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venerdì 29 gennaio 2016

Giorni della Memoria: IL FASCISMO OGGI, di Roberto Massari

Dopo l'articolo sul Gulag e per contribuire ulteriormente alla riflessione dei lettori in queste giornate dedicate alla memoria della Shoah - che per noi significa denuncia e riflessione su tutti i genocidi, grandi o piccoli, su tutti i crimini contro l'umanità commessi nel corso del secolo precedente, ma anche nell'attuale - pubblichiamo questo vecchio testo di Massari, scritto nel 1994 come introduzione alla nuova edizione del celebre libro di Daniel Guérin Fascismo e gran capitale. Il lettore dovrà solo sostituire qualche data e il nome di qualche organizzazione politica e vedrà che il discorso di Massari sul «piccolo uomo comune represso» conserva intatta, purtroppo, la sua attualità. Anzi, si va estendendo, coinvolgendo ambienti e personalità politiche che un tempo si sarebbero dette «di sinistra». [la Redazione]

a mio nonno materno
Otello di Peppe D'Alcide
falegname ebanista
amante della lirica
e di filosofia orientale
militante comunista
torturato a via Tasso
imprigionato a Regina Coeli
assassinato alle Fosse Ardeatine

Una squadra fascista durante la marcia su Roma
È il testo più celebre di Daniel Guérin, comunista libertario, antifascista, antistalinista e anticonformista, sopravvissuto alle demoralizzazioni del dopoguerra, imbevuto di cultura rivoluzionaria - dall'arte al sesso, dall'economia alla storia - schierato con i neri antillani e con quelli nordamericani, con il popolo algerino contro la madrepatria coloniale, dalla parte dei giovani, del Maggio francese e del movimento della sinistra rivoluzionaria di quegli anni, internazionalista e cosmopolita, diffusore del pensiero di Reich in Francia e del marxisme libertaire (termine da lui coniato) ovunque, difensore degli omosessuali, degli immigrati, dei diversi, antistatalista e antirazzista fino alla morte.
Emblema della cultura radicale di questo morente ventesimo secolo.

Personalmente considero un privilegio aver potuto conoscere Guérin a Parigi nei primi anni '70, quando - entrambi nella redazione di Autogestion et socialisme - ci trovammo a collaborare nella diffusione di studi e ricerche sulla democrazia diretta: era il filo conduttore di quella rivista ed era il problema dei problemi all'indomani della grande ascesa rivoluzionaria verificatasi in Francia, in Europa e nel mondo.
Guérin ci ha lasciato qualche anno fa e la democrazia diretta continua ad essere il problema dei problemi, anche se c'è sempre chi s'illude di averlo definitivamente sepolto.
Questo libro fa rivivere entrambi.

La definizione «classica» del fascismo

Cosa fu dunque il fascismo, in termini sintetici ed essenziali? Quali connotati lo caratterizzarono, trasformandolo da fenomeno politico contingente in una categoria d'interpretazione storica, talmente «forte» da avercene fatto parlare ininterrottamente nei decenni successivi alla sua caduta e da farci paventare oggi un suo ritorno sotto mentite spoglie?

