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Le azioni terroristiche jihadiste (cioè sunnite) del 7 giugno a Teheran hanno suscitato un po’ di sconcerto in alcuni media occidentali, che consideravano l’Iran una specie di fortezza impenetrabile per il terrorismo sunnita. Si trattava di un’impenetrabilità non reale, che poteva apparire tale solo per la mancata attenzione alle notizie diffuse in Iran, dove l’attività dell’Isis è precedente agli attentati predetti.
In Iran l’Isis è fonte di problemi per la sua capacità di saldarsi con i fermenti che esistono fra le minoranze sunnite esistenti nel paese. In esse potrebbe agire anche l’Arabia Saudita, e in proposito si ricordi che a maggio il principe Mohammad bin Salman, ministro della Difesa saudita, aveva formulato esplicite minacce all’Iran, sostenendo: «Non aspetteremo che la battaglia sia in Arabia Saudita. Invece, lavoreremo in modo che la battaglia sia in Iran».
Quindi, se gli Stati Uniti sono il grande nemico dell’Iran dal tempo della Rivoluzione islamica, oggi in campo ce ne sono altri due: l’Isis e Riyad.
L’Iran - cuore e roccaforte sciita nel mondo musulmano - non è omogeneo dal punto di vista etnico e religioso. Non si dispone di stime ufficiali, per cui ci si deve basare sui dati forniti dalla Cia (!): i Persiani sarebbero il 61-65% della popolazione, seguirebbero gli Azeri al 16%, i Curdi al 10%, i Luristani al 6%, un 2% di Arabi, Beluci e Turchi, più un restante 1% da ripartire fra altre etnie minori.
In merito a questa composizione vanno rilevati due aspetti: da un lato il livello di integrazione fra tali etnie è abbastanza alto, tant’è che i vertici politici e sociali non sono tutti persiani; dall’altro però ci sono stati conflitti con movimenti indipendentisti in Khuzestan, Kurdistan e Belucistan (regioni a forte presenza sunnita), dove il fuoco cova sotto la cenere oppure è acceso.
L’integrazione riguarda meno le differenze religiose. La religione ufficiale in Iran è lo Sciismo duodecimano, a cui appartiene circa il 90% della popolazione, l’8% è sunnita (per lo più Khuzestani, Curdi, Beluci e Turkmeni) e il restante 2% va ripartito fra le minoranze non musulmane (Zoroastriani, Bahá’í, Ebrei, Cristiani orientali, Yezidi, Induisti ecc.).
Per l’Iran la minaccia jihadista sunnita ha cominciato a concretizzarsi con la presa di Mosul da parte dell’Isis. Al che gli Iraniani procedettero a una sorta di “blindatura” della frontiera con l’Iraq.
All’inizio dell’estate del 2014 il portavoce del ministero dell’Interno di Teheran comunicò che in quella frontiera non esistevano “vuoti di sicurezza”, e il comandante delle Forze terrestri, generale Kiumars Heidari, riaffermò il concetto e negò che i terroristi operanti in Iraq fossero una minaccia per l’Iran. A luglio il capo della Polizia, generale Ismail Ahmadi Moqaddam, comunicò che nessun gruppo armato dell’Isis aveva potuto varcare la frontiera.
Comunque a maggio del 2016 l’Iran stabilì una “fascia di dissuasione” larga 40 km in territorio iracheno, a ridosso della frontiera fra i due paesi: ogni violazione avrebbe comportato una risposta militare iraniana. Fra 2014 e 2015 l’Isis si avvicinò di 12 km a quella fascia, e cinque brigate dell’esercito iraniano furono allertate. Tuttavia la zona di sicurezza non venne massicciamente violata, all’epoca.
Ciò nonostante, in seguito ci furono penetrazioni di gruppetti dell’Isis in Iran, e cellule locali cercarono di effettuare azioni terroristiche a Teheran.
A maggio del 2015 le autorità iraniane annunciarono l’arresto di cellule dell’Isis prima che effettuassero attentati, ma nel frattempo loro aderenti avevano avuto modo di uccidere vari insegnanti nel sudest del paese. Il ministro dell’Intelligence, Seyed Mahmoud Alavi, annunciò: «Non passa una sola settimana senza che sia scoperta e neutralizzata un’operazione contro la sicurezza interna».
Prima di questo episodio le forze di sicurezza avevano eliminato Hesham Azizi, capo del gruppo Ansar al-Furqan, insieme a vari militanti. Ad aprile cellule terroriste erano state annientate sempre nel sudest, nella provincia del Sistan e Belucistan.
A novembre, a ridosso della visita di Putin, nella regione occidentale di Kermanshah furono arrestati altri terroristi, alcune cellule dell’Isis furono smantellate nel Sistan e Belucistan - con sequestro di esplosivi - e una cellula fu scoperta nell’Azerbaigian iraniano.
In prossimità delle elezioni politiche iraniane, a febbraio del 2016, fu addirittura scoperto un centro di addestramento per la fabbricazione e l’uso di ordigni esplosivi, e il 26 (giorno delle elezioni) vennero arrestati dei terroristi che preparavano attentati a Teheran per il successivo mese di maggio.
I successi contro i terroristi sunniti portarono le autorità iraniane a diffondere comunicati tranquillizzanti; così il generale Ahmad Reza Pourdastan sostenne - nell’aprile del 2016 - che l’Isis non aveva forze sufficientemente numerose per costituire una minaccia all’Iran, e che non c’era «ragione di preoccuparsi, visto che esiste un completo dominio dell’intelligence sulle forze jihadiste nella regione».
