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domenica 12 giugno 2016

TERRORISMO SPETTACOLARE DI MASSA, di Roberto Massari

IN DUE LINGUE (Italiano, Portoghese)

La società portatrice di spettacolo non domina solo mediante l'egemonia economica le regioni sottosviluppate. Le domina in quanto società dello spettacolo… parte dello spettacolo totale… del funzionamento globale del sistema, in una divisione mondiale di compiti spettacolari…
(Guy Debord, La società dello spettacolo, 1967)

Martedì 11 settembre 2001, ore 8,45: le Torri Gemelle di Manhattan esplodono e crollano al suolo colpite da due aerei di linea guidati da piloti suicidi della rete di al-Qaeda.
Il mondo non dimenticherà facilmente quella data, anche perché da allora le numerose foto che ritraggono le Torri avvolte dal fuoco si sono irreversibilmente trasformate in «foto-simbolo» della nostra epoca. In quanto tali vengono utilizzate in continuazione - e sempre di più lo saranno nel futuro - su una scala industriale e di massa. Continueranno ad essere sottoposte a serie infinite di riproduzioni, a variazioni grafiche d'ogni genere che non possiamo nemmeno lontanamente immaginare. Tali manipolazioni grafiche dipendono infatti dall'innovazione nel campo della tecnologia informatica e postcomputeristica, con le sue ricadute nel campo dell'internautica (la navigazione in Internet).
È un fenomeno che già da tempo si verificava col procedere così rassicurante dei lavoratori nel quadro del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo (1901), con il fungo atomico di Hiroshima, con la maliziosa foto di Marilyn a gonne levate o con l'indimenticabile foto di Guevara ripresa da Korda. Stiamo parlando di «foto simbolo della nostra epoca» e non di foto soltanto celebri: vale a dire, foto che hanno uno straordinario potere evocativo; che comunicano direttamente con l'immaginario individuale e di massa; che sintetizzano nella frazione di un istante ottico-percettivo miriadi di parametri culturali e di coordinate spazio-temporali, per lo più remote e irriconoscibili (di fatto superflue); che alludono a «un prima» e a «un dopo» totalmente distaccati dall'oggetto occasionale dell'immagine (che rimane quindi arbitrario e disponibile per ogni possibile manipolazione).
È infatti la serialità - vale a dire la possibilità di riproduzione tecnica e di variazione grafica infinite (in presenza di condizioni di comprensibilità universale e generalizzata) - che in ultima analisi rende tali immagini foto-simbolo della nostra epoca.
E che simbolo, nel crollo delle Torri Gemelle!
Chi fosse stato in cerca di un logo con cui raffigurare agli occhi delle future generazioni il passaggio dal «secolo breve», ultimo del secondo millennio - il Novecento delle grandi colpe storico-sociali (nazifascismo, stalinismo, colonialismo, guerre mondiali) - alle angosce collettive per le incognite del terzo millennio, non potrà che dirsi soddisfatto. La più scatenata evocazione filmica di Armageddon potrà apparire solo acqua fresca in rapporto a quei filmati, a quelle immagini.
Dopo la tragedia, i giornali fecero a gara nello stabilire quali record fossero stati battuti: il record del maggior numero di vittime in un solo giorno (guerre e calamità naturali escluse); il primo attacco agli Usa, sul loro territorio, dal 1812; l'evento sanguinoso più intensamente coperto dai mass media, in rapporto alla sua breve durata; il maggior danno economico con una sola azione (perdite per 40 miliardi di dollari circa); l'estrema rappresentatività architettonico-urbanistica degli obiettivi prescelti; ma anche l'attentato più interetnico, con vittime di 87 paesi diversi (e più interclassista in rapporto al numero delle vittime - aggiungiamo noi, ponendoci in coda a questa macabra hit parade) e così via.
