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giovedì 14 gennaio 2016

L'ESECUZIONE DI AL-NIMR LEVA DELLA NUOVA STRATEGIA SAUDITA, di Andrea Vento (Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati)

L'Arabia Saudita fra crisi di bilancio, repressione interna e riposizionamento regionale

Barack Obama con re Salman, gennaio 2015
Lo scontro diplomatico in atto fra Arabia Saudita e Iran, acceso dall'esecuzione dell'imām sciita Nimr al-Nimr, sta alimentando pericolose tensioni nella martoriata regione mediorientale già lacerata dagli annosi conflitti interni in Iraq e Siria e dall'intervento militare saudita in Yemen, ai quali negli ultimi mesi si sono aggiunti ulteriori preoccupanti focolai: la ripresa della repressione della minoranza curda in Turchia da parte del regime islamista di Ankara, lo spontaneo avvio dell'intifada di Gerusalemme che ha riportato sulla ribalta internazionale l'irrisolta "questione palestinese" e il riacutizzarsi degli scontri fra Israele e Hezbollāh, già aspramente confrontatesi nella "Guerra dei 33 giorni" che insanguinò il Paese dei cedri nell'estate del 2006.
La situazione generale del Medio Oriente, peraltro caratterizzata a partire dall'inizio del XX secolo da una profonda instabilità e da frequenti conflitti, ha raggiunto a inizio 2016 un livello di drammaticità mai registrato in passato, anche in considerazione dell'acuirsi della frattura fra mondo sunnita e sciita, alimentato più dallo scontro fra Riyad e Teheran per l'egemonia regionale che da uno spontaneo movimento dal basso sorto all'interno delle due comunità.
Proviamo a mettere insieme alcuni elementi del complesso quadro etnico-religioso e delle dinamiche geopolitiche in atto per cercare di comprendere le motivazioni che possono aver spinto il regime degli al-Saud a giustiziare il popolare religioso.

Le tappe dell'escalation

Lo sceicco Nimr al-Nimr, esponente di primo piano del clero sciita locale, era stato ferito e arrestato dalla polizia l'8 luglio 2012 per aver guidato le proteste del 2011 e del 2012 della vessata minoranza sciita - circa il 15% della popolazione - che, in forma pacifica, chiedeva riforme economiche e nuove elezioni democratiche nell'ambito della primavera araba locale. Seppur condannato a morte il 15 ottobre 2014 con l'accusa «di intesa con governi stranieri, di aver disobbedito al governo e di aver impugnato le armi contro le forze dell'ordine», in modo imprevisto, il 2 gennaio 2016, viene giustiziato tramite decapitazione, incendiando le proteste della comunità religiosa di appartenenza, dell'Iran e dell'intera galassia sciita. L'escalation si è immediatamente materializzata tramite l'esplosione, dal Libano al Pakistan, di veementi proteste di piazza e dichiarazioni incendiarie da parte di politici e religiosi sciiti, degenerate nell'assalto all'ambasciata di Teheran e al Consolato generale di Mashhad, sedi diplomatiche saudite nella Repubblica islamica iraniana; fino ad arrivare, su iniziativa di Riyad, alla rottura delle relazioni diplomatiche fra le due potenze mediorientali e all'embargo commerciale introdotto dagli iraniani. Infine il governo saudita, allo scopo di aumentare la pressione internazionale su Teheran e di isolare le velate proteste statunitensi, ha cercato di innescare un solidale effetto domino sospingendo i suoi alleati sunniti - in ordine cronologico Emirati Arabi Uniti, Sudan, Somalia, Bahrein, Gibuti, Qatar e persino le isole Comore - a compiere analogo strappo diplomatico verso la Repubblica islamica, mentre il Kuwait al momento si è limitato al solo ritiro dell'ambasciatore.
Il comunicato del Consiglio di Sicurezza dell'Onu del 4 gennaio1, che non menziona l'esecuzione di al-Nimr e delle altre 46 persone giustiziate, limitandosi a condannare l'Iran per non aver difeso le sedi diplomatiche, è apparso a molti analisti sbilanciato a favore dei sauditi, probabilmente a seguito dell'opera diplomatica statunitense. Il suo contenuto, che si limita ad esprimere «profonda preoccupazione» e a richiedere alle autorità iraniane «di proteggere i beni consolari e diplomatici, oltre al personale», assieme alla disponibilità russa e cinese alla mediazione per una soluzione diplomatica della crisi, lascerebbe intendere una ritrovata posizione di forza dell'Arabia Saudita nel complesso scacchiere mediorientale.
In realtà la strategia di Riyad, in base ad alcuni documenti riservati, sembra essere stata preventivamente pianificata per distogliere l'attenzione dalla fase critica attraversata dal Regno Saudita, causata sia da fattori interni che internazionali.

