pensava di difendere un’ortodossia ma in realtà fu una notevole innovatrice anche dal punto di vista teorico. Questo si vede bene nella sua principale opera teorica, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo(pubblicata nel 1913) da leggersi con l’indispensabile suo complemento Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticriticaL’accumulazione del capitalecostituiva anche una interpretazione originale e criticadell’opera principale di Marx (Das Kapital): tutto il contrario di un approccio di reverenza dogmatica. L’opera luxemburghiana, a sua volta, può e deve essere sottoposta a critica. Ciò non toglie però che un’aquila come la Luxemburg volasse tanto alto da comprendere questioni e porre problemi che le galline non compresero allora e forse non comprenderanno mai, per quanto di moda siano i cortili nei quali razzolano.
Con L’accumulazione del capitale Luxemburg produsse la prima interpretazione teoricamente fondata su categorie marxiane del capitalismo come totalità sociale per cui l’espansione mondiale è necessità vitale, indispensabile alla continuità della sua riproduzione. Con ciò poneva la prima pietra per la concezione dello spazio mondiale come prodotto dell’estensione e dell’intensificazione dello sfruttamento capitalistico, delle guerre di conquista e per la divisione del mondo, e delle lotte di liberazione nazionale e sociale. 
L’accumulazione del capitale è un’opera di alto livello intellettuale ma scritta da una militante rivoluzionaria per spiegare e nello stesso tempo combattere il capitalismo: è la ragione della rivoluzione. A quel tempo un dirigente socialista doveva essere anche in grado di spiegare teoricamente i propri argomenti: una capacità poi persa a favore del pragmatismo di basso livello e della retorica roboante ma povera di sostanza. 

Il militarismo, la corsa agli armamenti, il nazionalismo sciovinista e razzista, la distruzione delle culture non-capitalistiche, il crescente indebitamento con l’estero, l’espropriazione dei contadini e la distruzione dell’artigianato, le nuove forme di povertà e d’oppressione: questi i risultanti dalla subordinazione delle aree non capitalistiche a quelle capitalistiche. Per Luxemburg questi non erano quindi da intendersi come risultati di una particolare politica ma delle contraddizioni e degli antagonismi specifici del sistema sociale. Così lei superava anche la dicotomia tra politica interna e politica estera, processi economici e politici:  

«La teoria liberale borghese vede solo una delle due facce: il dominio della “concorrenza pacifica”, dei miracoli tecnici, del puro scambio delle merci, e separa nettamente dal dominio economico del capitale il campo dei chiassosi gesti di forza del capitale come più o meno accidentali manifestazioni della “politica estera”. In realtà, la violenza politica non è qui se non il veicolo del processo economico, le due facce dell’accumulazione del capitale sono legate organicamente l’una all’altra dalle condizioni della riproduzione e solo in questo loro stretto rapporto il ciclo storico del capitale si compie». 