Ma poi, obbedendo alla logica frenetica del ritmo delle news, anche l'attentato smise di fare notizia e i principali media finirono col disinteressarsene nel giro di poche settimane. La guerra in Afghanistan doveva servire anche a questo…
Perché ricordiamo un episodio così noto e tragico della storia «moderna»?
In primo luogo perché l'episodio ormai non è più tanto «moderno». Il tempo scorre, le impressioni spontanee svaniscono nell'oblio, il dolore dei sopravvissuti si attenua, i ricordi sfumano nella memoria e gli eventi diventano mano a mano oggetto di studi, di elaborazioni storiografiche, di tesi di laurea nelle università. Tutto ciò è una prova evidente della nostra capacità di assorbimento delle notizie, anche delle più tragiche, delle più dolorose, delle più disumane. Delle 33 coltellate che uccisero Giulio Cesare, invece, parliamo ancora…
In secondo luogo perché è la data di nascita della spettacolarizzazione visiva del terrorismo. Il mondo ha praticamente seguito in diretta il crollo della seconda Torre, le scene di terrore, i corpi umani che volavano nel vuoto per sfuggire alla morte per fuoco, scegliendo di morire nell'impatto col suolo. Sicuramente ci stiamo dimenticando di qualche immagine di attentati ripresi casualmente da telecamere nascoste (a parte gli indimenticabili e ultrapionieristici fotogrammi di Zapruder nell'uccisione di John Kennedy nel 1963); ma per le Torri Gemelle si parla di riprese (amatoriali) vere e proprie, di filmati fatti intenzionalmente e immediatamente trasferiti sui media. Essi consentirono al mondo intero di assistere in diretta televisiva ad una delle stragi più celebri e più spettacolari del nostro tempo.
Tanti fattori contribuivano a rendere quella strage spettacolare (e qui non staremo a ricordarli perché molto si è scritto al riguardo), ma per la prima volta la spettacolarizzazione di un evento terroristico di massa era organizzata a fini commerciali (di massa) e su scala mondiale (sempre di massa: ricordate la parola «globalizzazione» all'epoca tanto di moda e oggi ormai obsoleta quasi come il ricordo delle Torri Gemelle?). Non vorrei sbagliare, ma credo che fosse anche la prima volta che un evento terroristico di massa godeva della tecnologia satellitare.
In terzo luogo perché è la prima comparsa del terrorismo da kamikaze in forma organizzata e di gruppo. Attenzione: non diciamo solo «kamikaze» - di cui la storia del Novecento presenta frequenti e abbondanti esempi - ma «kamikaze in forma organizzata», anzi organizzatissima: un intero gruppo di 19 persone disposte a morire, tutte di buon livello scolastico o accademico, tutte preparatesi per anni al sacrificio (alcuni addirittura piloti brevettati), tutte inserite nel benessere della società dei consumi numero uno - quella degli Usa che più facilmente avrebbe potuto dissuaderli dal compiere il gesto collettivo. L'attentato alle Torri Gemelle non fu il prodotto della disperazione individuale e della miseria, ma il risultato di un piano di autosacrificio di gruppo, minuziosamente programmato e lungamente atteso.
In quarto luogo, perché la motivazione religiosa era alla base di tutto: della preparazione, della determinazione a sacrificarsi, della mancanza di pietà verso le vittime, tutte innocenti, per lo più lavoratori e lavoratrici, alcuni anche musulmani. Il terrorismo organizzato che avevamo conosciuto nel passato era quello della propaganda del fatto, i «banditi tragici», gli anarchici alla Ravachol o Bresci, ma anche i kamikaze piloti giapponesi, i dinamitardi algerini. Insomma, eravamo abituati a un intreccio terroristico di disperazione umana e progetto politico: a settembre 2001 la religione (esasperata e fanatica quanto si vuole, ma pur sempre fondata nella tradizionalissima credenza che Dio avrebbe accolto i martiri nell'aldilà) è apparsa come struttura ideologica connettiva di progetti terroristici di gruppo, volti a colpire masse di civili indifferenziate. Questo aspetto religioso (detto anche fondamentalismo) è quello che da allora è maggiormente cresciuto, come dimostra la cronaca quotidiana di questi anni, di questi mesi, di questi giorni.