I fattori di debolezza interni

In primis, Riyad si trova a fronteggiare la peggior crisi di bilancio della propria storia: re Salman ha da pochi giorni dichiarato che nel 2015 i conti dello Stato (Tabella 1) si sono chiusi con un passivo di 98 miliardi di dollari (pari al 15% del Pil), prevalentemente riconducibile alla riduzione delle quotazioni del greggio. Il Wti è infatti sceso, nel corso del 2015, da 53 a 37 dollari al barile e, addirittura, del 65% rispetto al picco di 107 dollari del luglio 2014. L'eccessiva dipendenza dell'economia saudita e dei suoi conti pubblici dall'oro nero, in una fase di calo tendenziale delle quotazioni, sta progressivamente emergendo come preoccupante fattore di debolezza economica. L'Arabia Saudita esporta 7 milioni di barili al giorno, i cui proventi rappresentano il 90% dell'export, il 73% delle entrate del bilancio statale e il 40% del Pil, situazione che ha spinto re Salman a preannunciare un cambio di strategia:
«Il regno è pronto ad attuare programmi per diversificare le fonti di introito e ridurre la dipendenza dal petrolio come principale fonte di proventi»2.
Allo stesso tempo il bilancio preventivo del 2016 contempla una riduzione delle spese statali del 14%, a danno dei sussidi per i ceti subalterni, e un aumento del 50% delle tariffe di benzina, acqua e corrente elettrica, mentre le spese militari continueranno ad assorbire circa il 25% del budget statale3, visto che le priorità degli al-Saud rimangono «la sicurezza e la lotta al terrorismo».

Tabella 1

A tal proposito, tuttavia, il governo di Riyad non può che recitare il mea culpa, accertato che sta subendo gli effetti negativi delle proprie strategie: in estate e in dicembre, per creare difficoltà finanziarie a Russia, Venezuela e allo stesso Iran e rendere antieconomica l'estrazione dello shale oil da parte degli Usa4, si è nettamente opposto alla proposta venezuelana e algerina di un taglio dell'estrazione del greggio da parte dell'Opec e, iniziando anche a venderne oltre la propria quota, ha finito per creare un eccesso di offerta che, in presenza di un rallentamento dell'economia cinese e della mancata ripresa europea, ha spinto al ribasso le quotazioni, facendole precipitare intorno alla soglia dei 30 dollari attuali. Un boomerang clamoroso che ha decretato di fatto anche la fine dell'Opec, almeno per la sua storica funzione. Il mercato mondiale del greggio, anche a seguito dell'immissione di shale oil statunitense, registra un surplus giornaliero di 2 milioni di barili che dovrebbe rimanere invariato almeno sino al prossimo vertice Opec di giugno. Intanto i sauditi, per uscire dall'impasse finanziario, hanno dichiarato che - per la prima volta - da gennaio 2016 si rivolgeranno al credito internazionale.

Una preoccupante politica di riarmo

Altri fattori di debolezza economico-finanziaria sono legati al fronte delle uscite. Dall'inizio del nuovo millennio la dinastia saudita sta attuando una decisa politica di riarmo; secondo il Military Balance 2015, report annuale dell'International Institute for Stategic Studies (IISS), nel corso degli ultimi dieci anni le spese militari di Riyad sono aumentate addirittura del 112%, raggiungendo nel 2014 gli 81 miliardi di dollari (10,4% del Pil), salendo al quarto posto a livello mondiale - dietro soltanto a Usa, Cina e Russia5. L'incremento esponenziale delle spese militari di Riyad è dettato dal timore che la dinastia saudita possa crollare a seguito di pressioni interne e dall'inasprirsi dello scontro a tutto campo con l'Iran, sia per l'egemonia regionale che per la leadership del mondo islamico fra componente sunnita e sciita.

