Oggi più che mai nel Vicino Oriente il già variabile gioco delle alleanze risponde alle contingenze del momento, con giri di valzer improvvisi mediante cui “verso sera” ci si trova sullo stesso fronte di chi “fino alla mattina” era nemico. Ne deriva una confusione pericolosa anche per i disinvolti attori locali, che rischiano di perdere l’orientamento e di indebolirsi sul piano interno, poiché lì nessuno di loro è privo di grossi problemi.
DOHA E ANKARA
Due notizie riguardo alla crisi qatariota sono importanti, in quanto ne attestano la potenziale pericolosità. La prima è che il Qatar ha mobilitato le sue Forze armate: in sé la cosa sarebbe risibile poiché si tratta di truppe essenzialmente mercenarie, come mostrano le foto delle sfilate militari in cui abbondano i soldati di pelle nera, e quindi tutt’altro che arabi. Inoltre un comunicato ufficiale del Qatar mostra la “faccia feroce” annunciando che navi e aerei dei Sauditi o di loro alleati che violassero cieli e acque qatarioti sarebbero colpiti. Vero è che l’esercito saudita (in Yemen lo sta dimostrando) è da barzelletta, tuttavia è sempre meglio star sicuri; e qui interviene la seconda notizia, meno comica della prima: il Parlamento turco ha approvato uno schieramento di truppe - fino a 3.000 uomini - in Qatar.
In quel paese la Turchia, a seguito di un accordo del 2014, ha cominciato la costruzione di una base militare capace di ospitare fino a 5.000 soldati. Oggi ce ne sono 150. L’iniziativa di Ankara fa alzare potenzialmente il livello di un possibile scontro e attesta che la Fratellanza Musulmana (appoggiata dal Qatar) può contare ancora sull’alleanza con la Turchia di Erdoğan. Si tenga presente, infine, che fra Turchia e Qatar esiste un accordo difensivo in base al quale Ankara si impegna a intervenire in caso di attacco a Doha.
A navigare senza bussola è proprio il presidente turco. Lo “stato degli atti” che lo riguarda è il seguente: da un’iniziale (e non breve) benevolenza verso il regime di Assad è passato all’ostilità attiva, rischiando pure di urtarsi con la Russia; poi le mutevoli circostanze del Vicino Oriente l’hanno portato a cercare un accordo con Mosca, e quindi si è in parte defilato dal fronte anti-Assad, assumendo posizioni concilianti verso Damasco e anche verso Teheran; le polemiche sull’appoggio statunitense al fallito golpe imputato a Fethullah Gülen e il sostegno militare di Washington alle milizie curde in Siria (sicuramente legate al Pkk di Turchia) non hanno certo contribuito ai buoni rapporti con gli Stati Uniti. È probabilissimo che alla fine gli Usa scarichino i Curdi come tanti altri loro “alleati” del passato, ma allo stato delle cose sono proprio i Curdi ad attaccare Raqqa con armi statunitensi.
Oggi - poiché è assai difficile che la rottura delle petromonarchie arabe col Qatar sia avvenuta senza il placet di Washington - la Turchia di Erdoğan è più schierata di ieri al lato di Teheran, cioè di quello che Trump considera il vero nemico, ben più dell’Isis. Mosca non può che esserne contenta.
RIYAD
I Sauditi sembrano più determinati che mai, ma sotto sotto la situazione non è delle migliori.
Nella Penisola arabica non c’è un compatto fronte saudita, giacché Kuwait e Oman non sembrano intenzionati a seguire Riyad nella “crociata” contro il Qatar. Inoltre l’Iran ha cominciato a fornire generi alimentari al Qatar per via aerea.
Ma il vero problema per Riyad è di natura economica e riguarda i petrodollari. Tema pericoloso quello dei dollari: si pensi solo che i tentativi di tradirne la fedeltà costarono la vita a Saddam Husayn e Gheddafi. Orbene, la Cina vuole pagare le importazioni di petrolio dall’Arabia Saudita in yuan e non più in valuta statunitense. La questione è ancor più delicata per il fatto che sembra proprio che attualmente siano Russia e Angola i maggiori fornitori di petrolio alla Cina, avendo sorpassato l’Arabia Saudita.
Si pone per Riyad un difficile problema di scelte che ricorda Scilla e Cariddi. L’importanza del partner cinese è evidente, con l’aggravante che intanto la Cina può pagare il petrolio alla Russia in yuan e che quindi, se Riyad vorrà conservare Pechino come cliente ai livelli attuali, prima o poi dovrà prendere in seria considerazione il pagamento in valuta cinese.
Ma a quel punto che reazione adotterebbe Washington verso una monarchia che non può davvero essere definita solida? Punterebbe al cambio di regime, come è stato fatto in Iraq e Libia?
TEHERAN E DOHA
Nel XVIII secolo il filosofo inglese David Hume pose il problema se l’evento A successivo a B sia considerabile causato anche da B. La questione sorge dopo i recenti attentati jihadisti a Teheran. Non si tratta solo dell’essere l’Iran nel mirino di Stati Uniti e di Arabia Saudita: il “problema di Hume” riguarda le dichiarazioni del ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubayr - prima degli attacchi terroristici - all’emittente Al Arabiya, il cui contenuto è l’invocazione a punire l’Iran per la sua politica sgradita a Riyad.
I telegiornali italiani hanno parlato di strani slogan gridati dai deputati iraniani durante l’attacco al Parlamento, vale a dire: «Morte all’America. Morte al suo servo, l’Arabia Saudita». Più che strani, sono slogan consapevoli di una realtà oppure espressivi di un timore, e sono peraltro condivisi non solo dallo schieramento sciita.
D’altro canto una delle cause fondamentali della crisi qatariota riguarda il solito fattore energetico, che costringe il Qatar - a prescindere dalle collocazioni ideologico-religiose dei suoi governanti e dal loro oggettivo sostegno al jihadismo - a collaborare con Teheran. Il fatto è che quando sarà finita la costruzione del gasdotto che dall’Iran arriverà in Iraq e in Siria, il gas qatariota arriverà ad essere molto più costoso di quello iraniano, con grave crisi economica per il Qatar.
Per l’Iran c’erano due opzioni: lasciarne fuori il Qatar o coinvolgerlo, col vantaggio - in questo secondo caso - di staccarlo dai nemici sauditi e del Bahrein. Ha prevalso la seconda opzione, Teheran ha concesso al Qatar una quota di diritti sul gasdotto e il governo siriano ha accettato, a condizione che Doha smetta di sostenere i jihadisti in Siria.
Ce n’era abbastanza per scatenare le reazioni saudite (quelle egiziane sono a pagamento).
Adesso si tratterà di vedere come si muoveranno Riyad e Washington in rapporto alle possibilità di sovversione interna all’Iran, sfruttando le cospicue minoranze sunnite del Khuzestan e del Belucistan. Si può tuttavia ritenere che troveranno un osso durissimo nella maggioranza sciita dell’Iran. Oltre a ciò, per Teheran si presenterebbe un grave problema nel caso gli Stati Uniti e i loro alleati riuscissero - ma non sarebbe facile - a spezzare il corridoio che collega l’Iran con la Siria e il Libano, e che essi stessi “aprirono” rovesciando il regime sunnita di Saddam Husayn.
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