di Michele Nobile
1. Il problema posto dalla epocale trasformazione sociale della Cina
La «pacifica ascesa» o «pacifico sviluppo» della Cina costituisce uno dei processi più notevoli dell’economia mondiale a cavaliere dei secoli XX e XXI, forse ilpiù importante. Nel corso dei quattro decenni dell’epoca delle riforme economiche i tassi di crescita del prodotto per abitante, della produzione industriale e delle esportazioni sono stati impressionanti. Il governo cinese può sostenere con orgoglio che dal 1978 il prodotto interno si è moltiplicato e la parte della Cina nella produzione mondiale è aumentata di 4 volte, che la Cina è il primo paese esportatore del mondo e quello con le più ampie riserve valutarie (la maggior parte in dollari). Per millenni l’Impero cinese è stato il più vasto serbatoio mondiale di forza lavoro contadina: nel 1949, anno di nascita della Repubblica popolare, la popolazione residente in aree urbane era l’11% del totale e solo il 19% trenta anni dopo, all’inizio delle riforme. Nel 1999 la quota della popolazione urbana era già salita al 35% ma entro il 2010 era cresciuta di altri 15 punti, fino al 50%, e nel 2017 ammontava a oltre 813 milioni di persone, il 58,5% della popolazione totale1.
Il ritmo dell’urbanizzazione e il livello che essa ha raggiunto manifestano la portata epocale della trasformazione complessiva della società cinese: il suo divenire da universo rurale a prima officina delle esportazioni mondiali di merci industriali. Lo stesso paesaggio urbano di tante città è stato alterato e spesso quelle che erano aree rurali o modesti insediamenti costieri presentano ora una skylinedegna di New York o Dubai, un’urbanistica che suscita l’idea di un americanismo con caratteristiche cinesi. Qualche anno fa il geografo marxista Mike Davis scrisse della Cina che «la più grande rivoluzione industriale nella storia è la leva di Archimede che sposta una popolazione grande quanto quella dell'Europa dai villaggi rurali alle città soffocate dallo smog e che si inerpicano verso il cielo»2. Espansione quantitativa e trasformazione qualitativa dello spazio fisico e sociale delle città non sono effetti della crescita naturale della popolazione urbana. In Cina è in corso la più gigantesca migrazione dal rurale all’urbano della storia dell’umanità.
I fatti ricordati sono ben noti ma interpretazione e valutazione non sono scontate. Qui mi propongo una rassegna e valutazione generale dei problemi da approfondire negli articoli che a questo seguiranno.
Specialmente a proposito dell’ascesa della Cina l’economicismo è la norma. Con ciò intendo dire che sovente si assume il «miracolo» economico cinese come un dato oggettivo, in cui lo sfruttamento e l’oppressione su cui esso si fonda sono ridotti a fenomeni marginali o temporanei.
Ciò perché il «miracolo» in questione è esaltato come risultato della transizione all’economia di mercato - per quanto da perfezionare - e dell’incorporazione nell’economia mondiale, oppure come esempio delle virtù dello statalismo (pseudo)socialista o della politica industriale di uno Stato sviluppista (developmental Statenella letteratura internazionale). La prospettiva è quella evolutiva della modernizzazione, del progresso di un sistema in cui possono darsi contrasti tra il «vecchio» e il «nuovo», tra strati sociali e orientamenti politici, ma non antagonismi strutturali tra classi sociali o la funzionalità allo sviluppo del moderno di ciò che appare antiquato, tra cui la dittatura del partito unico e la discriminazione nel godimento dei diritti sociali in base al luogo di registrazione. Il linguaggio della modernizzazione si risolve in quello paternalistico dello Stato governato da capi illuminati o del fiducioso ottimismo degli animal spiritsimprenditoriali. La retorica dominante in Cina combina entrambi.
Modernità e modernizzazione sono termini il cui significato sociale va specificato. Quando si parla di crescita o di sviluppo economico bisogna specificare quale struttura dei rapporti tra le classi sociali generi i rapporti quantitativi e i ritmi di crescita delle variabili macroeconomiche e quali conflitti tra classi sociali questi implichino. Altrimenti, la presa d’atto dell’esistenza di squilibri sarà ricondotta all’insufficienza della ragione prediletta con cui si spiega lo sviluppo economico, si tratti del mercato o del regime politico.
La Cina possiede peculiarità che di per sé ne fanno un caso unico al mondo e quindi non ripetibile. Oltre alla millenaria cultura, tra queste spiccano le dimensioni del Paese e la varietà del suo territorio; la sua demografia, con un’enorme massa di forza lavoro - trent’anni fa congelata nell’agricoltura ma ora un fattore in via d’esaurimento; una struttura produttiva e capacità tecnologiche avanzate relativamente ad altri Paesi nella stessa classe per reddito per abitante, già prima delle riforme; un potente apparato statale civile e militare - la Cina è uno Stato nucleare. Tuttavia, al di là dei dati materiali quel che è accaduto in Cina negli ultimi 40 anni - un arco di tempo ben più lungo di quello dell’epoca maoista - non è racchiudibile in formule astratte come modernizzazione o descritto con frasette insignificanti come «pacifico sviluppo».
A partire dal terzo plenum del Comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc) - che nel dicembre 1978 lanciò la politica di «riforma economica e di apertura al mondo» - ebbe inizio un processo di transizione a un diverso sistema di rapporti sociali di produzione. La peculiarità decisiva della storia recente della Cina è appunto costituita da due fenomeni che formano di fatto un tutto unico: della transizione dallo statalismo burocratico e pseudosocialista dell’era maoista al capitalismo; e della coincidenza di questa transizione con il veloce sviluppo dell’industrializzazione capitalistica, l’integrazione nella divisione internazionale del lavoro delle società transnazionali e la forte crescita delle esportazioni di manufatti, nel quadro di ciò che si indica come globalizzazione e neoliberismo. Ironicamente e con il senno del poi, l’epoca maoista dissodò il terreno sociale preparandolo per lo sviluppo del capitalismo su una scala e una qualità incomparabilmente superiori all’opera delle borghesie compradorae straniera del tempo dei Trattati ineguali. Per quanto riguarda lo sfruttamento della forza lavoro la Cina è un Paradiso del neoliberismo.