Le nuove dinamiche regionali

Sul fronte internazionale la situazione non presenta migliori orizzonti. L'intervento militare saudita contro la minoranza sciita Houthi in Yemen, entrato ormai nel suo undicesimo mese, non solo non si è rapidamente risolto a favore di Riyad, ma si sta rivelando sempre più una sorta di pantano a causa della coriacea resistenza delle milizie sciite. Inoltre, secondo alcuni analisti, sino ad ora avrebbe assorbito rilevanti spese6, che hanno finito per gravare pesantemente sul bilancio statale. La guerra in Yemen, mediaticamente oscurata in Occidente, sta rivelando sempre più i suoi veri risvolti: una guerra per procura contro l'Iran, benché quest'ultimo sino a oggi non abbia fornito un deciso sostegno ai cosiddetti "ribelli Houthi", sollevatisi contro il governo filosaudita di Sana'a a causa della loro marginalizzazione sociale e politica. Le strategie regionali saudite contengono l'inequivocabile messaggio di non tollerare alcuna apertura verso le minoranze sciite, non solo al proprio interno, ma anche negli altri stati della Penisola arabica, tutti suoi stretti alleati.
L'accordo sul nucleare7 ha consentito all'Iran di riprendere le esportazioni di greggio ridando fiato alla propria economia, di riallacciare le relazioni con gli Stati Uniti e di uscire dall'isolamento in cui era da anni relegato, riacquisendo centralità geopolitica sia in ambito mediorientale che internazionale. Il nuovo protagonismo di Teheran è fortemente inviso a Riyad, che ha varato nuove strategie per contrastarlo: la creazione, insieme ad altri 33 paesi sunniti, della "coalizione anti-Isis"8, per controbilanciare l'appoggio politico e soprattutto militare iraniano alla Siria e all'Iraq nella lotta contro il sedicente "califfato", oltre a rivestire un ruolo di primo piano nella conferenza internazionale sulla Siria che si terrà a fine gennaio. Il ruolo di acerrimo avversario del governo alawita di Damasco ha tenuto sino a oggi lontano Riyad dal tavolo diplomatico, una posizione di debolezza da cui oggi cerca di svincolarsi, forse per il fine ultimo di far saltare il negoziato in funzione anti-Assad e a vantaggio della maggioranza sunnita della popolazione siriana. Il riavvicinamento fra Stati Uniti e Iran ha ridimensionato il ruolo saudita e in parte oscurato la storica alleanza con Washington, spingendo Riyad a compiere l'azzardo delle 47 esecuzioni per riaffermare il proprio ruolo di potenza regionale, battendo anche un colpo sul tavolo della Casa Bianca. Come ha ipotizzato Gabriele Iacovino, coordinatore degli analisti del Centro Studi Internazionali (Cesi):
«Dietro a questo gesto apparentemente inspiegabile c'è quindi la volontà dei sauditi di ricordare a Washington di essere sempre in grado destabilizzare l'area. Il loro è un avvertimento che lascia però trasparire una situazione di difficoltà».

Le inedite dinamiche del mercato petrolifero di inizio 2016

La crisi fra Arabia Saudita e Iran sembra delineare anche un inedito scenario nell'ambito del mercato petrolifero; mentre in passato le tensioni mediorientali producevano sistematici riflessi “rialzisti” sulle quotazione del greggio, le vicende attuali sembrerebbero non solo non aver influito, ma addirittura aver innescato una dinamica opposta: dal 2 gennaio, giorno dell'esecuzione di al-Nimr, il Wti è sceso, in dieci giorni, da 37 a 30 dollari al barile (-20%). Le vicende legate al Golfo Persico potrebbero quindi aver perso la centralità storica che hanno rivestito in passato a vantaggio di altri fattori economici, fra cui la crisi delle borse cinesi, sullo sfondo di un mercato del greggio che, per motivi geopolitici, è inondato da un eccesso di offerta che, secondo gli analisti, farà precipitare le quotazioni addirittura intorno ai 20 dollari nel corso di quest'anno. Se tali previsioni si concretizzeranno, è improbabile che il bilancio preventivo 2016 del Regno saudita (Tabella 2), stilato sulla base della quotazione del greggio a 29 dollari, possa essere rispettato, sforando il disavanzo prefissato di 87 miliardi di dollari nonostante i tagli alle spese sociali e gli aumenti delle tariffe delle forniture. Se lo scenario delineato troverà conferma, la casa saudita sarà costretta a fronteggiare nuove proteste sociali che inevitabilmente prenderanno corpo.

Tabella 2

Crisi delle entrate petrolifere: a rischio il patto sociale?