Al IV congresso del Comintern (novembre 1922), riunito pochi giorni dopo il trionfo della Marcia su Roma, il presidente in carica Zinov'ev rispose alle domande di cui sopra negando ogni specificità al fenomeno italiano, vedendovi solo l'antesignano di una serie di governi autoritari in corso di assestamento e arrivando a prevedere un'estensione di tale forma reazionaria all'intera Europa (in mancanza ovviamente di una valida risposta da parte del movimento operaio).
E mentre Radek poneva maggiore enfasi sullo stato di prostrazione delle classi lavoratrici, Trotsky contestava l'idea della generalizzazione fascista, prevedendo al contrario il ricorso a regimi di «kerenskismo», di alleanza cioè tra i settori più avanzati del capitale e le organizzazioni del riformismo (socialdemocratici e laburisti).
Nel decennio successivo a quel congresso dell'Ic - l'ultimo prima che Stalin prendesse il sopravvento sul vecchio gruppo dirigente bolscevico e sul Comintern nel suo complesso - vi fu una sottovalutazione della problematica del fascismo, alla luce anche del fatto che in paesi come la Francia, la Gran Bretagna, la Svezia, la Danimarca e la stessa Germania si era verificata l'ipotesi dell'interludio democratico anticipata da Trotsky1. La definizione standard del fascismo divenne quella di «movimento reazionario di massa», sottintendendone il carattere di classe borghese, ma considerandone praticamente il seguito piccolo-borghese come un accidente storico, inevitabile in assenza di una decisa politica di classe da parte del proletariato.
Nel coro delle semplificazioni demagogiche, uniche voci dotate di un minimo di qualità e originalità furono quelle di Karl Radek e di Clara Zetkin.
Quest'ultima in particolare aveva messo in guardia fin dal 1923 sulla natura composita e contraddittoria del seguito di massa del fascismo2. La guerra, la miseria, i processi congiunti di declino dell'economia capitalistica e di decomposizione del suo apparato statale concorrevano ad aggravare i processi di proletarizzazione dei ceti medi, dei piccoli contadini, degli intellettuali. Costoro, «alla ricerca di nuove possibilità di esistenza, di un lavoro stabile e di una posizione sociale garantita», andavano ad aggiungersi all'esercito di disoccupati generato dalla guerra nelle file degli ex combattenti e del proletariato industriale. La delusione delle loro aspettative di un cambio sociale radicale spingeva questi settori di uomini e donne nelle braccia della mistica nazionalistica e di un ideale comunitario incarnato dallo Stato forte fascista, in assenza dell'ideale comunistico incarnato da un proletariato politicamente organizzato e combattivo.
Ugualmente attenta agli orientamenti della piccola-borghesia - da non lasciare in blocco all'avversario fascista e da non considerare perduta, in quanto semplice massa di manovra della reazione borghese - era l'analisi di Karl Radek. Ma questi verrà espulso nеl 1927, poi riammesso dopo aver capitolato a Stalin e infine definitivamente liquidato con il grande processo del 1937.
Oltre che sul seguito di massa del fascismo, l'analisi di quegli anni si centrò anche sulle caratteristiche del movimento politico, dello Stato fascista e delle sue nuove istituzioni. Si può ricordare l'analisi di August Thalheimer (oppositore di «destra», eliminato dalla direzione blanderiana del Kpd nel 1924). Nella ricerca di un equilibrio di classe tra borghesia e proletariato, lo Stato fascista verrebbe ad assumere un ruolo bonapartistico. Ciò gli conferirebbe un'autonomia relativa in quanto Stato rispetto alle esigenze delle classi dominanti e alla dinamica del conflitto di classe: il fascismo sarebbe stato quindi, per Thalheimer, «una forma particolare di bonapartismo»3.
Sulla stessa scia l'analisi di Gramsci che, negando la possibilità del permanere di un equilibrio, ma affermando al contrario l'inevitabilità di una crisi politica di carattere risolutivo, arriva a concepire il ruolo dello Stato autoritario in termini di cesarismo. Tale fenomeno sorgerebbe nella ricerca di un nuovo equilibrio alla conclusione di una crisi politica catastrofale, foriera a sua volta di un ruolo di autonomia relativa dell'apparato statale borghese nei confronti della classe egemone: il fascismo sarebbe un caso specifico di «cesarismo». Va ricordato comunque che Gramsci in carcere rifiuterà nettamente la caratterizzazione dei socialisti e degli ex aventiniani come «socialfascisti»4.
