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giovedì 21 luglio 2016

LA VENDETTA PREMEDITATA DI ERDOĞAN, di Pier Francesco Zarcone

C'È VOLUTO POCO PER CAMBIARE

Nel corso di una notte in Turchia tutto è cambiato e il peggio deve ancora venire. Ricorrendo a un'immagine, potremmo dire che prima del fallito golpe la situazione turca era così rappresentabile: il composito settore degli oppositori di Erdoğan costituiva una sorta di fortezza assediata sulle cui mura - dopo la perdita di spazi viciniori - si abbattevano i colpi degli arieti islamici dell'ex sindaco di Istanbul diventato Presidente della Turchia: tuttavia quelle mura bene o male tenevano. Oggi invece sono improvvisamente crollate, le orde di Erdoğan sono entrate e scorrazzano indisturbate in quella che potrebbe diventare assai presto una "cittadella della memoria".
Si è sempre parlato di una metaforica agenda politica islamista di Erdoğan, e tutto fa pensare che siamo di fronte a una limpieza [rastrellamento massiccio (n.d.r.)] diretta a concretizzarla. D'altro canto il vero Erdoğan non è mai stato il presunto islamico "moderato" mistificato dai media occidentali, bensì colui che in piena convinzione amava recitare i bellicosi versi
«Le nostre moschee sono le nostre caserme, le nostre cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati».
Gli oppositori - già in precedenza intimoriti e con sempre più ridotta voglia (e possibilità) di contrapposizioni frontali - oggi sono costretti al silenzio e all'acquiescenza sperando almeno di evitare guai maggiori. Ed è sintomatico che invece il partito Mhp (vale a dire l'erede politico del kemalismo!) - attraverso il suo leader Devlet Bahçeli - si sia allineato alle velleità governative di ripristino della pena di morte (tanto, come ha detto Erdoğan, la pena di morte è dappertutto tranne che nell'Unione europea! Che non è male come giustificazione omicida…).
In buona sostanza Erdoğan sta ridisegnando a proprio uso e consumo una nuova Turchia al cui interno gli oppositori dovrebbero avere ben poco da opporre e molto da tacere. Si parla di circa 90.000 epurati, fra arrestati e dimessi dal lavoro. La cifra è impressionante, e se si va a vederne i dettagli la preoccupazione aumenta in modo esponenziale. Innanzitutto (e proprio l'entità di quella cifra lo dimostra, altrimenti il golpe avrebbe vinto) non sono finiti nel tritacarne di Erdoğan solo i golpisti. Il vicepremier Numan Kurtulmus ha comunicato che gli imprigionati per complicità nel golpe sono 9.322, ma un tribunale di Istanbul ha rinviato a giudizio finora solo 278 persone per complicità col golpe. Il resto degli epurati riguarda gli asseriti sostenitori (anche solo simpatizzanti) di Fethullah Gülen.

