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martedì 12 gennaio 2016

«LA GRANDE MENZOGNA» (V. Gigante, L. Kocci e S. Tanzarella, 2015), di Antonio Marchi

1915-2015: raccontare la Storia per contrastare chi continua a celebrare l'orrore della Grande Guerra

«Sono trascorsi 100 anni dall'inizio della I guerra mondiale, tutti i protagonisti di quegli anni - vittime e carnefici - sono morti, ma non è morta né la retorica, né la mistificazione, né la menzogna che pretende di ricordare e celebrare, oggi come allora, la catastrofe di quegli anni.
Celebrazioni che ancora tacciono sulle colpe di politici come Antonio Salandra e Sidney Sonnino che vollero quella guerra e di generali come Luigi Cadorna, Luigi Capello e Antonio Cantore responsabili, con molti alti ufficiali, di aver mandato a morire centinaia di migliaia di soldati in inutili assalti».
Sarebbero sufficienti queste poche righe per chiudere il libro e aprire il dibattito (è già tutto chiaro), ma per saziarsi della sua narrazione bisogna comprarlo, sfogliarlo e leggerlo.
Dopo una tale premessa, oltre alle espressioni di caldo apprezzamento per gli autori - in particolare Sergio Tanzarella - non potrei aggiungere altro se non per confermare quelle impressioni e quel medesimo giudizio. Mi limito così ad alcune semplici osservazioni provocate dalla lettura di un volume di tale "ricchezza".
Tanzarella si rivela narratore di tipo straordinario, scrittore civile che abbraccia lo strazio, il dolore e il disastro economico che quella grande carneficina produsse fra le popolazioni inermi, le famiglie, la società italiana. Non sono soltanto storie drammatiche di soldati in trincea o nelle retrovie, di esaltazione d'eroismo, di sopraffazioni, di decimazioni eseguite contro chi esitava a lanciarsi all'assalto del nemico, di plotoni di esecuzione, di cappellani militari che benedicevano le armi e intonavano il Te Deum di ringraziamento per le stragi perpetrate nei confronti del nemico (nonostante l'impegno contro la guerra di papa Benedetto XV, sono 25.000 i preti e religiosi chiamati alle armi), dello strazio del dopoguerra dei prigionieri italiani, considerati vili, imboscati e disertori… ma sono anche - e sopratutto - vicende di dolore e rabbiosa, forte e documentata denuncia contro generali assassini come Cadorna e Graziani, nelle lettere dei soldati scampate alla censura: testi drammatici, anonimi, minacciosi e di viva protesta indirizzate al "Re soldato" Vittorio Emanuele III; contro l'inutile strage e chi la provocò con le sue decisioni, contro i politici… così sfatando la retorica celebrativa, truffaldina e mistica secondo cui la guerra ebbe il consenso delle masse popolari e fu occasione di rigenerazione nazionale e unificazione civile del paese.

«L'ORRORE NON ANDREBBE MAI CELEBRATO, MA RICONOSCIUTO, RICORDATO E CONDANNATO».

Nel libro si ristabilisce, con un linguaggio semplice e adeguato a qualsiasi lettore, una verità che è stata a lungo sepolta, umiliata e oscurata. È una lingua insolita che fa insolito il linguaggio, che sorprende, sbalordisce e lascia la mente muta: la morte dei 650.000 italiani, i 500.000 feriti gravi, i 600.000 prigionieri abbandonati al loro destino - senza aiuti e assistenza - perché considerati disertori e codardi (come fossero stati colpevoli di essere sopravvissuti al massacro), i 5 milioni di italiani sottoposti a una prova inutile e, a volte, mortale, le ruberie di industriali e corpi militari, i lutti, le torture, le devastazioni e la baggianata finale sul tricolore come elemento di una coesione nazionale ignobilmente fondata sull'onore patriottico della vittoria.
Ma tutto ciò presto si spegne di fronte alla nuova oscenità che si affaccia nell'ipocrita omaggio sacrale al soldato ignorato, al Milite Ignoto, senza nome, senza voce e senza stampa: il fascismo se ne impadronisce, autoproclamandosi erede e garante della nuova Italia sorta «dall'affratellamento nelle trincee». I monumenti, veri simulacri di propaganda sciovinista e nazional-fascista, danno un appoggio alle passioni frustrate, alle illusioni, al vuoto di un popolo che celebra il rito più importante della religione di una patria costruita sul sangue dei caduti, rappresentati simbolicamente da un unico soldato. Scriveva James Hillman:
«La memoria della inumanità della guerra non sbiadisce con il tempo. Aleggia con i suoi fantasmi. È possibile seppellire mai completamente i morti?».

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