Sta di fatto che, pur in presenza di continue dichiarazioni rassicuranti delle autorità, nel 2016 più di venti gruppi terroristici furono smantellati - con varie decine di terroristi imprigionati.
A questo punto per un osservatore esterno il problema è se il governo di Teheran possa fare alcunché per contrastare fra i suoi sunniti il virus jihadista, oltre che ricorrere a prevenzione e repressione.
La risposta più plausibile sembra essere quella negativa, tanto più che molti nella dirigenza iraniana (almeno fino a ieri) appaiono convinti che la soluzione del problema dell’Isis stia nella sua sconfitta militare in Iraq e Siria. Non ci sono (e forse nemmeno ci possono essere) autocritiche circa le politiche discriminatorie verso le minoranze sunnite.
Basta guardare la carta geografica per capire subito che le fonti di instabilità sono situate nelle zone interne dell’Iran a ridosso delle frontiere. A est l’Iran confina con l’Afghanistan e ospita piccole comunità pashtun; a sudest c’è il Belucistan; a sudovest c’è la provincia del Khuzestan, con una forte minoranza araba che già l’Iraq di Saddam Husayn cercò di far insorgere durante la guerra contro l’Iran, negli anni Ottanta.
- Khuzestan (o Arabistan)
È la regione di stanziamento della minoranza araba dell’Iran, situata al confine con l’Iraq e affacciata sul Golfo Persico. È un territorio ricco di risorse naturali, ma la popolazione araba è povera.
Qui si è formato il Movimento Arabo di Lotta per la Liberazione di Ahwaz (Harakat al-Nazal al-Arabi li-Tahrir al-Ahwaz, Asmla), che nel 2013 - con l’appoggio finanziario e logistico delle petromonarchie arabe - effettuò attacchi a installazioni petrolifere locali. A gennaio di quest’anno il gruppo, oltre alla distruzione di alcuni importanti oleodotti, attaccò un’importante base militare nella regione di Ghizaniya.
- Kurdistan iraniano
Qui agisce un partito autonomista, il Partito Democratico del Kurdistan Iraniano (Hîzbî Dêmukratî Kurdistanî Êran, Hdka). A gennaio del 1946 aveva costituito un’effimera Repubblica curda indipendente, eliminata a dicembre dello stesso anno dall’esercito iraniano. Represso dopo la Rivoluzione islamica del 1979, oggi ha la sua sede principale nel Kurdistan autonomo dell’Iraq, col cui governo si è impegnato a non effettuare azioni armate in Iran.
Nella regione opera anche il Partito della Vita Libera del Kurdistan (Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê, Pjak), che è un gruppo combattente attivo dall’aprile del 2004, con basi di partenza per le azioni militari fra le montagne dell’Iraq settentrionale. Il suo obiettivo è costituire in Iran un’entità curda autonoma - sul modello di quella irachena. È una ramificazione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Partiya Karkerên Kurdistanê, Pkk) in Turchia. I combattimenti fra questa organizzazione (circa 3.000 unità fra uomini e donne) e l’esercito di Teheran continuano.
Un terzo gruppo è il Partito Komala del Kurdistan Iraniano (Komełey Şorrişgêrrî Zehmetkêşanî Kurdistan, Kşzk), di estrema sinistra e anch’esso militarmente molto attivo.
- Belucistan
Qui è operante una radicata guerriglia del gruppo sunnita Jaish al-Adl (Jaa, «Esercito della Giustizia») - con basi di partenza in Pakistan - che dal 2013 ha intensificato le operazioni contro militari e installazioni iraniane con una certa efficacia, bisogna ammettere. Questa organizzazione è ormai più islamista radicale che nazionalista, opponendosi tanto al dominio persiano quanto e soprattutto allo Sciismo di Teheran.
UN FUTURO PIENO DI DIFFICOLTÀ
Una situazione del genere non è affatto rassicurante; questo non vuol dire che si tratti di pericoli tali da far crollare il regime iraniano, ma questi riguarderanno le popolazioni nella loro vita quotidiana.
La sconfitta militare dell’Isis prima o poi ci sarà (intanto truppe siriane hanno raggiunto la frontiera con l’Iraq), e fra i suoi artefici - più che la “scombiccherata” coalizione a guida statunitense - ci saranno Hezbollāh, le milizie sciite siriane e irachene e i Curdi. E proprio questo chiamerà alla vendetta superstiti dell’Isis e simpatizzanti, tanto più se l’asse Mosca-Teheran-Damasco-Baghdad riuscirà a mantenere l’egemonia sciita sulla regione - o su buona parte di essa.
Il che vuol dire che la sconfitta dell’Isis porterà a un incremento del terrorismo in tutta l’area, Iran compreso, e che - in parallelo o in combutta con le iniziative politiche, economiche e militari delle petromonarchie arabe - i territori di azione dei predetti movimenti separatisti diverrebbero ancor di più terreno di caccia per i jihadisti.
A dirla tutta terreno di caccia lo sono già, ed è del 9 giugno la notizia che, a seguito delle confessioni “ottenute” dalla terrorista catturata a Teheran, 48 persone sono state arrestate. Gli arresti sono avvenuti a Teheran e nelle province di Kermanshah, Kurdistan e Azerbaigian occidentale. Sono quasi tutti curdi sunniti che hanno giurato fedeltà all’Isis.
Il futuro sarà pieno di difficoltà, ma d’altro canto durante gli ultimi trent’anni il vaso di Pandora nel Vicino Oriente è stato aperto dagli Stati Uniti, e sarà impresa ardua e lunga distruggerne il contenuto - che si disperde sempre di più.
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