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domenica 22 ottobre 2017

VICINO ORIENTE SENZA PACE, di Pier Francesco Zarcone

«Quando si chiude una porta si apre un portone»: questo proverbio vale anche per il Vicino Oriente, solo che spesso e volentieri il portone è negativo come la porta, se non peggio. Così, sostanzialmente sconfitto l’Isis - per ora - sui campi di battaglia (specificazione da sottolineare), si è subito aperta (o riaperta) - e nel peggiore dei modi - la questione curda. I punti focali sono il Kurdistan iracheno e la città siriana di Raqqa. L’utile premessa è che, mentre in Occidente i Curdi godono di ottima stampa, nel Vicino Oriente invece non ne godono alcuna, anzi! Verso di loro ostilità e diffidenza sono al massimo grado: farebbe ottimi affari un ipotetico bookmaker che volesse raccogliere scommesse sul fatto che le indipendenze regionali curde, o la creazione di uno Stato curdo unitario, aprirebbe la via a un massiccio scannamento fra le attuali fazioni curde, cosa peraltro in linea con la loro storia.
Nel Kurdistan iracheno il referendum indipendentista voluto e vinto da Masʿūd Barzani ha dato il via all’offensiva del governo di Baghdad per la ripresa di Kirkuk e dei suoi pozzi petroliferi, che milizie curde avevano occupato in funzione anti-Isis dopo il 2014 (chi in loco pensa male sostiene invece che ciò sia avvenuto con la connivenza dell’Isis). Gli organi di “informazione” occidentali non hanno dato importanza al fatto che le forze irachene che hanno rioccupato Kirkuk e dintorni sono state accolte da manifestazioni popolari di giubilo: in pratica come liberatrici.
Il referendum di Barzani ha rivelato una spaccatura politica di non piccola importanza all’interno del Kurdistan iracheno. Il partito Gorran - «Cambiamento» - di ʿUmar Said Ali si era opposto alla consultazione independentista: si tratta di un gruppo che nel Parlamento regionale curdo dispone di quasi un quarto dei seggi (24), cioè più dell’Upk [Unione Patriottica del Kurdistan] del clan dei Talabani (18) - tradizionale avversario di quello dei Barzani - e un po’ meno del partito di Barzani (38); infatti il Gorran vuole l’autonomia curda nell’ambito dell’unità irachena.
Qualcuno si è meravigliato per la caduta di questa città in mani irachene praticamente senza combattimenti, ma forse non sa che l’Upk aveva il controllo di circa metà del totale dei Peshmerga, i quali erano in maggioranza proprio a Kirkuk; e ora il nuovo governatore della zona è Rizgar Ali, dirigente dell’Upk. Ora ci sarà da vedere se le truppe di Baghdad procederanno o no contro il Kurdistan iracheno, e queste truppe sono per lo più milizie sciite che rispondono ai loro capi in Iraq e all’Iran, che nella lotta ai Curdi sta operando alla luce del sole. Il timore della loro “mano pesante” è alla base della fuga in massa della popolazione curda da Kirkuk (dove peraltro non era maggioritaria).
L’offensiva irachena su Kirkuk è stata accompagnata da un brutto segnale politico per i Curdi: gli Stati Uniti, che li avevano coccolati e illusi, si sono affrettati a mostrarsi neutrali nella contesa con Baghdad.
L’ombra di questa “disinvoltura” potrebbe proiettarsi anche sui Curdi siriani. Essi hanno espugnato Raqqa, o meglio, le sue macerie, giacché (altro particolare su cui in Occidente si tace) non riuscendo a superare la resistenza dell’Isis le milizie curde hanno chiesto aiuto all’aviazione statunitense, che come d’uso ha saturato di bombe la città. Di qui verranno ulteriori guai, non riducibili ai soli miliziani del “califfato” riusciti a fuggire e che inevitabilmente ritroveremo in azione nei paesi di provenienza.