Sino al 2015 il governo saudita ha utilizzato la rendita petrolifera per sostenere le spese militari dei conflitti in cui è impegnata in prima persona (Yemen) e finanziare le milizie alleate in Iraq, Siria e Libia, oltre al regime di al-Sisi in Egitto, e per mantenere in piedi il consistente apparato pubblico. Negli equilibri interni quest'ultimo svolge in parte funzione sociale, garantendo generosamente l'occupazione dei cittadini di nazionalità saudita, non risultando invece accessibile ai numerosi immigrati asiatici, sfruttati come manovalanza sottopagata. I tagli ai sussidi e le ventilate privatizzazioni potrebbero incrinare il patto sociale fra monarchia e cittadini che fino a oggi ha mantenuto in vita il regno degli al-Saud.

Esecuzioni capitali: il triste primato mondiale

L'aumento delle esecuzioni capitali registrato nel 2015 va probabilmente interpretato come una stretta repressiva sul dissenso politico, sul malessere sociale e sulla richiesta di rispetto dei diritti dei cittadini. Secondo la Ong italiana Nessuno tocchi Caino, nell'anno appena concluso in Arabia Saudita sono state effettuate almeno 158 esecuzioni capitali, un triste record mondiale se rapportate al numero di abitanti. E il 2016 non è iniziato sotto migliori auspici, vista l'esecuzione dei 47 prigionieri del 2 gennaio, commentata dalla stessa Ong come «un fatto senza precedenti nella storia del Regno saudita, di per sé già mortifera e connotata dalla sistematica violazione delle norme di diritto internazionale, a partire dai processi gravemente iniqui, nel corso dei quali agli imputati spesso non è concesso di avere un avvocato e condanne a morte sono comminate a seguito di confessioni ottenute sotto tortura»9.

Arabia Saudita-Usa: s'incrina la storica alleanza?

Quali futuri scenari, interni e internazionali, caratterizzeranno l'Arabia Saudita non è semplice da prevedere, ma è probabile che continueranno a essere strettamente legati alla tipologia di relazioni che gli Stati Uniti, suo alleato strategico, decideranno di mantenere col Regno saudita, una monarchia assoluta che applica fedelmente la shari'a, reprime i diritti umani fondamentali e applica in modo spregiudicato la pena di morte. Un alleato di tutto rispetto per chi, come Washington, continua a ergersi a paladino internazionale della democrazia.
La continua evoluzione delle dinamiche geopolitiche e geoeconomiche getta, tuttavia, qualche ombra sulla solidità dell'alleanza saudita-statunitense, alla luce dell'autosufficienza petrolifera raggiunta da questi ultimi e dall'affermarsi di nuovi attori, Isis in primis, e delle inedite alleanze nello scacchiere mediorientale. Delineare scenari non è mai stata opera agevole nel complesso quadro del mondo arabo/islamico, a maggior ragione in questa fase di profonda instabilità e grandi mutamenti.

13 gennaio 2015


2 Salvo Ardizzone, «L'Arabia Saudita registra il deficit di bilancio più alto della sua storia», ilfarosulmondo.it, 7 gennaio 2016.
3 «Saudi Arabia unveils 2016 budget», Al Arabiya English, 28 dicembre 2015.
4 Il costo di estrazione dello shale oil Usa è compreso fra i 40 e i 50 dollari al barile.
5 Paola Cipriani e Raffaele Ricciardi (a cura di), «Armi, tutti i numeri di un commercio che vale quasi 1.800 miliardi di dollari», la Repubblica.it, 18 novembre 2015.
6 Secondo l'analista saudita Ali al-Hameed, fondatore del Golf Institute, le spese sostenute dall'Arabia Saudita per la guerra in Yemen sono stimabili fra gli 80 e i 100 miliardi di dollari.
7 Sottoscritto il 14 luglio 2015 dall'Iran e dal gruppo dei 5+1 (Usa, Regno Unito, Francia, Russia, Cina e Germania).
8 La "Nato sunnita", come qualcuno l'ha definita, comprende: Arabia Saudita, Bahrein, Bangladesh, Benin, Ciad, Comore, Gibuti, Egitto, Gabon, Guinea, Costa d'Avorio, Giordania, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Maldive, Mali, Marocco, Mauritania, Niger, Nigeria, Pakistan, Palestina, Qatar, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Sudan, Togo, Tunisia, Turchia, Emirati Arabi Uniti e Yemen. Ne sono esclusi l'Iran e l'Iraq, i due paesi mediorientali con governi sciiti.

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