All'orizzonte si delinea il nazismo. Nell'Ic ormai non esiste più alcun margine di dibattito e quando Stalin emana la direttiva internazionale della «svolta», ai partiti comunisti non resta che applicarla. La teoria del socialfascismo si fonda su una presunta imminenza della rivoluzione proletaria, sul carattere definitivo e catastrofale della crisi del capitalismo, sulla trasformazione del carattere di classe della socialdemocrazia e sull'inevitabile radicalizzazione dello scontro su scala mondiale (il famigerato «classe contro classe»). In Germania il Kpd rifiuta testardamente il fronte unico con i socialisti e Hitler si trova la strada spalancata per la conquista legale del potere. In Russia la «svolta» copre invece la dekulakizzazione, vale a dire lo sterminio di milioni di contadini recalcitranti, la deportazione di intere popolazioni, l'inizio dell'eliminazione fisica di pressoché tutta la vecchia guardia bolscevica. Un orizzonte nero.
La vittoria del nazismo tedesco, da Trotsky prevista e abbondantemente analizzata, gli consente di formulare una definizione più esauriente del fenomeno fascista:
«Il movimento fascista in Italia è stato un movimento spontaneo di larghe masse, con nuovi leader provenienti dalle sue file. È stato un movimento popolare alle origini, diretto e finanziato dai maggiori capitalisti. È nato tra la piccola-borghesia, il sottoproletariato e anche, per certi aspetti, dalle masse proletarie; Mussolini, un ex socialista, è un uomo "che si è fatto da sé", un prodotto di questo movimento…
Il movimento in Germania è analogo soprattutto a quello italiano. È un movimento di massa, con dirigenti propri, che usano molta demagogia socialista. Ciò è necessario per la creazione di un movimento di massa. La vera base [del fascismo] è la piccola borghesia. In Italia esso ha una base molto ampia - la piccola borghesia delle città e delle campagne. Anche in Germania c'è una larga base per il fascismo…»5.
Il fascismo rappresenterebbe quindi la realizzazione di un processo autoritario del grande capitale6, possibile solo per il fatto che questi è riuscito, nel corso del suo moderno sviluppo, a mettere radici nel ceto medio, a conquistarne il consenso, a finalizzarne la capacità di mobilitazione, ma anche a fargli «svolgere il ruolo di autentica forza sociale», permettendogli di comparire «sulla scena politica, in modo relativamente autonomo e con un peso politico specifico».
Di qui la definizione più matura del fascismo come prodotto storico di due processi convergenti: a) l'abbandono da parte del grande capitale della fiducia nelle capacità di contenimento della lotta di classe nelle panie dello Stato democratico (autoritarismo, passaggio allo «Stato forte» ecc.) e b) la radicalizzazione dei ceti medi deviata dal solco storico fondamentale del programma operaio.
Vi è una duplicità di ruolo nella radicalizzazione dei ceti medi. Questi possono garantire il proprio appoggio alla soluzione della crisi strutturale del capitale, sia «democraticamente» (facendo da tramite per la conquista di quel consenso da parte di milioni di operai che, attraverso il riformismo, viene garantito alla grande borghesia), sia col fascismo.
Da questa analisi Trotsky deduceva anche l'inevitabilità del Secondo conflitto mondiale, quale sbocco logico dell'acuirsi delle contraddizioni interimperialistiche provocato dal rafforzamento dei regimi fascisti a scapito delle «democrazie» occidentali. Egli anticipava i termini del futuro grande massacro di quasi un decennio, ma non poteva immaginare che alla conclusione del conflitto mondiale le borghesie dei principali paesi imperialistici avrebbero continuato a dominare la vita economica e sociale del pianeta in condizioni di egemonia sostanzialmente immutate.
Evidentemente, anche nelle migliori analisi del movimento marxista mancava un qualche elemento essenziale che non fosse riducibile sic et simpliciter alla dinamica tra le classi e al ruolo delle istituzioni.