In quinto luogo perché in quell'attentato non si mirava a colpire un nemico ben individuato, non si mirava a indebolire strategicamente e nemmeno tatticamente l'avversario (potevano credere veramente i terroristi che distruggendo le Torri Gemelle gli Usa avrebbero avuto un tracollo economico o militare?). Con quell'attentato si voleva attirare l'attenzione del mondo, si voleva lanciare un messaggio alle migliaia di potenziali seguaci perché entrassero anche loro nelle liste degli aspiranti suicidi per Allah; si voleva dare una forma spettacolare alla propria struttura di appartenenza - a quell'ala particolare del jihadismo, a quel settore particolare del mondo musulmano: intento certamente realizzato, forse l'unico realmente realizzato. Un trionfo del terrorismo della società spettacolare di massa.
Eppure, eppure… si ignorava ancora o si preferiva far finta di ignorare che il fattore tempo avrebbe disperso nel nulla anche gli effetti di quell'azione terroristica spettacolare di massa. Oggigiorno, invece, il processo della dimenticanza è chiaro ed è messo nel conto da parte del terrorismo spettacolare di massa contemporaneo. Per tale ragione, da allora questo tipo di attentati (martiri suicidi preventivamente addestrati e organizzati, uccisione indiscriminata di civili «innocenti», spettacolarità delle azioni) è andata crescendo di frequenza, diventando ormai quasi quotidiana su scala mondiale. (La scala mondiale è ormai l'unica accettabile per chi pianifica questo terrore spettacolare di massa.) Occorre compiere attentati sempre più spesso, sempre più feroci e sempre più ravvicinati nel tempo, per ottenere un effetto paragonabile a quello di settembre 2001.
A lungo andare la frequenza diventerà parossistica e perderà mano a mano d'efficacia: è il controeffetto della società spettacolare che mentre colpisce totalitariamente l'attenzione delle persone, crea in loro anche un processo di assuefazione. Tanto per giocare un po' con le parole, potremmo dire che è in atto un processo di «caduta tendenziale del saggio di terrore spettacolare di massa» a causa dei sottostanti processi di saturazione visiva e di assuefazione psicologica. Oltre un certo grado di frequenza il terrorismo non potrà andare e anche il cittadino medio alla lunga si abituerà a conviverci: non convive già egli con l'inquinamento, i cibi cancerogeni, le guerre e la commercializzazione crescente di ogni sua manifestazione spirituale?
Società dello spettacolo e terrorismo sono ormai arrivati a fondersi. Volendo giocare una seconda volta con le parole, potremmo dire che nei paesi arretrati (in alcuni paesi arretrati, quelli in cui il fanatismo religioso è più forte) la società dello spettacolo ha vissuto un processo di «rivoluzione permanente», una specie di sviluppo ineguale e combinato, passando dalla quasi assenza di strumenti spettacolari di massa (intendiamo i moderni mass media) alla spettacolarizzazione globale e terroristica, cioè all'occupazione - totalitaria, ma temporanea - dei più moderni mezzi di comunicazione. E questo ci consente qualche riflessione aggiornata sulla teoria della società spettacolare di massa nelle sua trasformazione totalitariamente terroristica, anche se per intervalli di tempo sempre più brevi.