ALCUNE CIFRE SULL'EPURAZIONE IN ATTO

A essere rivelatori del disegno di Erdoğan sono i dettagli del totale: più di 7.000 poliziotti sono stati sospesi e lo stesso dicasi per 15.200 dipendenti del ministero dell'Educazione. La mazzata che ha colpito il sistema d'istruzione è terribile: 21.000 insegnanti di scuole private hanno perso la licenza d'insegnamento e il Consiglio per l'alta educazione (Yok, cioè l'organo costituzionale supervisore delle Università turche) ha chiesto le dimissioni di tutti i 1.577 rettori della Turchia (1.176 sono di Università pubbliche e il resto di fondazioni universitarie private). Si parla di un progetto di licenziamento in tronco di 15.200 funzionari della Pubblica istruzione e di 21.000 professori di scuole private.
Il ministero della Famiglia e delle Politiche sociali ha sospeso 393 dipendenti, e la "purificazione" si è estesa anche alla sfera religiosa musulmana, giacché la Presidenza per gli Affari religiosi (Diyanet), organo statale, ha allontanato 492 dipendenti tra imam e insegnanti di religione. Ovviamente il sistema informativo non poteva restare indenne: il Consiglio supremo radiotelevisivo della Turchia - Rtuk - ha annullato le licenze a tutte le emittenti di radio e televisione che abbiano sostenuto i golpisti, vale a dire 24 media collegati a Fethullah Gülen. Dal canto loro i Servizi segreti hanno sospeso dal servizio circa 100 loro agenti.
Questi dati fanno ritenere che l'eventuale vittoria del golpe non avrebbe portato a molto di peggio. In pratica tutte le categorie sociali "portanti" vengono colpite essenzialmente mediante l'accusa di collegamento (anche solo di idee) col demonizzato Gülen (che sicuramente maledirà il lontano momento in cui ebbe la bella idea di aprire la strada politica allo sconosciuto Recep Tayyp Erdoğan; ma ormai il danno è fatto).
Siamo in presenza di provvedimenti dai costi umani e sociali enormi, che vanno dalla crisi economica delle famiglie colpite (dall'oggi al domani) alla sicura copertura dell'enorme vuoto di quadri così determinatosi mediante il ricorso a giovani leve islamiste (con quel che inevitabilmente seguirà).
Sulla sorte giudiziaria e sociale di arrestati ed epurati non c'è molto da illudersi. Già prima del golpe Erdoğan non si comportava da Presidente di una Repubblica parlamentare, ma da Presidente autocrate, e adesso - cioè al momento - è onnipotente. Leggi e competenze degli organi giurisdizionali, nonché convenzioni internazionali, non contano più nulla di fronte al volere di chi ormai incarna un vero e proprio "dispotismo orientale". Per arrestati ed epurati non vale certo la presunzione d'innocenza, e inoltre - non contando i golpisti - le vittime di questo tsunami repressivo hanno tutta l'aria di trovarsi nei guai per meri "reati" d'opinione, sempre ammesso che di reati si possa parlare alla stregua delle attuali leggi turche. Che però non contano.
Nel nostro titolo si parla di vendetta premeditata, e la ragione è semplice. Mettiamo fra parentesi (per ora) la questione se quello dei giorni scorsi fosse o meno uno pseudo-golpe: la cosa al momento finisce con l'avere poco rilievo. Semmai si può pensare che fosse un "golpe atteso", almeno alla luce di un indizio pesante che induce a vedere nella repressione attuale qualcosa di pensato e preparato da tempo, cioè da far scattare appena se ne presentasse l'occasione propizia: e l'indizio consiste nel contenuto analitico e ad ampio spettro delle attuali liste di proscrizione, liste che non si preparano certo in pochi giorni.

ISOLAMENTO INTERNAZIONALE?

Molto si discute oggi sull'odierno isolamento internazionale di Erdoğan. Tuttavia è sempre pendente il rischio che ancora una volta si confondano i desideri con la realtà. Innegabilmente il nostro personaggio ha problemi con l'Ue, e non è aprioristicamente da escludere che il ripristino della pena di morte possa chiudere il discorso sull'ingresso della Turchia nell'Unione dei 26 - ferma restando la legittimità del chiedersi se ancora effettivamente persista l'interesse di Erdoğan per un tale risultato. Qui, però, vanno rimarcate l'ipocrisia e la totale mancanza di valori (anche i conclamati "valori europei") dei governanti e dei burocrati dell'Ue, perché un paese quale è diventata la Turchia di Erdoğan non dovrebbe far parte dell'Unione, punto e basta, a prescindere dalla pena di morte. Ma Ankara ha pur sempre in mano la carta dell'afflusso dei profughi dalla Siria: ragion per cui non è del tutto disarmata verso l'Ue. Semmai quest'ultima potrebbe giocare il brutto scherzo di chiudere il discorso del libero passaggio dei cittadini turchi per l'Europa, cosa che pare interessare molto a Erdoğan (magari non per l'immediatissimo domani, atteso che ai dipendenti pubblici è stato vietato di uscire dalla Turchia senza permesso dei superiori, e le ferie sembrano sospese).
C'è poi l'incognita relativa a come evolverà la questione dei rapporti con gli Usa: astrattamente si potrebbe pensare che una retromarcia di Erdoğan equivarrebbe a un perdere la faccia, ma sarebbe rischioso fare affidamento sulla sua presunta sensibilità al riguardo. Un suo sostanziale cambio di atteggiamento verso la Russia invece è nell'aria, e non troverebbe certo remore di principio da parte di Mosca, in base al pragmatico principio di politica internazionale a suo tempo formulato da Winston Churchill: non ci sono amici, ma solo interessi da perseguire. Un principio del resto comune a tutti. Non dimentichiamo che la Turchia importa dalla Russia il 58% del suo fabbisogno di gas naturale.