Il «piccolo uomo comune represso»

Mancava la comprensione della dinamica conflittuale che i meccanismi della repressione sociale (sessuale) generano all'interno della struttura caratteriale umana. Mancava la proiezione dinamica, a livello di comportamenti sociali, del reciproco contrapporsi di pulsioni biologiche dell'individuo e della loro deviazione ad opera dei meccanismi autoritari della civiltà («civilizzazione», ma anche «cultura» dominante).
Eppure non mancavano gli strumenti per compiere tale analisi, visto che gli anni di crescita dei fascismi erano stati anche gli anni di diffusione e rafforzamento del patrimonio teorico freudiano. Né mancò una sintesi brillante del primo incontro - ingenuo quanto si vuole, ma entusiastico - tra psicoanalisi e sociologia marxista. Semplicemente quell'analisi, osteggiata dagli stessi meccanismi pulsionali sessuonegativi che essa intendeva smascherare, fu relegata al contributo di uno solo tra gli psicoanalisti creativi della scuola freudiana - Wilhelm Reich - e ai circoli molto ristretti che al suo pensiero si rifecero prima della Seconda guerra mondiale (Sexpol).
Divenuta veramente nota solo dopo l'edizione inglese del 1946, Psicologia di massa del fascismo (terminato a settembre del 1933) partiva dalla constatazione, ricavata in sede di ricerca clinica e di terapia medica, che il «fascismo» non fosse altro che «l'espressione politicamente organizzata della struttura caratteriale umana media»:
«Secondo il significato caratteriale il "fascismo" è l'atteggiamento emozionale fondamentale dell'uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine e dalla sua concezione meccanicistico-mistica della vita. Il carattere meccanicistico-mistico degli uomini del nostro tempo crea i panni fascisti e non viceversa»7.
Il semplicismo sconcertante di formulazioni come quella appena citata può lasciare perplesso il lettore odierno. Ma non si dimentichi che Reich aveva fatto tesoro del dibattito sul fascismo che aveva animato per una prima fase il Comintern e poi, dopo la vittoria del nazismo, le correnti «classiche» dell'estrema sinistra europea. In particolare egli dava per scontata la definizione del fascismo come fondato sulla mobilitazione spontanea dei ceti medi, della piccola-borghesia e ampi settori delle masse popolari, nеl quadro di un rafforzamento delle strutture autoritarie dello Stato borghese. Insomma, la definizione di cui si è detto.
Ma di suo aggiungeva una riflessione sul fenomeno nuovo e apparentemente incomprensibile per il quale il movimento fascista, a differenza di tutti gli altri movimenti reazionari della storia, «viеnе sostenuto e diffuso dalle masse umane». Evidentemente, proseguiva la riflessione di Reich, in questo suo essere sorretto fondamentalmente da masse umane il fascismo deve in qualche modo tradire i tratti e le contraddizioni della struttura caratteriale di quelle stesse masse umane, deve dimostrare nelle sue manifestazioni politiche di non essere un movimento puramente reazionario, ma un «amalgama tra emozioni ribelli e idee sociali reazionarie»:
«La ribellione fascista nasce sempre là dove un'emozione rivoluzionaria viene trasformata in illusione per paura della verità» (ibid.).
Questa fuga dalla realtà angosciosa di un mondo psichico paralizzato dal blocco delle pulsioni si traduce in un più generale atteggiamento irrazionale nei confronti della realtà stessa. Si sostituiscono i destinatari di quelle pulsioni, si deviano gli impulsi vitali, si ricercano valvole di sfogo alternative per accumuli di tensione libidica che altrimenti si risolverebbero in malattia per l'individuo stesso.
Tipico è il caso della psicopatologia da razza, che ritrova oggi una sua attualità. Da un lato, c'è il razzismo del piccolo o grande proprietario, che deve difendere i privilegi acquisiti in colonia o nella metropoli imperiale, che risponde a determinati connotati di classe: esso si può spiegare con un'analisi per l'appunto di classe. Ma c'è poi il razzismo prodotto dalla perversione di istinti biologici naturali, da turbe emotive non altrimenti controllabili, da motivazioni psicologiche ormai sconfinate nel mondo dell'irrazionalità.
Questo tipo di razzismo non si identifica più meccanicamente con gli interessi materiali del colonialista, piccolo o grande che sia: è la proiezione sul colonizzato di pulsioni deviate non altrimenti accettabili, classificate da Freud tra le pulsioni di morte, e riprese invece in tempi più recenti da Frantz Fanon come vere e proprie psicopatologie da bisogno di dominio, di autoaffermazione ecc. Il razzista entra così ufficialmente nella categoria dei casi clinici, dopo essere stato variamente cantato e celebrato nella più trita retorica del fascismo «fondatore d'imperi». Ancora secondo Reich,