Il capitalismo cinese è un protagonista della ristrutturazione della geografia economica mondiale ma la gradualità della transizione al capitalismo non ha cancellato tutti i caratteri del passato pseudosocialista, che in parte sono stati adattati ai nuovi rapporti sociali di produzione. Per questo è un capitalismo con caratteri diversi da quello detto occidentale ma meno distanti da altri developmental Statesdell’Asia. Ad esempio, esiste una continuità con l’epoca maoista (almeno fino ai primi anni del nuovo secolo, con una valutazione ottimistica) nelle politiche che hanno discriminato agricoltura e aree rurali a favore dell’industria e delle città e nel mantenimento del sistema di registrazione degli individui (hukou,recentemente in via di riforma ma in modo disomogeneo e parziale) il cui risultato è rendere stranieri in patria gli immigrati nelle città, escludendoli dai diritti sociali formalmente riconosciuti agli altri residenti urbani: la moderna muraglia cinese a fini interni. E queste sono le stesse politiche che nello stesso tempo contribuiscono ad alimentare il flusso migratorio dall’agricoltura all’industria e dalle aree rurali a quelle urbane che è una colonna del capitalismo cinese per l’effetto di contenimento del costo del lavoro - rafforzato dallo status degli immigrati - e un fattore determinante della crescita dell’urbanesimo e dell’associata speculazione edilizia sui terreni urbani e circostanti.
Ufficialmente il regime cinese è un «socialismo con caratteristiche cinesi», auto-definizione che suona bizzarra quando si considerino alcuni elementari fatti come il livello della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, pari o superiore a quello degli Stati Uniti. Il paradossale nocciolo di verità di questa auto-definizione è che, al contrario di quanto verificatosi in Unione Sovietica3, la transizione al capitalismo è stata voluta e gestita dai vertici di un partito a denominazione comunista, non da sue frazioni resisi politicamente o economicamente indipendenti, e che questo partito continua a controllare l’apparato statale a tutti i livelli, compresa una frazione importante del capitale produttivo e finanziario del Paese.
La formula del «socialismo con caratteristiche cinesi» è quindi nello stesso tempo una mistificazione ideologica e il segnale di una differenza reale relativamente ai capitalismi più avanzati. E la questione si complica ancor più quando si consideri che questo «socialismo» è anche uno dei pilastri dell’economia mondiale capitalisticae della cosiddetta globalizzazione. Il «miracolo» cinese è infatti inconcepibile in mancanza dell’ulteriore sviluppo della divisione internazionale dei processi produttivi delle imprese transnazionali di altri Paesi dell’Asia (Giappone, Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore), europee e statunitensi, e in assenza di quel che si dice neoliberismo nei Paesi a capitalismo avanzato, cui fornisce beni-salario a basso prezzo.
Si tratta di un groviglio di problemi per il cui scioglimento non basta l’indispensabile sforzo di conoscenza empirica. La questione Cina è complessa e multidimensionale e come nel caso della Russia gli strumenti concettuali con cui si interpreta e si valuta il passato hanno un peso enorme, fosse pure inconscio, sulla comprensione e valutazione del presente. Al cuore di tutto è la questione della burocrazia statale e di partito e quindi dei diversi modi con cui gli apparati dello Stato possono intervenire per plasmare i rapporti sociali e dar forma allo sviluppo economico. Un argomento che non può essere sviscerato utilmente se si assume la contrapposizione tra Stato e mercato. D’altra parte, il ragionamento intorno alla macroeconomia della Cina non può prescindere dalla determinazione di come le contraddizioni generate dall’estensione e dall’approfondimento del capitalismo su scala mondiale operino nel quadro particolare della società cinese.
Il successo dello sviluppo capitalistico è sempre foriero di contraddizioni - nazionali e internazionali - e prima o poi suscita conflitti tra classi dominanti e dominate e tra frazioni della stessa classe dominante. Sempre le ragioni del successo diventano quelle della crisi. Dopo quarant’anni di «riforme» il capitalismo cinese si sta avvicinando al suo momento critico.
Né la prospettiva nazionalistica e statalistica del «socialismo con caratteristiche cinesi» né l’appiattimento dello spazio dell’economia mondiale nelle tesi della tendenziale convergenza dei livelli di sviluppo e dell’obsolescenza delle funzioni economiche degli Stati - caratteristiche dell’idea di globalizzazione - permettono di sciogliere il nodo del rapporto tra trasformazione interna e ascesa nella gerarchia del potere mondiale della Cina. È invece utile il concetto di sviluppo ineguale e combinato come forma d’esistenza del capitalismo su scala mondiale, differenziazione e interdipendenza nello spazio dei processi di accumulazione del capitale che sono il motore delle trasformazioni dell’economia mondiale. Che è poi la storia dell’imperialismo, della competizione fra gli Stati e delle lotte di liberazione nazionale e sociale4.
2. Il «socialismo con caratteristiche cinesi» come maschera del capitalismo
Ecco come il regime definisce il «socialismo con caratteristiche cinesi»:
«In Cina è stata realizzata la storica trasformazione da un'economia pianificata altamente centralizzata a una dinamica economia socialista di mercato. Si è originato un sistema economico in cui la proprietà pubblica ha un ruolo guida e in cui crescono fianco a fianco differenti forme di proprietà economica. Il mercato svolge un ruolo sempre più importante nell’allocazione delle risorse e il sistema di regolamentazione macroeconomica sta migliorando. Sta prendendo forma un sistema di sicurezza sociale che copre sia i residenti urbani che quelli rurali e stanno fiorendo la cultura, l'istruzione, la scienza e la tecnologia, l'assistenza sanitaria, gli sport e altri programmi sociali»5.