L'IMPATTO SULL'APPARATO MILITARE

A parte questa fase di delirio di onnipotenza, Erdoğan non ha mai agito come pacificatore di una Turchia non da oggi rivelatasi fragile: e difatti il suo operato è tale da causare al suo paese ulteriori fragilità, militari e politiche. Alle frontiere turche con Siria e Iraq infuria la guerra, la guerra contro i curdi anatolici è in pieno svolgimento e l'ondata di attentati non può dirsi finita. Sul piano interno la Polizia, saldamente in mano a Erdoğan, ha saputo far fronte a dei golpisti mandati allo sbaraglio ma, a prescindere dal fatto che la guerra è un'altra cosa, il nostro rischia di indebolire ancor di più le sue Forze armate che già hanno mostrato falle di rilievo. La sua massiccia repressione lascerà indenne il morale e la coesione dei militari che non parteciparono al golpe?
In più l'atmosfera di sospetto circa infiltrazioni di oppositori tra i militari non finirà certo tra pochi giorni, ed è ormai chiaro che nessun turco in divisa può essere sicuro che la mannaia della repressione non si stia abbattendo su di lui. E poi, l'eliminazione di quadri militari importanti (molti dei quali operativi in ambito Nato) davvero non avrà conseguenze organizzative? È azzardato pensare che l'attuale ondata di epurazioni lascerà per un certo tempo assai indebolito l'apparato militare turco? Si tratta di una realtà di 500.000 uomini, con 12.000 carri armati, 700 aerei e 300 navi: ma con che morale? I militari sono ormai marcati strettamente dalla polizia e gli ufficiali sono sospetti. Se davvero Erdoğan è convinto che dietro al golpe c'erano gli Stati Uniti (oltre a Gülen), e che lo volevano morto, non è da escludere che sulla componente più americanizzata delle Forze armate altri colpi arriveranno, e il risultato sarà un loro ulteriore "dissanguamento" e un calo nel morale e nella coesione.
Che incidenza abbia tutto questo sulle iniziative di politica estera di Erdoğan è ancora presto dirlo. Intanto si registra il fitto quadro dei pasticci da lui causati in politica estera, pasticci che si traducono in altrettante crisi. Ecco l'elenco: Siria, con ricadute di attentati in Turchia; cattivi rapporti con l'Ue e dissolversi dell'entente con la Merkel; riconoscimento del genocidio armeno da parte del Parlamento tedesco; peggioramento dei rapporti con gli Usa anche per l'appoggio di Washington ai curdi siriani e iracheni, con tanti saluti agli interessi turchi; crisi con l'Iran che appoggia al-Assad; guerra ai curdi del Pkk, senza che costoro appaiano davvero indeboliti; problemi con la Nato, i cui vertici dopo l'abbattimento del Su-24 russo lasciarono Erdoğan a sbrogliarsela da solo. Oggi tuttavia la crisi con la Russia sembra in via di assorbimento.