«L'ideologia razziale è una tipica espressione caratteriale biopatica dell'uomo orgasticamente impotente».
Concetti analoghi possono valere nell'esame del rapporto del fascismo con la religione, dove il connotato masochistico tradizionale della sottomissione all'autorità si perverte nel suo contrario, nel sadismo della celebrazione rituale, sacrificale, del ritorno alle cerimonie cruente del primevo patriarcato, nella forma più o meno accentuata della mistica fascista. Un misticismo che apre la porta a tutto un prontuario di diagnosi sessuofobiche, quali il lettore può anche facilmente immaginare, appena si cominci a parlare del mito della forza maschile, della virilità, della prolificità femminile, del sangue, della purezza della stirpe.
Temi che si ritrovano nella pubblicistica dei movimenti fascisti o nazisti attuali e che possono portare facilmente alla conclusione che niente sia cambiato sotto il sole: l'irrazionalismo sessuofobico è quello di sempre e casomai si sono solo raffinate nel trascorrere dei decenni le forme di camuffamento di questi istinti irrazionali, di questi «fiori del male» prodotti diretti dell'impotenza orgastica. In realtà i contesti cambiano e anche le valenze di determinati simboli.
Erre emme edizioni, 1994
Si pensi un istante alla questione della «purezza del sangue» in un'epoca contrassegnata dall'angoscia da Aids. Nell'era dell'universalizzazione della Sindrome da immunodeficienza acquisita, l'istinto sadico che anima l'ideologia dell'«igiene sanitaria» fascista non può che aggravare l'opposizione tradizionale al già tanto aborrito cosmopolitismo, provocando una ricaduta in termini di più rigido nazionalismo (razzista, xenofobo, antisemita ecc.). Sessuofobie convertite in razzismo, impotenza orgastica convertita in misticismo, angoscia da Aids convertita in riti simbolici di iniziazione cruenta: ecco ancor oggi gli elementi costitutivi del modello reichiano del piccolo uomo comune represso. Ma ecco anche dei canali disponibili per esprimere la rabbia e la carica di ribellione ingenerate dalle frustrazioni della società industriale moderna, le culture pseudometropolitane ecc.: e questo perché il piccolo uomo nel frattempo non è cresciuto, non è riuscito cioè a trovare canali naturali e diretti per l'espressione dei propri istinti vitali, delle proprie pulsioni biologiche.
Il nazionalismo veterofascista riusciva a fondere insieme una serie di risposte in grado di appagare le manifestazioni più vistose di questi istinti pulsionali pervertiti e deviati: vi concorreva infatti il razzismo della delimitazione dall'altro (meglio se africano, di colore o primitivo), il sadismo da attrazione sessuale inappagata («faccetta nera», le «scoregge del Negus» ecc.), la volontà di potenza, il culto dell'eroe-condottiero coloniale, il misticismo della cultura esotica.
Oggi quel tipo di nazionalismo non funziona più. Anche i «fascisti» attuali - vale a dire coloro che tali si autodefiniscono, più o meno fondatamente - vanno in vacanza ai Caraibi, frequentano corsi di macrobiotica o fanno la fortuna delle case editrici specializzate in esoterismo (tanto per evocare dei tipi culturali, ancor prima che caratteriali)8. Ebbene, la società dei consumi fagocita tutto ciò nеl momento stesso in cui tratta queste prestazioni irrazionalistiche alla pari di merci come le altre. Le «razionalizza» in un certo senso e quindi le sottrae alla dimensione mistico-escatologica con cui le avrebbe vissute un seguace dello Zarathustra nietzschiano più di mezzo secolo fa.
E infatti, la dimensione culturale della ricerca di un oggetto di sublimazione sessuofobica per le pulsioni biologiche più incontrollabili si esercita oggi su tutt'altro piano. Un piano per il quale fondamentale diventa il connotato della ripetitività (di contro alla vecchia presunta «irripetibilità» dell'atto eroico), della riproduzione seriale (di contro alla vecchia mitologia della «irriducibilità dell'Ego»), della massificazione standardizzata (di contro alla vecchia assolutezza «avanguardistica», «nietzschiana» ecc). In parole povere, sono cambiati i meccanismi produttivi e riproduttivi del «piccolo uomo comune represso», in accordo a mutamenti intervenuti nella struttura sociale del capitalismo, della mercificazione delle sue manifestazioni ideologiche, della sua trasmissione di valori sessuofobici «dominanti». Vi torneremo tra breve.