Il problema è che la serie di riforme economiche iniziata nel 1978 ha di gran lunga oltrepassato i confini della discussione teorica e degli esperimenti concreti circa i rapporti tra pianificazione e mercato tipici dello statalismo pseudosocialista: l’obiettivo indicato dal vertice della burocrazia partitico-statale - la modernizzazione della società cinese - si è risolto in una transizione al capitalismo. Né poteva essere diversamente in assenza di una rivoluzione sociale e antiburocratica. Il risultato finale, benché non la forma del processo, è stato lo stesso che in Unione Sovietica. Sull’arco secolare è il segno della complessiva inferiorità dei sistemi pseudosocialisti relativamente ai capitalismi più avanzati, la dimostrazione a negativo che la liberazione sociale non passa attraverso lo statalismo totalitario, il vicolo cieco della storia mondiale.
Certo, in Cina non c’è stato un big bangcome in Unione Sovietica e nell’Europa centro-orientale, il processo di trasformazione è stato molto più graduale. Nella prima metà degli anni ’80 del secolo scorso era ancora plausibile discutere se le riforme in corso fossero una forma di (pseudo)socialismo di mercato. Il sistema delle Comuni agricole era finito, sostituito dal principio di responsabilità delle famiglie contadine nella gestione della terra assegnata, ed esisteva un doppio sistema di prezzi, amministrati e di mercato, ma agricoltori e imprese statali avevano il permesso di commercializzare solo la produzione eccedente la quota stabilita dagli organi centrali. Nascevano imprese individuali (getihu), crescevano le imprese comunali e di di villaggio (in parte di fatto private, solitamente indicate con l’acronimo Tve, township and village enterprises) e le società transnazionali investivano nelle prime zone economiche speciali; tuttavia il settore delle imprese statali e collettive non era ancora stato drasticamente ridimensionato e ristrutturato ed era ancora formalmente in vigore - meno nella realtà - il limite alle assunzioni di salariati nelle imprese private6. Le contraddizioni socioeconomiche di quella prima fase della trasformazione sociale della Cina - espresse nell’inflazione - esplosero politicamente alla fine del decennio, culminando nelle proteste a Pechino e in altre città fino al massacro di piazza Tiananmen: fatti che resero palese come i rapporti sociali capitalistici fossero in pieno sviluppo sotto la protezione della dittatura pseudosocialista7.
In piazza Tiananmen vennero massacrate le speranze di un movimento democratico di massa e la possibilità che da esso potesse generarsi un movimento operaio e popolare del tipo di Solidarność. Quel massacro non può però ricondursi a un’operazione organicamente conservatrice: del potere del Partito unico sì, ma non conservatrice di quel che rimaneva dei rapporti sociali d’epoca maoista. Al contrario, l’economia venne «raffreddata» per un paio d’anni - il crollo dell’investimento interno fu parzialmente bilanciato dalla forte crescita delle esportazioni - ma dal tour meridionale di Deng Xiaoping all’inizio del 1992la dirigenza del Partito comunista cinese perseguì con determinazione la strategia di attrarre su vasta scala l’investimento diretto dall’estero mentre terminava quel che rimaneva della pianificazione e a metà del decennio iniziò la completa destrutturazione dei rapporti di lavoro della classe operaia formatasi sotto Mao. Il settore delle imprese statali pseudosocialiste (danwei) venne drasticamente ridimensionato, con l’eliminazione di circa 32 milioni di posti di lavoro (licenziamenti gestiti in modo da non rientrare nel calcolo della disoccupazione), per essere riorganizzato in pochi anni come un moderno sistema di holdingcapitalistiche che si possono comparare ai keiretsugiapponesi e ai chaeboldella Corea del Sud, pur con le differenze derivanti dalla superiore concentrazione del potere in Cina. Questo nuovo settore d’imprese statali capitalistichee d’imprese formalmente private ma controllate di fatto dalle prime è ora la spina dorsale economica del potere del Pcc.
Dunque, si può dire che la transizione cinese prese molteplici vie, che negli anni ’80 iniziarono a corrompersi i rapporti di produzione pseudosocialisti e a svilupparsi «isole» di capitalismo ma che la trasformazione capitalistica venne portata a compimento intorno alla metà degli anni ’90.
I vertici del Partito-Stato hanno fatto e fanno leva sull’intensificazione dello sfruttamento della nuova classe operaia agglomerata nei centri di accumulazione di capitale emersi nell’epoca delle riforme - di proprietà nazionale, estera e in compartecipazione - e sul rinnovato sfruttamento della popolazione rurale, che si palesa nella straordinaria portata del flusso migratorio e nella trasformazione capitalistica anche dell’agricoltura, operante attraverso la differenziazione sociale degli agricoltori e la diffusione del lavoro salariato agricolo.
I prezzi del mercato hanno finito col dominare quelli statali nel commercio interno; la riproduzione della forza lavoro è stata resa completamente dipendente dal mercato; il reddito degli agricoltori e la specializzazione delle coltivazioni dipendono dalle fluttuazioni dei prezzi internazionali dei loro prodotti e degli input produttivi; la parte dei salari nel reddito nazionale è diminuita costantemente a favore di quella del profitto e ciò ha permesso di mantenere a lungo alti tassi d’investimento; la compressione del costo del lavoro ha attratto l’investimento estero, il principale motore della crescita dell’esportazione di prodotti elettronici; l’incorporazione della Cina nella divisione internazionale del lavoro, l’importanza delle esportazioni nella dinamica dell’accumulazione del capitale e infine l’ingresso nell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) hanno legato a tutti gli effetti la riproduzione allargata del capitalismo cinese alle sorti dell’economia mondiale.