La visione che del capitalismo aveva Luxemburg era realmente mondiale - come assolutamente ferreo era il suo internazionalismo - e basata sulla complessità dello sviluppo ineguale e combinato delle diverse formazioni sociali. Per rendersi conto di quanto siano egualmente errate tanto l’idea dell’economia mondiale come sommatoria di «economie nazionali» quanto quella della globalizzazione come novità epocale, non occorre far altro che rileggere L’accumulazione della Luxemburg, scritta più di un secolo fa. 
Analiticamente la problematica dell’imperialismo si compendia nella comprensione del capitalismo come realtà mondiale gerarchizzata sulla base dello sviluppo ineguale e combinato delle diverse formazioni sociali. Politicamente si riassume nell’abbattimento della separazione tra la rivoluzione nazionale democratico-borghese e la rivoluzione socialista; nel concepire la lotta per il rovesciamento del capitalismo come processo mondiale e da organizzare su scala mondiale; nella conseguente affermazione del carattere internazionale della transizione al socialismo (implicante la critica della possibilità costruire il socialismo in un solo paese). 
Seconda Rosa Luxemburg un capitalismo assolutamente puro, costituito esclusivamente da capitalisti e lavoratori salariati da essi dipendenti era una impossibilità logica: per questo il capitalismo poteva esistere solo espandendosi in un «terzo settore» non capitalistico, che fosse interno alle stesse formazioni sociali capitalistiche o ad esse esterne. 
All’epoca L’accumulazione del capitale fu duramente attaccata da marxisti come Otto Bauer e Nicholai Bucharin, poi qualificata sottoconsumista da Paul Sweezy, un’etichetta dura a morire (e che potrebbe essere ritorta contro lo stesso Sweezy del 1942, elevandolo a re dei sottoconsumisti). L’opera di Luxemburg non è esente da critica ma il suo errore è ben diverso da quello che gli è stato imputato. Luxemburg non era affatto sottoconsumista: non pensava affatto che i problemi di realizzazione del valore e della redditività dell’investimento derivassero da un insufficiente consumo dei salariati. Poneva invece il problema dei limiti della domanda monetaria effettiva - in termini marxiani della realizzazione del plusvalore - e dell’incentivo all’investimento di capitale in un sistema sociale come quello capitalistico la cui peculiarità è di essere integralmente monetario e fondato sull’accumulazione di ricchezza in forma monetaria, astratta, quindi potenzialmente illimitata. Il fatto è che Luxemburg era troppo avanti per essere compresa, anche dai marxisti dell’epoca: a parte il caso, più tardi, di Michał Kalecki, l’insieme degli aspetti teorici innovativi della sua opera sono stati apprezzati pienamente solo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, e più frequentemente nell’ultimo che nel primo. Paradossalmente, ma non a caso, questa riscoperta della visione totale e delle intuizioni luxemburghiane si è verificata proprio nell’epoca di massima estensione del capitalismo su scala mondiale, di implosione del «socialismo reale», di esproprio dei contadini, d’appropriazione brevettata della natura; d’austerità unilaterale imposta a salariati e comuni cittadini; di prestiti internazionali condizionati a ristrutturazioni interne a favore del capitale e di grandi flussi di capitale speculativo; di massicce migrazioni internazionali; di privatizzazioni d’industrie e servizi statali; di ulteriore mercificazione della vita quotidiana. 
Ne L’accumulazione del capitale la logica strutturale dell’espansione del capitalismo nel mondo è strettamente connessa all’iniziativa politica statale: qualcosa che ricorda l’importanza contemporanea dei cosiddetti neoliberismi e della globalizzazione. Tuttavia, con la precisazione che giustamente (come si è visto nella grande recessione iniziata nel 2007-2008) per Luxemburg la crescita del mercato mondiale non era affatto in contrasto, anzi, con la crescita dell’interventismo economico degli Stati delle grandi potenze; e che il nome che dava al capitalismo globale era imperialismo, più preciso concettualmente e inequivocabile per giudizio e implicazioni politiche.
Su scala planetaria oggi le contraddizioni inerenti alla produzione e realizzazione del valore e gli squilibri e l’incertezza intrinseci alla dinamica delle trasformazioni dell’economia mondiale capitalistica si manifestano nella complementarietà tra la Cina (e gli altri grandi esportatori) come polo dell’offerta mondiale e gli Stati Uniti come polo della domanda mondiale. E sia in Cina che negli Stati Uniti questa configurazione è stata alimentata dall’espansione creditizia: un modo per surrogare al «terzo settore» di Luxemburg dall’interno dello stesso capitalismo e che risponde al problema da lei posto: da dove viene la domanda monetaria? 
Perfino gli errori di Luxemburg sono fecondi e incredibilmente moderni: per l’insistenza con cui poneva il problema della domanda effettiva e delle motivazioni dell’investimento; per la sua concezione della forma-valore e della specificità del rapporto tra capitale e forza-lavoro; per il porre la riproduzione allargata del capitale come processo intrinsecamente non equilibrato o instabile; per la concezione del capitalismo come sistema monetario e per l’idea implicita del circuito monetario. 
Il centro politico e teorico del pensiero e dell’azione della Luxemburg fu sempre la specificità storica delle contraddizioni conseguenti dal rapporto di lavoro salariato, non lo sviluppo delle forze di produzione o l’evoluzione della struttura del mercato. Per questo il suo particolare «crollismo» non è assimilabile né ad un determinismo tecnologico né ad un determinismo economico o di mercato, e non è riducibile entro uno schema evoluzionistico e naturalistico. 
Quel che offrì al mondo ne L’accumulazione del capitale era in realtà la ragione della necessità della rivoluzione socialista e della fratellanza mondiale tra gli oppressi. 