IL CAMBIO DI CLIMA CULTURALE

Dopo aver parlato finora di questioni strettamente politiche, è il caso di trattare un argomento di ordine più propriamente socio-culturale, che è in un certo senso politico a sua volta, e comunque non è meno importante. Infatti, le più recenti corrispondenze dalla Turchia parlano di un radicale cambiamento di clima caratterizzato dal visibile ripiegamento della Turchia laica e dai primi segnali di peggioramento della condizione femminile.
Prima di procedere in questo senso, e per una maggiore comprensione, è necessario fare un passo indietro nella storia. Per quanto in Occidente si sia sempre - e impropriamente - parlato di turchi con riferimento all’epoca imperiale, in realtà questa denominazione era riservata in loco ai turcofoni dell'Anatolia profonda e, a parte questi "burini anatolici", gli altri (grandi città, coste, Balcani) si consideravano ottomani. Ai primi del secolo XX il nascere del nazionalismo del Movimento Unione e Progresso (denominato in Europa dei "Giovani Turchi") portò alla rivalutazione del turchismo, che poi con la Repubblica di Atatürk diventò ideologia ufficiale. Ad ogni modo, seppure furono gli anatolici a fornire a Mustafa Kemal l'esercito per la guerra d'indipendenza contro la Grecia, non vi è dubbio che in seguito - a motivo proprio dell'occidentalizzazione e della modernizzazione imposte dal regime repubblicano - toccò proprio agli anatolici tornare in secondo piano, per così dire. E costoro nel proprio ambiente custodirono fino a oggi la Turchia tradizionale, patriarcale, sessista e islamica su cui occidentalizzazione e modernizzazione in definitiva poco incisero.
Un distinzione da noi praticamente sconosciuta è quella fra i cosiddetti "turchi neri" (quelli delle provincie anatoliche più interne) e i cosiddetti "turchi bianchi" (delle grandi città e della costa): questi ultimi, etnicamente poco "turchi" - magari dagli occhi azzurri e biondi come Atatürk, molti dei quali circassi o frutto di commistioni etniche balcaniche - hanno comandato fino al termine del secolo scorso, ma oggi nei posti di comando ci sono essenzialmente i "turchi neri", i cui rancori e le cui velleità di rivincita fino a ieri risultavano compresse da esigenze di apparenza politica, soprattutto nella prospettiva internazionale. Oggi tutto va cambiando: è giunta l'ora della rivincita, che non sarà indolore.
I segnali cominciano a vedersi per le strade di Istanbul e Ankara, dominate da islamisti esaltati alla cui intollerante presenza si deve un ulteriore aumento di turban (il velo femminile per il capo), una certa riduzione di abbigliamento femminile occidentale non puritano e la crescita di provocazioni alle donne che non si allineino prontamente al nuovo corso. Le corrispondenze giornalistiche dicono che non è consigliabile per le donne aggirarsi di sera con braccia e gambe scoperte, e a testa nuda. Sintomatico (e preoccupante) il racconto di una studentessa a cui un sabato da un'auto fu gridato
«Uccideremo anche le donne come voi».
Potrà la Turchia laica rialzare la testa? Nella situazione attuale è obiettivamente pericoloso, con le strade nelle mani degli erdoğanisti e della polizia. Resta l'incognita riguardo alle ripercussioni di questa stretta repressiva su un paese in cui ancora si vota: e anche per questo sarà interessante vedere cosa accadrà alle prossime elezioni. Ma Erdoğan potrebbe anche conquistare la maggioranza necessaria a modificare la Costituzione in senso presidenzialista, e questo aumenterebbe certo il suo delirio di onnipotenza.
Certo, le mani ancora più libere possono significare per Erdoğan la possibilità di continuare a fare disastri d'ordine sociale. E se questi disastri incidessero negativamente sugli interessi economici dei ceti che appoggiano il governo attuale (ceti non tutti composti da islamisti, ma anche da imprenditori piccoli e grandi, semplicemente opportunisti), allora la situazione turca potrebbe tornare ad essere esplosiva, mettendo a repentaglio la forza del regime di Erdoğan.
Tuttavia non ci sarebbe da stupirsi se si verificasse una regressione ulteriore in senso quasi talibano, non solo come sembrerebbe accadere ora, ma nel medio periodo. Nell'allontanamento della Turchia dalla prospettiva di ingresso nella Ue possono derivare numerose conseguenze, non tutte prevedibili - al limite anche un'espansione dell'Isis, prodromi di guerra civile e forse nuovi golpe militari. Alcuni di questi scenari, se si verificassero in un contesto ulteriormente peggiorato - in termini economici, sociali e istituzionali - potrebbero veramente portare all'esplosione di una guerra civile.

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