La «ribellione» delle masse

«La mentalità fascista è la mentalità dell'"uomo della strada" mediocre, soggiogato, smanioso di sottomettersi a un'autorità e allo stesso tempo ribelle… Questo piccolo borghese ha copiato fin troppo bene il comportamento del grande e lo riproduce in modo deformato e ingigantito. Il fascista è il sergente del gigantesco esercito della nostra civiltà profondamente malata e altamente industrializzata. Non si può far vedere impunemente all'uomo comune il grande tam tam dell'alta politica» (Reich, op. cit., p. 12).
Che le masse intervenissero apertamente e fattivamente sulla scena politica italiana - interrompendo una stasi protrattasi, con brevi eccezioni, dalla fine del Risorgimento - parve un fatto estremamente positivo agli inizi di questo secolo. E come tale fu salutato da tutta la sinistra, compresi futuri fascisti come il socialista Benito Mussolini, i sindacalisti «rivoluzionari» Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, il padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti.
Per giunta erano masse giovanili, imbevute di spirito di rivalsa verso le dominanti forze liberali e monarchiche, insoddisfatte del ruolo marginale che la politica postunitaria aveva loro assegnate e defraudate nelle loro speranze di promozione sociale. Era certo di valenza positiva - da qualunque punto lo si guardasse - il fatto che centinaia di migliaia di giovani chiedessero di agire, di attivarsi, di essere mobilitati per un risveglio generale delle coscienze e una crisi definitiva del vecchio assetto liberaldemocratico. E poiché l'intervento in guerra, a fianco dell'Intesa e rivolto a completare il Risorgimento «tradito», offrì uno sbocco immediato e dinamizzante a quell'entusiasmo giovanile, il movimento interventistico capitalizzò quel ricco potenziale di intelligenze e coscienze9.
Venne poi l'esaltazione del grande conflitto europeo, cui fece seguito la disillusione economica del dopoguerra. Poi l'impresa fiumana. Il combattentismo come categoria politico-culturale: l'opposizione confusa ma decisa a tutto ciò che sapesse di vecchio regime, di vecchi compromessi, di difesa dell'esistente. Infine, l'irruzione massiccia sulla scena degli operai del nord, sindacalizzati, qualificati, politicizzati. Ma era troppo tardi. L'avanguardismo, il combattentismo giovanile aveva già intrapreso altri sentieri e si stava costruendo i propri Fasci di combattimento. Il movimento operaio aveva perso un'occasione storica e il primo accedere delle masse giovanili sulla scena politica italiana di questo secolo si trasformava nell'esatta negazione degli ideali originariamente mobilitatori. La ribellione delle masse aveva mancato il suo primo appuntamento con la storia.

