di Pier Francesco Zarcone
I recenti avvenimenti siriani (abbattimento di un Ilyushin russo e accordo tra Putin ed Erdoğan su Idlib) inducono ad alcune riflessioni a cominciare dalla gherminella israeliana che ha causato più di dieci morti russi. In un articolo comparso il 19 settembre sul sito l’Antidiplomatico, Alberto Negri notava che quando c’è di mezzo Israele Putin è meno decisionista del solito. E infatti finora non c’è stata alcuna concreta reazione russa a tante violazioni sioniste della sovranità siriana, al di là di certe formali proteste. Comunque, la prudenza in questo caso è più che giustificata, poiché – al di là del vivere in Israele circa un milione di ebrei russi – con Stati Uniti (e Francia) che ardono dalla voglia di scatenare un attacco militare contro la Siria, la situazione potrebbe diventare critica da un momento all’altro e la storia moderna ci insegna che certe cose si sa come cominciano ma non come poi evolvono.
Nel caso dell’Ilyushin Israele ha rischiato molto e forse non sbaglia chi sostiene che la (finora) misurata reazione russa e la telefonata di Putin a Benjamin Netanyahu - in cui si è denunciata la violazione degli accordi per prevenire incidenti pericolosi - insieme al silenzio israeliano attesterebbero che a Gerusalemme si è consapevoli di essere arrivati a un pelo dal limite. Sta di fatto che in sei mesi Israele ha affettuato circa 200 attacchi aerei e/o missilistici su obiettivi siriani.
D’altro canto entrare in campo contro Israele è militarmente pericoloso, in ragione delle predette e non nascoste velleità degli alleati dello Stato sionista, per cui è più consigliabile per Mosca limitarsi alle manovre diplomatiche; quand’anche non sempre funzionino. Da tener presente che Israele fa comodo alla Russia per il suo prestarsi a manovre finanziarie utili per aggirare le sanzioni degli Usa e dell’Eu; il controfavore è dato dagli ostacoli russi alla campagna di boicottaggio antiisraeliana.
Ma nel Vicino Oriente la fiducia è moneta assai rara, e lo dimostrano i continui interventi israeliani in Siria in funzione antiiraniana. Vale a dire, il governo di Israele sa benissimo cosa rappresenti per esso la presenza russa in territorio siriano, cioè un ostacolo all’egemonia dell’Iran su quel paese, ma – evidentemente non fidandosene sino in fondo – non rinuncia a propri interventi per colpire obiettivi e linee di rifornimento iraniani e di Hezbollāh. Tanto più che si tratta di nemici anche degli Stati Uniti, per cui può dirsi che tali azioni militari israeliane siano effettuate anche per procura statunitense.
Sembra che di fatto Israele si sia decisa ad accettare il salvataggio di Bashar al-Assad fatto dalla Russia, senza tuttavia rinunciare alle azioni contro la presenza iraniana in Siria, e in un certo senso la Russia lo permette, ma entro certi limiti, varcati nel caso dell’Ilyushin. Nella logica dei giochi internazionali di potenza non vale ricordare che sono stati appunto iraniani e milizie sciite a dare sul terreno una congrua mano per l’attuale vittoria del governo di Damasco, di cui la Russia è alleata; e neppure dice molto l’attuale ententefra Mosca e l’Iran.
Quest’ultimo aspetto è alquanto articolato. Sembra che quando nel 2015 Putin decise di intervenire in Siria (sede dell’unica base navale russa nel Mediterraneo, a Tartus) perché il governo di Assad era alle prese con una fase della guerra militarmente sfavorevole, a Damasco fosse in atto uno scontro tra settori dei servizi segreti e delle Forze Armate divisi circa l’opportunità o meno di buttarsi in braccio all’Iran ai fini della salvezza. L’intervento russo ha sorpassato tale problema, e Mosca ha conseguito sei risultati al suo attivo: messa in sicurezza della base di Tartus; salvataggio del governo di Assad legandolo strettamente a sé; accrescimento del proprio prestigio almeno nelle zone sciite del Vicino Oriente e nei settori musulmani (anche sunniti) in attesa che qualcuno si decidesse a intervenire con efficacia contro i jihadisti; allontanamento del pericolo di una massiccia azione militare degli Stati Uniti e loro alleati nel caso di vittoria a Damasco della fazione filoiraniana, per quanto Obama fosse restio a imbarcarsi in una guerra contro l’Iran; garanzie all’Iran circa la possibilità di azione delle milizie sciite; ma anche virtuali garanzie a Israele circa il controllo russo sull’azione di queste milizie. Quest’ultimo tassello a maggio di quest’anno si sarebbe concretizzato in un accordo russo-israeliano, più o meno segreto, sul posizionamento di questi miliziani a un’adeguata distanza dal confine.
L’attuale ententetra Russia e Iran non va sopravvalutata, bensì considerata semplicemente per quello che è: una contingente convergenza di interessi di ciascuna delle parti, nella quale la millenaria, astuta e paziente diplomazia persiana sa benissimo che al momento conviene mandar giù il boccone - un po’ amaro - dell’interferenza russa sulle mire egemoniche dell’Iran anche riguardo alla Siria. D’altro canto, seppure col tratto terminale in cui “l’azionista di maggioranza” è la Russia, per certi versi l’agognato corridoio sciita potrebbe dirsi realizzato. Poi si vedrà, a seconda dell’evolversi degli scenari internazionali e locali.
L’ulteriore successo di Putin si è verificato a Sochi il 16 settembre mediante l’accordo concluso con Erdoğan su Idlib, sostanzialmente rinviando a data da destinarsi l’offensiva militare russo/siriana contro l’ultimo pezzo di Siria in mano ai jihadisti. In questo modo si è scongiurato il minacciato intervento statunitense (a tutela dei jihadisti accampando pretesti umanitari) qualora l’offensiva avesse avuto inizio. Anche qui Putin si è mosso accortamente accordandosi con la Turchia e l’Iran e tagliando fuori Washington, a cui è stato altresì tolto il pretesto per l’intervento. Si potrebbe considerare l’ultima incursione israeliana in Siria come frutto della rabbia per l’accordo di Sochi. Difatti, nel citato articolo, Alberto Negri ha concluso chedue ex imperi, il russo e l’ottomano, benedetti da quello persiano, si sono accordati mentre l’impero americano ha lasciato che Israele bombardasse senza chiedere il permesso di nessuno.
Superfluo dire che si tratta di un’intesa pro tempore: la creazione di una zona-cuscinetto presidiata da una forza congiunta di polizia militare russa e soldati turchi, per separare jihadisti ed esercito siriano, come pure la consegna delle armi pesanti da parte dei primi sono misure palesemente funzionali a creare spaccature tra i ribelli più radicalizzati (per esempio Hayat Tahrir al-Sham, la costola di al-Qaida) e quelli maggiormente propensi a un accordo di accordo di pace garantito dalla Turchia. Una volta raggiunto questo obiettivo, la Turchia (in fin dei conti ancora membro della Nato) dovrebbe consentire l’attacco russo/siriano per eliminare gli ultimi irriducibili.
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