È significativo - per quel che valeva in pratica, cioè nulla - che il diritto di sciopero venne cancellato dalla Costituzione del 1982, all’inizio delle riforme che promuovevano i rapporti mercantili; al momento lo status legale dello sciopero è a dir poco ambiguo, di fatto illegale benché possa essere tollerato in alcune situazioni e se le rivendicazioni rimangono circoscritte. Più frequentemente che lavoratori, i dirigenti d’impresa dell’unico sindacato legale sono anche i managers della stessa oppure quadri del partito, e la burocrazia sindacale è parte delle amministrazioni locali. L’articolo 27 della legge sul sindacato del 2001 prescriveva esplicitamente che, «in caso di interruzioni e rallentamenti del lavoro» (non usa la parola per sciopero), «il sindacato deve cooperare con le imprese e le istituzioni pubbliche per ristabilire il prima possibile l'ordine nella produzione». È una logica antioperaia e produttivistica per cui l’organizzazione sindacale è ridotta a un ruolo di rappresentanza di istanze filtrate in partenza come «ragionevoli» in un quadro di collaborazione con la direzione aziendale; ovviamente ciò è incompatibile con un’organizzazione indipendente dei lavoratori e delle lavoratrici. La crescita delle proteste e delle tensioni ha portato all’introduzione di alcune norme più favorevoli ai lavoratori, ma in assenza di una loro organizzazione autonoma non esiste un meccanismo istituzionale di contrattazione collettiva. Del resto, un’autentica e combattiva contrattazione collettiva metterebbe in crisi il capitalismo cinese perché lo priverebbe del suo principale vantaggio comparativo: lo sfruttamento di un’enorme massa di forza lavoro relativamente poco costosa.
3. Il pasticcio ideologico e la realtà del sedicente «socialismo con caratteristiche cinesi»
Una delle allucinazioni ideologiche collettive del XX secolo è stato il Mao Zedong-pensiero. Un pensiero notevole per metafore e similitudini ma ancor più per l’incoerenza: come per Stalin, dai testi e dalla pratica di Mao si possono estrarre le linee più diverse a seconda della convenienza. È vero che l’Armata rossa era in massima parte contadina; ma è pure vero che dal «Grande balzo in avanti» nella seconda metà degli anni ’50 - che risultò nella più grande carestia del XX secolo, circa 30 milioni di morti tra il 1958 e il 1961 - fino alla fase del «Terzo fronte» di sviluppo industriale nell’interno, che passò attraverso la Rivoluzione culturale e buona parte degli anni ’70, le masse contadine ingabbiate dal sistema dell’hukoufurono ininterrottamente spremute come un limone per finanziare lo sviluppo industriale, in particolare dell’industria pesante e militare. La credenza nel presunto contadinismo di Mao deve ora considerarsi un’autentica idiozia, dimostrata anche dalla rapida riduzione della povertà rurale nella prima metà degli anni ’80 quando l’agricoltura venne decollettivizzata o, meglio, liberata (temporaneamente) dall’estrazione forzata di surplus da parte dello Stato e si moltiplicarono le Tve. Quanto al minor rilievo del ruolo degli incentivi materiali relativamente all’unione Sovietica e il «mettere la politica al primo posto» - che attrasse tanti intellettuali e militanti come seducente alternativa all’economicismo della «revisionista» e «socialimperialista» Unione Sovietica - questo altro non era che la giustificazione ideologica della deliberata compressione del consumo del popolo combinata alla lotta tra frazioni della burocrazia dominante. In realtà, nell’epoca maoista rimasero sempre al primo posto gli obiettivi della crescita della potenza statuale, rappresentata dall’industria, della garanzia del rifornimento di alimenti razionati per la popolazione urbana e della concentrazione del potere nelle mani del Grande timoniere Mao.
Se possibile, l’ideologia del «socialismo con caratteristiche cinesi» è ancor più pasticciata di quella maoista. Anche nell’epoca delle riforme la storia del Partito e dello stesso Mao è sottoposta a un’attenta selezione e distorsione, obiettivamente agevolata da quanto di non-marxista vi fosse nel pensiero del Timoniere, cioè molto o tutto dal punto di vista dello spirito del comunismo libertario. Sicché si riprendono i tòpoie gli slogan della modernizzazione e della rinascita nazionale della Cina, ma declinati nel senso dell’integrazione nell’economia mondiale capitalistica invece che dell’autosufficienza del defunto «mondo socialista», una linea più liberista che stalinoide. Paradossalmente, proprio mentre in Cina ritorna la borghesia, è risorta la differenziazione tra gli agricoltori ed è enormemente aumentata la disuguaglianza socioeconomica, sono scomparsi i discorsi in termini di classi e di mobilitazione che avevano contraddistinto la lotta politica negli anni di Mao. Il grigiore delle uniformi di una massa che leva in alto il «libretto rosso» è stato sostituito dall’immagine normativa del cittadino il cui status superiore si concretizza nella qualità del consumo da middle class e nell’abitare in un’unità residenziale fortificata e ben custodita. «Perfino (o soprattutto) in Cina - ha scritto Mike Davis - la comunità recintata è stata definita “l'evoluzione più significativa nella recente pianificazione e progettazione urbana”»8. Sia chiaro che è questamiddle class della borghesia imprenditoriale e delle professioni che il Partito-Stato promuove, corteggia, recluta e incorpora nell’ideologia del developmental Statecon la formula delle forze produttive e cultura più avanzata. All’immagine del self made man«con caratteristiche cinesi» corrisponde quella del successo economico e dell’ambizione politica della nazione cinese nell’arena internazionale.
Il richiamo al valore dell’antica civiltà cinese stride con le distruzioni delle campagne di massa maoiste ma si accorda con la tradizione che fa del Pcc il campione della grandezza nazionale. Il nazionalismo è però moderato e controllato per non compromettere la rispettabilità del governo a fronte degli investitori e dei governi esteri; e il richiamo al rispetto delle differenze tra le civiltà funge da argine alle pretese di democratizzazione - per l’occasione qualificate come «liberalismo borghese» mentre tale non sarebbe l’idea che «diventare ricchi è glorioso» - e da giustificazione della censura e della dittatura del Partito-Stato a denominazione comunista sulla popolazione lavoratrice meno favorita dal «miracolo» economico nella transizione al capitalismo.