6.
Nata in Polonia suddita dello zar russo, Rosa Luxemburg fu per tutta la sua vita paladina dell’uguaglianza e della libertà dei popoli. Nello stesso tempo fu sempre coerente e acerrima nemica del nazionalismo, che ben conosceva nella sua forma «socialista» del Partito socialista polacco. Il punto è importante, sia perché sulla specifica questione, ma non su altre, la contrapposizione tra la prospettiva di Luxemburg è quella di Lenin è fuorviante e possibile solo da un punto di vista nazionalista; sia perché la questione nazionale in Europa ha ora assunto la forma del sovranismo pseudopopulista, di destra e di sinistra, come secessione dall’eurozona e dall’Unione europea. 
Per Luxemburg uguaglianza e libertà dei popoli erano ovvi obiettivi del socialismo conseguenti «dall’opposizione generale a un sistema di classe, a ogni forma di disuguaglianza sociale e di dominazione sociale, in breve dalle stesse fondamentali posizioni del socialismo» (La questione nazionale e l’autonomia, 1908). 
Ciò a cui si opponeva è che libertà della Polonia o di altre nazionalità coincidesse col diritto di autodeterminazione, ovvero di secessione. In breve, era contraria alla secessione innanzitutto perché il capitalismo polacco era oramai strettamente integrato ai capitalismi degli imperi tra cui la Polonia era stata divisa. Il significato generale di questa osservazione nel caso dell’Europa contemporanea è che i socialisti non possono porsi al di sotto del piano d’internazionalizzazione del capitale esistente, se non al prezzo di schierarsi con le componenti più arretrate della stessa borghesia. Anche più importanti erano le ragioni politiche: la prima era che i lavoratori polacchi dovevano essere parte della lotta delle classi dominate in Russia, Germania e Austria-Ungheria contro i relativi governi e capitalismi, non dovevano prestarsi a dividere la classe lungo linee nazionali ma combattere con i loro fratelli. La seconda ragione era che la secessione avrebbe in pratica consegnato il nuovo Stato nelle mani della borghesia rendendola più forte. 
Lenin era invece disposto ad ammettere il diritto alla secessione, anche dall’Unione sovietica: proprio su questo condusse la sua ultima battaglia, contro Stalin.  
Rosa Luxemburg e Lenin condividevano sulla questione nazionale la stessa prospettiva classista e internazionalistica ma da due punti di vista che esprimevano priorità differenti. 
Come partito russo di uno Stato imperiale e di una nazionalità in esso dominante, il bolscevico aveva il dovere di contrapporsi frontalmente allo sciovinismo imperialista grande-russo e quindi di sostenere la libertà di secessione delle nazionalità oppresse. Si badi: questo non vuol dire che i bolscevichi fossero favorevoli alla secessione ma che ne ammettevano la possibilità se rivendicata dal popolo oppresso. 
Rosa Luxemburg e il partito socialista polacco-lituano, espressione di nazionalità oppresse, dovevano battersi contro il nazionalismo interclassista polacco e la divisione da questo fomentata tra lavoratori polacchi e russi nella comune lotta contro lo zarismo. Esso aveva il diritto di dichiararsi per il mantenimento dell’unità statale tra la Russia e i territori polacchi e lituani. Su quest’ultimo diritto Luxemburg e Lenin in realtà convergevano; la polemica, invece, si inaspriva a proposito del precedente dovere: sull’inclusione dell’obiettivo dell’autodeterminazione polacca nel programma della socialdemocrazia russa.
È ragionevole pensare che sia Lenin che Luxemburg avrebbero, a dir poco, deriso le pretese sovraniste e secessioniste presenti in settori della sinistra italiana ed europea, come se i Paesi europei fossero colonie imperiali. Le avrebbero bollate come reazionarie, relativamente all’integrazione capitalistica, e perché volte a dividere i proletariati nazionali invece che a unirli contro il nemico comune. E non avrebbero mancato d’osservare che a mettere concretamente in pratica la secessione - dati i rapporti di forza tra le classi - sarebbe stata la borghesia più conservatrice e che immancabilmente i costi della divisione sarebbero stati scaricati sui lavoratori. Improponibile associare i socialisti a un’operazione del genere, tutto il contrario della costruzione della solidarietà internazionale e del rilancio delle lotte sul piano nazionale intorno a obiettivi concreti e di classe. Impresa lunga e faticosa, ma l’unica percorribile, un secolo fa come adesso. 