La rebelión de las masas di José Ortega y Gasset vide la luce nel 1930. Fotografava l'afflusso pletorico delle masse nella società industriale moderna e se ne ritraeva inorridita. Come già Reich, anche Ortega y Gasset si rifiutava di ridurre le masse a «masse operaie», ma le vedeva piuttosto come «moltitudini», composte di «uomini medi», di medietà sociali. Accusato più o meno giustificatamente di elitarismo - per lo spazio che assegnava alle «minoranze elette, qualificate» - Ortega y Gasset offrì tuttavia un'immagine empiricamente accettabile e sociologicamente accurata della dinamica in cui i movimenti di massa venivano a trovarsi inseriti nella società della produzione di massa, la società del capitalismo industriale sviluppato, la società della produzione di beni di consumo di massa. Non parlava molto di sistemi politici, il brillante studioso spagnolo, ma dei principali movimenti della sua epoca. «Iperdemocratici» li definiva in blocco (secondo una sua personale e liberale concezione della democrazia), ma non poteva avere sotto gli occhi altro che il movimento fascista italiano quando affermava:
«Il fatto caratteristico del momento è che l'anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l'audacia d'affermare il diritto della volgarità e lo impone dovunque»10.
Molti videro in quel libro una giustificazione dell'avanguardismo fascista nеl suo disprezzo per le masse. Ma esso conteneva invece la prima sistematica disamina del sistema totalitario moderno, fondato per l'appunto sulla mobilitazione reazionaria delle masse. Esso chiamava direttamente in causa, tra gli altri, il sindacalismo e il fascismo (р. 63), oltre allo stalinismo (p. 81), accusandoli d'essere fattori di regresso, degli ostacoli sulla strada dell'umanità verso una sua crescente evoluzione qualitativa.
Il nazismo doveva vincere in Germania tre anni dopo la pubblicazione del libro di Ortega y Gasset, ma il significato più autentico della sua critica premonitrice si sarebbe capito all'indomani della guerra, nel clima febbrile della ricostruzione economica capitalistica, nell'avvento livellatore della società dei consumi, dei consumi di massa per l'appunto…
«L'uomo massa attuale è, effettivamente, un primitivo, che dalle quinte è scivolato sul palcoscenico della civiltà…
Ci sarà chi si sente più sorpreso per altri sintomi di barbarie emergente che, essendo di natura positiva, di azione e non di omissione, saltano di più agli occhi e si concretano come spettacolo…» (pp. 71 e 75, corsivo nostro).
Si apriva l'era dello spettacolo… l'era che stiamo vivendo.
Dalla Spagna radicale di Ortega y Gasset si deve volare in Germania per trovare un proseguimento di quella riflessione sul totalitarismo della società di massa, visto agli inizi nelle sue varie manifestazioni sul piano caratteriale, artistico, economico, ludico. E poi nell'esilio statunitense. È il gruppo di studiosi, marxisti e non, che verrà in seguito conosciuto come «Scuola di Francoforte». In quel contesto culturale verrà prodotta la prima ricerca sociologica moderna - dopo Reich - sull'apporto della costituzione caratteriale dell'individuo-massa nella sua adesione all'ideologia fascista11.
Herbert Marcuse inizia fin dal 193412 la sua battaglia solitaria contro le interpretazioni proposte dall'antifascismo democratico, chiaramente interessate a riabilitare i vecchi regimi liberali.
È una battaglia controcorrente e di non poco conto, che si alimenta della ricchezza di ricerche collaterali che il vecchio gruppo francofortese può condurre nell'esilio e soprattutto di un nuovo apparato critico-interpretativo, fatto di marxismo e psicoanalisi, di approdi più recenti della sociologia nordamericana e di riflessione sui dati empirici tratti dalle esperienze dei regimi autoritari in corso.
Nasce in tal modo la categoria del totalitarismo, vecchia nel nome, ma densa di nuovi significati. Marcuse la tesserà e riempirà di contenuti negli anni del dopoguerra, consegnandola nelle sue formulazioni più mature alle avanguardie studentesche degli anni '60, alla generazione che per comodità si usa definire «del '68».
Lì l'abbiamo raccolta, e lì ci riallacciamo a nostra volta per completare il discorso su cosa debba intendersi per «fascismo» oggi, in rapporto alla dimensione totalizzantе del potere capitalistico nell'era attuale, versione moderna di quell'intreccio tra a) azione autoritaria dello Stato borghese e b) mobilitazione reazionaria, determinata da bisogni insopprimibili delle masse, ma canalizzata nell'alveo della conservazione del sistema vigente di rapporti sociali di produzione.
Fili connettivi di tale connubio e premesse di una potenziale mobilitazione reazionaria di massa in sua difesa sono le categorie operative del moderno totalitarismo di massa: conformismo, assuefazione, standаrdizzazione e rеifiсaziоnе dei comportamenti, paura del cambiamento, sessuofobia (permissiva), culto della personalità carismatica, mutilazione delle capacità fantasmatiche, autosublimazione repressiva - per usare ancora una volta un termine caro a quello stesso Marcuse che ci ha fornito l'immagine più completa della struttura caratteriale dell'individuo-massa moderno ne L'uomo a una dimensione.
In questi tratti si cela, a nostro avviso, l'essenza del fascismo moderno, non «figlio», ma nipote naturale del fascismo prebellico.