«La pratica è l’unico criterio per verificare la verità» recita un motto lanciato all’inizio delle riforme. Una banalità il cui pragmatismo occulta il criterio definitivo con cui la direzione del Pcc valuta la propria politica: ciò che gli permette di rimanere al potere. E per mantenere il potere statale l’élite politica deve aprire il Partito ai capitalisti privati. Il punto venne chiarito teoricamente - se così può dirsi - da Jiang Zemin con la formula delle «tre rappresentatività»: «le forze produttive avanzate, la cultura più avanzata e gli interessi fondamentali del popolo cinese»9. Naturalmente nelle forze produttive sono compresi anche i capitalisti disposti a edificare il sedicente «socialismo con caratteristiche cinesi» sulle spalle e sulla pelle dei lavoratori; ma Jiang Zemin non parlava di classi bensì di «nuovi strati sociali»: le classi e il loro antagonismo non figurano nella retorica dell’armonia e del «pacifico sviluppo». Quanto all’attuale segretario e presidente Xi Jinping, questi ha dichiarato nella sede più autorevole possibile, il congresso del Partito del 2017: «ispireremo e proteggeremo l'imprenditorialità e incoraggeremo l’innovazione e l’avvio di nuove attività»; «garantiremo il libero flusso dei fattori di produzione, prezzi flessibili, concorrenza leale e ordinata e che la sopravvivenza negli affari sia determinata dalla concorrenza (...) Elimineremo le regole e le pratiche che impediscono lo sviluppo di un mercato unificato e la concorrenza leale, sosterremo la crescita delle imprese private e stimoleremo la vitalità di varie entità di mercato»10. C’è dell’ipocrisia in queste parole, stante i privilegi e i monopoli delle imprese capitalistiche statali, ma è chiaro l’intento di rassicurare l’imprenditoria nazionale ed estera.
Infatti, il sedicente «socialismo con caratteristiche cinesi» non si vale solo dei capitalisti nazionali. Esso dichiara che nel suo «pacifico sviluppo», «la Cina non chiuderà mai le sue porte al mondo esterno e si aprirà sempre più», combinando le forze e le «risorse» dei mercati interno ed estero, «facendo pieno uso nel corso dell'apertura delle condizioni favorevoli create dalla globalizzazione economica e dalla cooperazione economica regionale»11. La ragione addotta è l’aspirazione della Cina «a costruire un mondo armonioso di pace durevole e comune prosperità» e «di continuare a partecipare attivamente alla divisione internazionale del lavoro». Concetti ribaditi da Xi Jinpingquando ha auspicato di «trasformare le imprese cinesi in imprese di classe mondiale, competitive a livello globale» e anche «di promuovere la liberalizzazione e agevolazione degli investimenti e di rendere più aperta, inclusiva ed equilibrata la globalizzazione economica in modo che i suoi benefici siano condivisi da tutti»12.
E così si saldano, anche nell’ideologia costituzionalizzata oltre che nella realtà, la trasformazione capitalistica nazionale e l’inserimento nella riproduzione allargata del capitalismo mondiale in nome delle leggi scientifiche che «governano lo sviluppo dell’economia, della società e della natura». Il mercato è naturalizzato nel contesto del presunto «socialismo». L’ingresso della Cina nella Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 - dopo un lungo negoziato con gli Stati Uniti - non fu un inizio ma il riconoscimento finale della partecipazione da protagonista della Cina ai processi di internazionalizzazione del capitale. La fraseologia cinese è ovviamente differente da quella statunitense ma la visione del mondo in sostanza è la stessa dell’amministrazione di Bill Clinton negli anni ’90 del secolo scorso o di quella di Barack Obama nel XXI: della globalizzazione economica come agente della prosperità e veicolo di pacifiche - o armoniose - relazioni tra gli Stati. È la versione cinese della teoria liberale della pace democratica, il cui nocciolo è che lo sviluppo delle relazioni commerciali promuove la pace tra le nazioni. Comprensibile e bella speranza all’alba della civiltà borghese contro il mercantilismo guerrafondaio delle monarchie assolute, la teoria della pace democratica è ora un modo per legittimare lo sfruttamento internazionale dei salariati. E pare ribaltarsi nell’ideologia di legittimazione internazionale di un moderno assolutismo capitalistico «con caratteristiche cinesi» che si è messo sulla strada di un «benevolo» imperialismo.
Dal 2004-2005 il Pcc si è posto il compito di «edificare una società armoniosa». L’armonia interna della Cina presuppone la disciplina degli agricoltori e della classe operaia dentro la paternalistica dittatura del partito unico. Non più totalitaria come al tempo di Mao - e come potrebbe essere altrimenti quando diventare ricchi è la gloria del «socialismo», le società transnazionali sono corteggiate, Confucio un modello di saggezza e i capitalisti non sono più demoni da bastonare? Ma pur sempre si tratta di dittatura di un partito unico sul popolo e sui salariati: di fronte a questo i richiami alle «caratteristiche» e alla sovranità nazionali sono foglie di fico che coprono la vergogna.
Il nuovo capo dello Stato e del partito Xi Jinping ha precisato l’obiettivo del conseguimento - tra il 2020 e il 2035 - della condizione della xiaokang shehui, di una società di moderata prosperità, senza poveri. Già utilizzata da Deng, la formula risale direttamente al canone confuciano del Libro dei riti- capitolo sull’evoluzione dei riti - ed è pregna di significati associati, che vanno oltre quello del benessere economico. Inferiore e successivo a datong, la mitica età d’oro dell’armonia ideale, qui interessa evidenziare chelaxiaokang shehuipresuppone che la pietà filiale (xiao) non si estenda all’intera società e che si persegua l’interesse individuale, tuttavia nel quadro del rispetto dei riti e dei ruoli in una società gerarchica governata da regnanti saggi e rispettosi della legalità. Tradizione cinese e Adam Smith sembrano confondersi nella retorica di una società armoniosa, ma i Figli del cielo e gli alti mandarini dell’attuale burocrazia «celeste» sono consapevoli delle contraddizioni interne e dei pericoli per la stabilità sociale e politica che queste comportano.
Il ricordo della crisi del 1989 certamente non è scomparso dalla memoria dei dirigenti del Pcc.