7.
La vita di Rosa Luxemburg fu contraddistinta dall’incessante ricerca dell’accordo tra il fine della rivoluzione per il socialismo con i modi e i mezzi per la sua realizzazione. Fu anche questo il motivo per cui rimase a Berlino invece di rifugiarsi in luogo più sicuro durante una battaglia che non aveva voluto, non in quel momento preciso, ma che era comunque la battaglia in cui il proletariato rivoluzionario s’era impegnato. 
Accordare fine e mezzi è impresa difficile ma non impossibile. La divaricazione tra il fine e i mezzi, al punto di costruire una dittatura contro i lavoratori o di integrarsi nei giochi politici tra partiti borghesi ha segnato il destino dei partiti comunisti e socialisti del XX secolo. Il cinico realismo circa i mezzi si è rivelato sommamente miope sul piano della grande storia mondiale: i mezzi hanno ammazzato il fine. 
Rosa Luxemburg offre una lezione di metodo e alcune indicazioni concrete perché il fine possa ritrovarsi e rinnovarsi in modo adeguato al XXI secolo e alle future generazioni. È un esempio di realismo e di acuta analisi delle situazioni e dei problemi: ma di un realismo che non dimentica mai che la liberazione può essere solo auto-liberazione; che la democrazia socialista significa espandere e non comprimere i diritti politici e che non può esserci socialismo senza la socializzazione sia dell’economia sia della politica. Che socialismo non significa statalismo e men che mai dittatura di un partito unico ma autogestione diretta da parte del popolo, per usare un termine contemporaneo. 
Concludo con una citazione lunga ma che, oltre al suo interesse storico ha grande valore per quel che riguarda il rapporto tra fine e mezzi. È tratta dal lungo articolo La tragedia russa, presumibilmente scritto da Luxemburg tra il settembre e l’ottobre 1918 ma pubblicato solo nel 1921. Esso è coerente con quanto aveva scritto nei decenni precedenti, in particolare in Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa (1903-1904) in cui criticava la logica dittatoriale d’organizzazione del partito proposta da Lenin . Nel testo del 1918 Luxemburg espresse ammirazione per i bolscevichi per aver osato la rivoluzione in Russia e piena solidarietà con l’intento di iniziare la costruzione del socialismo. Nello stesso tempo criticò senza mezzi termini la gestione del potere da parte del bolscevismo: è la critica di una rivoluzionaria ad altri rivoluzionari, che però marca in modo inequivoco la differenza tra democrazia socialista, liberalismo borghese e dittatura burocratica sul proletariato.  

«La libertà solo per i seguaci del governo, solo per i membri di un partito - per numerosi che possano essere - non è libertà. La libertà è sempre unicamente la libertà di chi la pensa diversamente. Non per fanatismo di “giustizia”, ma perché tutto ciò che di educativo, salutare e purificatore deriva dalla libertà politica, dipende da questa condizione, e perde ogni efficacia quando la “libertà” si fa privilegio (...)». 
«Ma col soffocamento della vita politica in tutto il Paese anche la vita dei soviet non potrà sfuggire a una paralisi sempre più estesa. Senza elezioni generali, libertà di stampa e di riunione illimitata, libera lotta d’opinione in ogni pubblica istituzione, la vita si spegne, diventa apparente e in essa l’unico elemento attivo rimane la burocrazia. La vita pubblica s’addormenta poco per volta, alcune dozzine di capipartito d’inesauribile energia e animati da un idealismo sconfinato dirigono e governano: tra questi la guida effettiva è poi in mano a una dozzina di teste superiori; e un’élite di operai viene di tempo in tempo convocata per battere le mani ai discorsi dei  capi, votare unanimemente risoluzioni prefabbricate; in fondo dunque un predominio di cricche, una dittatura, certo: non la dittatura del proletariato, tuttavia, ma la dittatura di un pugno di politici, vale a dire dittatura nel senso borghese, nel senso del dominio giacobino (...)»
«Noi non siamo mai stati fanatici della democrazia formale, ciò significa soltanto: noi abbiamo sempre distinto il nocciolo sociale dalla forma politica della democrazia borghese, abbiamo sempre svelato l’amaro nocciolo della disuguaglianza e della soggezione sociale sotto la dolce scorza dell’uguaglianza e della libertà formali, non per ributtarle, ma per spronare la classe operaia a non ritenersi soddisfatta della buccia; a conquistarsi piuttosto il potere politico per riempirlo di un nuovo contenuto sociale. È compito storico del proletariato, una volta giunto al potere, creare al posto della democrazia borghese una democrazia socialista, non abolire ogni democrazia. Ma la democrazia socialista non comincia soltanto nella terra promessa, una volta costruite le infrastrutture economiche socialiste, come dono natalizio bell’e fatto per il bravo popolo, che nel frattempo ha fedelmente sostenuto un pugno di dittatori socialisti. La democrazia socialista comincia contemporaneamente alla demolizione del dominio di classe e alla costruzione del socialismo. Essa comincia al momento della conquista del potere da parte del partito socialista. Essa è null’altro che dittatura del proletariato. 
Certo: dittatura! Ma questa dittatura consiste nel sistema di applicazione della democrazia, non nella sua abolizione. In energici e decisi interventi sui diritti acquisiti e sui rapporti economici della società borghese, senza i quali la trasformazione socialista non è realizzabile. Ma questa dittatura deve essere opera della classe, e non di una piccola minoranza di dirigenti in nome della classe, vale a dire deve uscire passo passo dall’attiva partecipazione delle masse, stare sotto la loro influenza diretta, sottostare al controllo di una completa pubblicità, emergere dalla crescente istruzione politica delle masse popolari». 


 Nella diffusione e/o ripubblicazione di questo articolo si prega di citare la fonte: www.utopiarossa.blogspot.com