Al primo impatto ho trovato assai divertente l'idea per cui la decisione degli elettori britannici di uscire dall'Unione europea sarebbe un fatto «di sinistra». Pensandoci meglio, è semplicemente «tragica». Brevissime considerazioni.
1) Innanzitutto, è stata la xenofobia a determinare il successo del leave, del voto per lasciare l'Unione europea, per un margine non grande. La linea anti-migrazione, diretta non soltanto contro gli extracomunitari ma anche verso i cittadini europei, è stata condita, è vero, dalla demagogia antiplutocratica di destra e liberista nei confronti dei burocrati di Bruxelles e delle «banche». Non a caso si tratta di un successo elettorale che fa esultare la destra-destra e l'estrema destra europea, dal Front National alla Lega Nord ad Alba Dorata. Insomma, sul piano concreto e dei grandi numeri, la mobilitazione (elettorale) contro l'Ue si esprime con una forte connotazione nazionalista xenofoba, spesso ultraneoliberista.
2) Che si trattasse della tory Thatcher o del laburista Blair, in fatto di neoliberismo i governi britannici sono sempre stati più realisti del re: hanno considerato diverse normative europee troppo «di sinistra», facendo pressione per orientarle in senso più liberista. Il caso più chiaro è dato dal cosiddetto opting-out, cioè il diritto di non applicare decisioni dell'Unione, in particolare per quanto riguarda il «protocollo sociale» (per alcuni anni) e la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Nel negoziato tra Cameron e la Commissione europea, l'unico punto di sostanza ottenuto dal primo era la limitazione per quattro anni dei benefici per gli immigrati europei. E dunque, se proprio si vuol essere nazionalisti «di sinistra», la ragione per felicitarsi dell'uscita del Regno Unito dalla Ue è esattamente opposta a quella dominante su questo lato. Bisognerebbe dire, cioè, non che si tratta di un passo necessario per una politica sociale ed economica «popolare» e antiliberista ma che, così, ci si è finalmente liberati di uno Stato che da quasi quarant'anni si è sempre collocato sulla destra del panorama istituzionale dell'Unione, quale che fosse il partito di maggioranza.
3) I dati maggiori del referendum sono la vittoria non ampia del leave the Eu (per poco più di 1,2 milioni di votanti) e la chiarissima spaccatura geografica del voto. In Scozia il voto to remain ha raggiunto il 62%, vincente in tutte le circoscrizioni; in Irlanda del Nord il 56%. Il che obiettivamente crea una situazione imbarazzante per i nazionalisti «di sinistra», perché queste sono le due aree in cui l'aspirazione all'indipendenza dal Regno Unito è da sempre diffusa e intensa, specialmente in Irlanda del Nord dove, per decenni, si è espressa anche al livello della lotta armata. Eppure, il governo scozzese ha annunciato un secondo referendum per l'indipendenza, ma per restare nell'Unione europea; e il Sinn Féin, storico partito nazionalista irlandese e volto legale dell'Irish Republican Army, ha pure annunciato di voler lanciare un referendum per l'unificazione con l'Irlanda, implicitamente rientrando nella Ue. Nei distretti che hanno eletto deputati del Sinn Féin, il voto per restare nell'Unione ha raggiunto il 74% a Belfast West e il 60% in Mid Ulster. La conclusione paradossale è che in Scozia e in Irlanda del Nord l'essere membri dell'Ue è percepito come garanzia dei diritti nazionali, non il contrario. Si profila l'aggravarsi del conflitto fra nazionalismi dentro il Regno Unito.
4) Il leave the Eu ha vinto massicciamente nell'Inghilterra propriamente detta (60%) e in Galles (55,5%). Tuttavia ha perso, e non di poco, in tutte le maggiori città inglesi e gallesi: il voto per restare nell'Ue ha raggiunto il 60% nell'area metropolitana di Londra, a Manchester, Cardiff, Bristol; il 58% a Liverpool, Reading, York; ha pareggiato a Leeds e perso a Birmingham, ma col 49,6% dei voti validi. Mi è difficile pensare che l'elettorato politicamente meno cosciente si concentri proprio nella grandi città.
5) L'argomento spesso portato a supporto per l'uscita dall'Ue, e cioè che questa coincida con l'uscita dall'eurozona, non vale assolutamente nei confronti del Regno Unito, che ha mantenuto intatta la propria sovranità monetaria e che ospita la City, centro finanziario di rilevanza mondiale. I problemi sociali ed economici del Regno Unito non hanno dunque nulla a che fare con l'eurosistema; il Regno Unito non subisce alcuna imposizione da parte dei creditori internazionali, non è la Grecia. In effetti, mantenendo il ragionamento su un piano strettamente economico (e quindi abbastanza astratto), non ritengo che, oltre la bufera finanziaria di questi giorni, l'uscita dalla Ue comporti effetti catastrofici per l'economia britannica. Ma è vero che l'eventuale uscita dalla Ue, tanto più se gestita dalle forze politiche che hanno egemonizzato la campagna to leave, non potrebbe che aggravarli. Il Regno Unito attrae investimenti diretti
dall'estero e investimenti in titoli di Stato e azioni, ha un saldo attivo nell'esportazione di servizi ma ha un ampio deficit nel commercio di beni materiali. In altri termini, l'industria britannica è poco competitiva. La svalutazione della sterlina, già in atto, potrebbe forse alleviare il deficit commerciale nel breve termine, ma certamente non risolvere il problema strutturale dell'industria britannica.
In termini più concreti, bisognerà vedere come evolvono il quadro politico britannico e l'economia mondiale. Le prospettive di quest'ultima nei prossimi mesi non sono proprio rosee. Questa vittoria del leave potrebbe cadere durante una nuova recessione internazionale e, forse, vedremo, potrebbe essere anche uno dei suoi detonatori. In tal caso, tutto il negoziato per l'uscita dall'Ue potrebbe risentirne e, ovviamente, se il Regno Unito dovesse entrare in recessione, cosa possibile a prescindere dai risultati del referendum, sarebbe l'occasione buona per scaricarne la responsabilità sui sostenitori del leave e rompergli politicamente le ossa.
6) Tutti gli argomenti precedenti sono secondari rispetto al fatto che la campagna per uscire dall'Ue sposta l'orientamento politico della sinistra dalla lotta sociale contro i nemici interni alla battaglia contro le istituzioni europee, come se fossero queste il fattore determinante e originario dei problemi sociali. Non è così: l'Ue e la politica della Banca centrale europea esprimono tendenze già ampiamente affermatesi sul piano nazionale. Questo è vero per tutti i paesi europei ed è, se possibile, ancor più vero per il Regno Unito, lo Stato che nella persona di Margaret Thatcher è stato la punta avanzata del sedicente neoliberismo. Specialmente nel Regno Unito, non solo la linea del leave si rivolge contro i bersagli sbagliati, ma è dannosa perché divide gravemente gli stessi lavoratori e la gente comune del Regno Unito fra nazionalismi interni: gran parte (non tutti!) degli inglesi e dei gallesi contro la schiacciante maggioranza di scozzesi e irlandesi del Nord.
Con la vittoria del leave la prospettiva di un'opposizione ampia nel Regno Unito ha fatto almeno due passi indietro a favore della xenofobia, della demagogia antiplutocratica di destra e della divisione dei cittadini britannici secondo linee regionali.
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