Dalla fine degli anni ’90 i conflitti di lavoro, le proteste dei cittadini, i movimenti sociali di vario tipo sono aumentati notevolmente13, trattati con una combinazione, variabile a seconda dei casi, di repressione, campagne d’opinione volte a neutralizzarne l’impatto - nei casi esemplari citati dai manuali di propaganda del Partito anche attraverso l’utilizzo di internet e moderne metodologie d’indagine e marketing - canalizzazione in procedure legali individuali. Inoltre la Grande recessione, i cui effetti sul commercio mondiale non sono ancora esauriti, ha dimostrato quanto sia rischioso contare sulle esportazioni per garantire il dinamismo dell’economia cinese. Sicché il regime deve nello stesso tempo prevenire la mobilitazione sociale - la disuguaglianza tra le classi e i privilegi e la corruzione tra i quadri del Partito-Stato sono ancora più ampi che trent’anni or sono – e fare i conti con l’incertezza della domanda estera.
Per la stabilizzazione sociale il regime si è posto gli obiettivi di creare una middle class consumistica e politicamente integrata e di ridurre la popolazione in stato di estrema povertà. Nel primo decennio del nuovo secolo questo ha originato un graduale aggiustamento della retorica e delle politiche sociali, accelerato dalle conseguenze della crisi economica internazionale iniziata nel 2008. Si deve considerare che fino a pochi anni fa la maggior parte della popolazione rurale era in pratica esclusa dai sistemi pensionistici e sanitari; e ciò vale per definizione e per tutti tipi di assicurazione sociale anche per i lavoratori dell’economia informale (che comprende ma non si riduce a lavoratrici e lavoratori migrati dalle campagne) che sono di gran lunga la maggior parte della forza lavoro della Cina e che è pure nell’impossibilità di ricorrere a procedure nell’ambito del diritto del lavoro. Prima importante correzione di linea fu il ridimensionamento del carico fiscale posto sugli agricoltori nel 2004, che negli anni ’90 era diventato insopportabile, motivo di discredito per il Partito e causa anche di comportamenti di tipo criminale da parte di quadri di villaggio14; nel 2007 il programma di reddito minimo garantito (dibao) venne esteso alle campagne. Poi e specialmente con l’ascesa al potere di Xi Jinping nel 2013, sono aumentate le normative per estendere la copertura dei servizi pubblici e dell’assistenza sociale.
Tuttavia, queste misure vengono dopo trent’anni di «riforme» che hanno smantellato il rapporto fra imprese statali e servizi pubblici per i lavoratori urbani, accresciuto la spesa privata per sanità e istruzione, discriminato le aree rurali, strutturato un sistema di previdenza sociale disuguale e regressivo a favore di - in ordine d’importanza - quadri del Partito, funzionari statali, dipendenti di imprese statali e popolazione con hukouurbano. Il problema è che se si è estesa la coperturadella popolazione per quanto riguarda pensioni e sanità il valore di questa copertura è estremamente disuguale secondo l’occupazione, l’hukou e la provincia e non adeguata proprio per i gruppi più bisognosi. Il sistema previdenziale è frammentato e soggetto a vincoli fiscali perché la responsabilità della politica sociale cade sulle amministrazioni locali: il governo centrale ha iniziato a contribuire ma restano notevoli le differenze locali nella capacità di spesa.
Nel complesso la riforma della politica sociale è una assai tardiva e limitata operazione di razionalizzazione della riproduzione della forza lavoro, che estende l’ambito legale dei diritti ma che ha valore economico assai disuguale. La riforma del sistema dell’hukou, inoltre, più che mirare a concedere i diritti sociali alle lavoratrici e ai lavoratori immigrati in città è motivata dalla volontà di creare un mercato fondiario per estendere le città e i progetti industriali e commerciali mediante lo scambio tra diritti sulla terra delle famiglie rurali e hukouurbano.
Un altro problema sulla strada dell’armonia è la corruzione dei funzionari. Campagne contro i corrotti e punizioni esemplari sono ricorrenti, ma queste sono circoscritte a casi individuali e a scandali che non si è potuto gestire in silenzio. Non può invece essere toccata la natura sistemica della corruzione e del clientelismo delle buone relazioni - guangxi- perché è connaturata alla sinergia tra la dittatura e l’ampiezza degli interessi economici gestiti direttamente e indirettamente dalla burocrazia partitico-statale.
L’edificazione dell’armonia è fonte di angosciosi dilemmi per gli amministratori periferici. A causa della particolarità del sistema del sistema monopartitico cinese la carriera dei quadri dipende da un punteggio per obiettivi: ma specialmente nelle regioni più povere è gravoso conciliare vincoli di bilancio, livello dell’investimento, estensione della copertura previdenziale, rispetto delle norme sull’ambiente e neutralizzazione dei conflitti nelle località della loro giurisdizione.
Come spesso accade, quanto più si insiste sull’armonia e sui bisogni del popolo tanto più questo è indicativo del pericolo che si attivi la conflittualità sociale, data l’ampiezza degli squilibri socioeconomici e un potere la cui legittimità ideologica è a dir poco fragile e la corruzione scontata.
La tradizione imperiale confuciana a cui si richiamano i modernizzatori del «socialismo con caratteristiche cinesi» è bimillenaria - di enorme importanza ma non la più simpatica della civiltà cinese - tuttavia lo sviluppo del capitalismo non produce una società armoniosa bensì contraddizioni economiche e conflitto sociale. In definitiva l’elemento «socialista» del «socialismo con caratteristiche cinesi» si riduce tautologicamente al fatto che il Partito al potere si auto-denomina «comunista»: è un caso di ideologia nel senso più puramente deteriore del termine, di «oppio per il popolo» nazionale e per i creduloni all’estero. Poiché è oramai troppo lontano dall’ideologia collettivistica dell’epoca maoista e i quadri del Partito sono i primi ad arricchirsi, per la legittimazione del potere di questo «socialismo» non rimangono che lo statalismo paternalistico e il nazionalismo: i regnanti possono atteggiarsi a principi che correggono l’ingiustizia rispettando i riti locali. Questa ideologia può essere attraente per le caste partitico-statali dominanti in altri Paesi per cui la peculiarità nazionale contrapposta all’universalismo della liberaldemocrazia «occidentale» può fungere da copertura per l’autoritarismo o la dittatura.