Si rilegga all'inizio del capitolo la citazione da La società dello spettacolo di Debord e si sostituisca la parola «terrorismo, terroristico» alla parola «spettacolo, spettacolare». Anzi, lo si faccia per l'intero libro di Debord e si verificherà che il discorso procede ugualmente, secondo una precisa logica di fondo, avendo la società dello spettacolo trovato per un periodo di tempo che non sappiamo quanto durerà, una propria filiazione genetica nel terrorismo: il terrorismo spettacolare di massa, forma suprema della spettacolarizzazione. Vale a dire forma suprema dell'alienazione nella società del capitale per tutti coloro che, non trovando ragioni di vita reale nell'irrealtà quotidiana della società dell'immagine (del «virtuale», come si dice oggigiorno), ritengono possibile spezzare il dominio della spettacolarità elevando quest'ultima alla sua massima potenza.
Nulla è più spettacolare dell'atto terroristico o, detta altrimenti, il terrorismo è una delle forme più alte di spettacolo e non potrebbe non esserlo. Lo è oggettivamente, per il modo in cui si manifesta e per il modo in cui i media se ne appropriano. E lo è soggettivamente, per le aspettative di clamore pubblicitario (propagandistico) presenti nel terrorista stesso.
Si veda come Umberto Eco assegnava tali aspettative all'uomo considerato un tempo il terrorista per eccellenza, a Osama bin Laden (oggi via via dimenticato per la nuova ferocia che affiora nei moderni kamikaze votati ad Allah):
«Quale era il proposito di Bin Laden nel colpire le due torri? Creare "il più grande spettacolo del mondo", mai immaginato neppure dai film catastrofici; dare l'impressione visiva dell'assalto ai simboli stessi del potere occidentale e mostrare che di questo potere potevano essere violati i maggiori santuari… Non stava facendo una guerra, in cui conta il numero dei nemici eliminati: stava appunto lanciando un messaggio terroristico, e quello che contava era l'immagine». («Gli alleati nolenti di Bin Laden», l'Espresso, 1 novembre 2001)
Il fatto è che ormai l'umanità vive una dimensione planetaria della spettacolarizzazione, nel senso più vero del termine: le TV satellitari e la velocità di circolazione del Web riempiono in tempo reale gli spazi di comunicazione in ogni parte del globo. Nel far questo, nell'operare in questa dimensione planetaria, il processo della spettacolarizzazione deve acquisire connotati sociali in scala con la nuova dimensione dei processi produttivi e distributivi. Bene faceva Debord, negli anni '60, a individuare come sostanza reale costitutiva dello spettacolo ancora e sempre la struttura di merce. Oggi non avrebbe difficoltà ad aggiornare il suo lavoro, sollevandolo alla scala in cui si collocano normalmente i centri decisionali fondamentali nel processo di produzione e riproduzione del capitale, vale a dire su scala sovranazionale o, a seconda del settore, multinazionale.
Ebbene, è questa la scala alla quale si pone il processo di produzione e riproduzione della spettacolarizzazione sociale e quindi del terrorismo. Non è il terrorismo a subire il contesto della globalizzazione - vale a dire l'instaurazione di un continuum, se non una vera e propria integrazione tra processo produttivo e processo comunicativo su scala planetaria - ma è il terrorismo stesso che favorisce la costituzione di tale contesto, mettendo in campo per l'appunto il massimo di spettacolarità possibile.
Per dirla con Eric Hobsbawm, in un'intervista a l'Humanité:
«Viviamo in un mondo globalizzato, dove il tempo e lo spazio sono praticamente aboliti, un mondo con flussi così liberi da rendere molto più facili eventi come quello americano». (28 sett. 2001)
Oppure, per dirla con la franchezza di Baudrillard:
«La condanna morale, l'unione sacra contro il terrorismo, sono commisurate al giubilo prodigioso che nasce dal veder distruggere la superpotenza mondiale, meglio ancora, dal vederla autodistruggersi, suicidarsi in bellezza. Perché è lei, con la sua potenza insopportabile, ad aver fomentato questa violenza infusa in tutte le parti del mondo, e quindi anche quell'immaginazione terroristica (senza saperlo) che ci abita tutti». (Lo spirito del terrorismo, Milano 2002)
Sono parole che ci introducono in una dimensione spettacolare superiore a quella dello stesso terrorismo: è la dimensione del desiderio, dove tutto è possibile. Ma tale dimensione non può essere totalmente irreale, totalmente staccata dalla visione di un nuovo superiore ordinamento societario.
Ebbene, in tale dimensione, la distinzione tra lecito e illecito non ha ragione di esistere e quindi anche l'uomo della strada, oltre al potenziale terrorista, è libero di sognare che nell'era della globalizzazione si possa finalmente premere il pulsante decisivo: quello che farà esplodere tutte le torri del sistema capitalistico, dall'interno, senza che altre vite umane ne debbano pagare i costi.
Al risveglio si troverà un pianeta un po' peggiore di come lo si era immaginato e i detentori del potere sistemico un po' più forti di come li si era lasciati prima di compiere il gesto terroristico o di sognare di farlo.


L'articolo di Massari è incluso nel «Dossiê: imigração e xenofobia» (a cura di Luiz Bernardo Pericás), Revista Margem Esquerda nº 26/2016, pp. 27-33. La rivista è pubblicata a São Paulo, Brasile.

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