Le ripercussioni internazionali della situazione siriana, in cui la vittoria di Bashar al-Assad - Raqqa a parte - non è più solo un’ipotesi, si vedono già. In Oriente il ruolo di amici e nemici è variabile in capo agli stessi soggetti, e le variazioni dipendono dai rapporti di forza e dal grado di decisione che ciascuno dimostra. Niente di strano, quindi, che l’Arabia Saudita - storicamente amica degli Usa e nemica dell’Iran, con cui invece la Russia ha instaurato ottimi e solidi rapporti - stia venendo a patti con Mosca, come se dicesse: «Ci siamo anche noi, non solo Teheran». Ecco quindi che il re saudita è addirittura andato in Russia, accolto amichevolmente da Putin e Medvedev.
Quest’iniziativa - a un livello più alto - fa seguito alla collaborazione con la Russia avvenuta un anno fa, quando fu ottenuta la diminuzione dell’offerta mondiale di petrolio russo per farne rialzare il prezzo al barile, con la conseguenza che il rilevante deficit saudita (il 15% del Pil nel 2015, passato al 17,3% nel 2016) ai primi del 2017 si era dimezzato. Ora ci sono state intese nel campo dell’energia, delle tecnologie, delle infrastrutture, dei trasporti e degli armamenti (l’accordo per un contratto di tre miliardi di dollari per l’acquisto di missili S-400).
Nell’area gli Usa ricevono dispiaceri anche da un altro importante alleato, la Turchia. Qui la situazione siriana entra in gioco a motivo della svolta che le ha impresso l’intervento russo, ma in prima linea c’è il fallito colpo di Stato contro Erdoğan. Ankara ha acquistato armamenti dai cinesi e dai russi, e insieme a Mosca e Teheran ha partecipato ai negoziati di Astana sul futuro assetto della Siria. Washington è stata tagliata fuori. Dopo di che c’è stato l’arresto di un impiegato turco del consolato statunitense di Istanbul, accusato di spionaggio in favore dell’arcinemico di Erdoğan, Fethullah Gülen, di cui gli Stati Uniti rifiutano l’estradizione. La risposta del Dipartimento di Stato è consistita nel rifiuto dei visti per gli Stati Uniti ai cittadini turchi, a parte quelli rilasciati per “ragioni umanitarie”. Cosa significa questa formula? Tutto considerato non può che riferirsi agli oppositori dell’attuale governo turco, e quindi ne deriveranno ulteriori problemi.
La Turchia poi si ritrova insieme a Russia e Iran nell’opposizione al referendum indipendentista curdo, con la preoccupante tendenza a «mostrare i muscoli». Orbene, la situazione del Kurdistan iracheno è attualmente delle peggiori: tutti i paesi confinanti sono ostili alla sua indipendenza, e in più c’è stata la perdita della zona petrolifera di Kirkuk - con i relativi proventi economici. Inoltre il governo di Erbil non può assolutamente prescindere dal mantenimento dei buoni rapporti con la Turchia, attraverso il cui territorio riceve merci ed esporta. D’altronde non soltanto la Siria è lontana, ma nei confronti delle organizzazioni curde siriane c’è solo un’acerrima ostilità. Alla fine, se tutto rimanesse com’è, Erbil si ritroverebbe isolata, strangolata e col solo (ma platonico) appoggio di Israele.
Ulteriore motivo di contrasto tra Ankara e Washington è dato dai Curdi di Siria, che gli Usa ritengono ancora utili alleati nella lotta all’Isis, ma che i Turchi considerano terroristi legati al Pkk. Anche qui l’appoggio statunitense non è disinteressato: i Curdi siriani sono ormai l’unica possibilità per gli Usa di mantenere un certo ruolo in Siria, e inoltre l’illusione della nascita di un’entità curda autonoma o indipendente appare (in teoria) la sola in grado di ottenere basi locali e interrompere il cosiddetto “corridoio sciita”, mediante cui l’Iran può arrivare al Mediterraneo senza soluzione di continuità.

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