Con una sorta di parabola Wang Yi rese così il percorso del popolo della Cina dal tempo di Mao a quello delle riforme o, con le sue parole, dallo status al contratto:
«C’è qualcosa di simile alla schiavitù in questo. Lo schiavo è proprietà del padrone. Il padrone non gli paga un salario ma gli permette un piccolo pezzo di terra per coltivare i suoi alimenti, permettendogli di restare in vita per faticare nella piantagione, e gli fornisce una capanna, vestiario e qualche cura medica. Un giorno il padrone degli schiavi annuncia improvvisamente: “siete liberi, noi contrattualizzeremo il nostro rapporto”, cancella tutti i beni di prima necessità che prima forniva allo schiavo e lo priva del suo pezzo di terra. E se quello che prima era uno schiavo si lamenta, noi critichiamo la sua dipendenza dal padrone di schiavi e affermiamo che egli non comprende il significato della libertà».
Wang Yi descrisse poi alcune delle conseguenze della contrattualizzazione per gli schiavi liberati alla fine del XX secolo: il licenziamento di decine di milioni di operai - in violazione dei contratti sottoscritti pochi anni prima - la concentrazione della ricchezza, l’inesistenza di un sistema pensionistico fino al 1995, l’alto costo delle cure mediche... E giustamente osservò:
«Da una parte il governo persegue la riforma legale per scaricarsi, passo dopo passo, delle sue responsabilità nei confronti dei lavoratori. Dall’altra, aumenta le tasse per migliorare i “profitti” (...) In altre parole, muovendo dallo status al contratto, il governo continua a mantenere la politica totalitaria di espropriare i lavoratori quanto più possibile del loro sovraprodotto per concentrare le risorse nello sviluppo di un’economia diretta dallo Stato»15.
È al settore capitalistico di proprietà statale, allora in ristrutturazione, che qui si fa riferimento, ma l’argomento è ancora valido. Tuttavia, nonostante l’aspra critica Wang Yi faceva appello al senso di responsabilità del Partito perché istituisse «il grande contratto di un sistema costituzionale, senza il quale tutti gli altri contratti sono vulnerabili», alludendo alla democratizzazione dall’interno del regime.
Da quella speranza sono passati quasi vent’anni e quaranta dalla svolta del 1978: la «contrattualizzazione» ha fatto in Cina ulteriori grandi passi, ma ai lavoratori continua ad essere negata la libertà di sciopero e d’organizzazione indipendente, la censura è sempre operante, il dissenso politico perseguitato. Intanto i più recenti emendamenti alla Costituzione sono l’abolizione del limite di due mandati presidenziali e la costituzionalizzazione dello Xi Jinping-pensiero, sicché la dittatura di un unico partito torna formalmente a completarsi con la concentrazione del potere a tempo indeterminato nelle mani di un unico uomo e della cricca dei suoi sodali. E, tanto più dopo la riorganizzazione e il rilancio in grande stile del settore capitalistico statale, non è plausibile che il Partito-Stato «venda il suo wok», sia cioè disposto ad abbandonare il controllo delle imprese economiche che fanno la fortuna privata dei suoi quadri.
La conclusione è che la casta dirigente del Partito-Stato «comunista» ha fatto la sua «rivoluzione» capitalistica ma non può dare al popolo cinese le elementari libertà «borghesi»: l’interdipendenza fra la dittatura e l’accumulazione del capitale è più forte che mai.
Il popolo cinese dovrà conquistare la libertà politica e la liberazione sociale con le sue solo forze. Come sempre, come ovunque nel mondo.
Note
1) National Bureau of Statistics of China, Statistical communiqué of the People's republic of China on the 2017 national economic and social development, 28 febbraio 2018; http://www.stats.gov.cn/english/pressrelease/201802/t20180228_1585666.html; National Bureau of Statistics of China, China Statistical Yearbook 2015, tabella 2.1, population and its composition; http://www.stats.gov.cn/tjsj/ndsj/2015/indexeh.htm;
2) Mike Davis, Planet of slums, London e New York 2006 [Il pianeta degli slum,Feltrinelli, Milano 2006, p. 18].
3) Sulla transizione sovietica: David M. Kotz-Fred Weir, Russia’s path from Gorbachev to Putin. The demise of the Soviet system and the new Russia, Routledge 2007; Simon Pirani, Change in Putin’s Russia, Power, money and people, Pluto Press 2010. Per un ragionamento sulle caratteristiche del capitalismo russo, anche in questo caso conseguenti dai modi della transizione al capitalismo: Ruslan Dzarasov,The conundrum of Russian capitalism. The post-soviet economy in the world system, Pluto Press, Londra 2013.
4) Rimando a Michele Nobile, Imperialismo. Il volto reale della globalizzazione, 2006 e Capitalismo e postdemocrazia. Economia e politica nella crisi sistemica, 2012, entrambi pubblicati da Massari editore.
5) Information office of the State council, The People’s Republic of China, China’s peaceful development, Pechino, settembre 2011 http://english.gov.cn/archive/white_paper/2014/09/09/content_281474986284646.htm
I volenterosi possono far riferimento anche al lungo rapporto di Xi Jinping, segretario del Partito comunista dal 2012 e Presidente della Repubblica dal 2013, al XIX congresso del Pcc, a quanto pare durato tre ore abbondanti. Xi Jinping, Secure a decisive victory in building a moderately prosperous society in all respects and strive for the great success of socialism with Chinese characteristics for a new era,Delivered at the 19th National Congress of the Communist Party of China October 18, 2017 http://www.xinhuanet.com/english/special/2017-11/03/c_136725942.htm
6) Come panoramiche complessive dell’economia della Repubblica popolare, molto articolate e documentate: Barry Naughton,The Chinese economy. Transitions and growth, The MIT press, Cambridge (Mass.), London 2007 e Chris Bramall, Chinese economic development, Routledge, London e New York 2009; i capitoli di autori diversi in Loren Brandt-Thomas G. Rawski (a cura di), China'sgreat economic transformation, Cambridge University Press, 2008. Per l’analisi marxista: Martin Hart-Landsberg e Paul Burkett, China and socialism. Market reforms and class struggle, Monthly Review Press, New York 2005 e «The Chinese reform experience: a critical assessment», Review of radical political economics, marzo 2011 di Hart-Landsberg;Andong Zhu-David M. Kotz, «The dependence of China's economic growth on exports and investment», in Review of Radical Political Economics, vol. 43, n. 1, 2011, svolgono un’analisi macroeconomica; recente e di particolare interesse trovo sia Hung Ho-fung,China boom. Why China will not rule the world,Columbia university press, New York 2016. In italiano: Guido Samarani-Maurizio Scarpari (a cura di), La Cina. Verso la modernità, Mondadori, Milano 2012, in particolare i capitoli di Gianni Salvini, «La modernizzazione della Repubblica popolare cinese e l’integrazione economica nel mondo sinico» e di Luigi Tomba, «La società cinese in epoca maoista e la transizione postmaoista». Sul settore statale e la Commissione di supervisione (State-owned assets supervision and administration commission of the state council, Sasac), ricco e relativamente aggiornato: Barry Naughton-Kellee S. Tsai, a cura di, State capitalism, institutional adaptation, and the Chinese miracle, Cambridge University Press, New York 2015
7)Intorno alla crisi del 1898: Maitan, Livio, Il dilemma cinese. Analisi critica della Cina postrivoluzionaria 1949-1993, Datanews, Roma, 1994 e a cura di Maitan, La Cina di Tiananmen, Massari editore, Bolsena 1999.
8) Mike Davis, Il pianeta degli slum,op. cit., p. 107, cita Pu Miao, «Deserted streets in a jammed town. The gated community in Chinesecities and its solutions, in Journal of urban design, 2003, p. 45, forse il primo studio sull’argomento, che inizia con la sommaria descrizione delle zone residenziali esterne alla tangenziale di Shangai, circondate da muri alti oltre due metri e lunghi anche 500 metri, interrotti da portali affiancati da copie di statue greche; il contrasto maggiore con l’affollata città è che questo appare come un palcoscenico senza attori.
In Gated communities in China. Class, privilege and the moral politics of the good life, Routledge, Londra, 2009, Pow Choon-Piew descrive e interpreta brillantemente le gated communitiescinesi, in particolare di Shangai: dalla costruzione dell’immagine a fini di marketing al valore simbolico e sociale della auto-segregazione, del paesaggio ameno, dei monumentali portali, dell’abbigliamento delle guardie in servizio armato e dei dipendenti addetti ai servizi interni. Questo genere di unità residenziali costituisce un bene posizionale, indicativo dello status sociale, importante per l’identità psicologica e sociale della middle classcinese, che così intende ostentatamente separarsi dalle classi inferiori. L’estetica del paesaggio - e della fortificazione - incarna l’ideale della buona vita e rappresenta nello stesso tempo la separazione sociale e il potere nei confronti dei subordinati. Si veda anche Luigi Tomba, «Creating an urban middle class. Social engineering in Beijing», in The China journal, n. 51, 2004.
9) Jiang Zemin, Segretario del Partito nel 1989-2002 e Presidente della Repubblica nel 1993-2003. La formula è molto nota, qui cito dalla traduzione di Guido Samarani, La Cina contemporanea. Dalla fine dell’Impero a oggi, Einaudi, 2017.
10) Xi Jinping, Secure a decisive victory in building a moderately prosperous society in all respects and strive for the great success of socialism with Chinese characteristics for a new era, op. cit., pp. 26 e 29.
11)Information office of the State council, The People’s Republic of China, China’s peaceful development, op. cit.
12) Xi Jinping, Secure a decisive victory in building a moderately prosperous society in all respects and strive for the great success of socialism with Chinese characteristics for a new era, op. cit., pp. pp. 29 e 53.
13) Per informazioni aggiornate vedano gli articoli e le mappe degli scioperi del China labour bullettin, http://www.clb.org.hk; Lee Ching Kwan, Against the law. Labor protests in China's Rustbelt and Sunbelt, University of California Press, Berkeley e Los Angeles, 2007, molto interessante per il processo di distruzione e creazione dei rapporti di lavoro, la tipologia delle rivendicazioni e la dinamica delle proteste; Elizabeth J. Perry-Mark Selden (a cura di),Chinese society. Change, conflict and resistance, Routledge, 2010, descrive i vari tipi di conflitti e movimenti sociali in Cina;William Hurst, The Chineseworker after socialism, Cambridge University Press, 2009, in particolare il capitolo «Contention, protest, and social order»; Yew Chiew Ping, «Rising trend of labour strikes. Tables turned for chinese workers?», in Wang, Gungwu-Zheng Yongnian (a cura di), China. Development and governance, World scientific publishing company,Singapore 2013. Per i movimenti sociali: K. J. O'Brien (a cura di), Popular protest in China, Harvard University Press, Cambridge, MA, 2008; Elizabeth J. Perry-Selden, Mark (a cura di),Chinese society. Change, conflict and resistance, Routledge, 2010.
14) Episodi di violenti soprusi fino al gangsterismo dei quadri locali vennero denunciati in libro che fece molto scalpore, al punto che gli si attribuisce parte del merito del cambiamento della politica nei confronti degli agricoltori, e che fu rapidamente censurato benché si ritenga abbia venduto dieci milioni di copie nel mercato nero: Chen Guidi-Wu Chuntao, Zhongguo nongmin diaocha[Survey of Chinese peasants], People’s literature publication company, Pechino 2004, in inglese Will the boat sink the water? The life of China’s peasants, PublicAffairs, New York 2006.
15) Wang Yi, «From status to contract?», in Wang Chaohua (a cura di), One China, many paths, Verso, Londra 2003, pp. 192-193.