La dittatura della spettacolarizzazione di massa

Il fascismo mussoliniano si garantì due strumenti istituzionali per la conquista e il mantenimento del potere, che trovano delle forti analogie con comportamenti recenti della nuova destra al potere in Italia e con quella di altri paesi. Ve ne sarebbe una terza - la ricerca di consenso da parte della monarchia - oggi irripetibile perché anacronistica, mentre rimane pienamente valida la ricerca di un riconoscimento morale da parte della Chiesa cattolica.
I due strumenti, comunque, sono facili da individuare. In primo luogo - a luglio del 1923 - il mutamento del sistema elettorale in senso maggioritario, con premi di rappresentanza per i partiti più forti. La legge elettorale venne votata dal parlamento su iniziativa di Mussolini, ma se ne avvantaggiò solo il Partito fascista, che nelle elezioni dell'aprile 1924 passò da 35 a 286 seggi, la maggioranza assoluta.
La nuova destra italiana ha potuto usufruire di un analogo vantaggio elettorale, grazie all'abolizione del sistema proporzionale e l'adozione di un ibrido sistema maggioritario-uninominale; ma questa volta tra i più accesi sostenitori di tale misura antidemocratica vi è stata un'ampia convergenza di forze progressiste13.
In secondo luogo, il fascismo si dotò immediatamente degli strumenti necessari a garantirsi uno stabile e duraturo monopolio sull'informazione, la cultura, la vita ricreativa del popolo italiano, culminato nella costituzione del massimo organismo di controllo, il Ministero della cultura popolare:
«La politica fascista produsse, in ultima analisi, un vero e proprio convergere di cultura e propaganda, sino al punto che il regime non fece quasi più alcuna distinzione tra i due fenomeni»14.
È un aspetto del totalitarismo che non può trascurare chiunque intenda garantirsi il consenso popolare in maniera diretta, rapida e massiccia.
Manipolazione delle condizioni istituzionali in cui avviene il confronto politico (elettorale, sindacale, imprenditoriale ecc.) e controllo sui processi di formazione del consenso.
Sono i due elementi comuni più vistosi tra l'agire del fascismo mussoliniano e quello della destra italiana d'oggi. Altri caratteri minori si possono di certo rintracciare, ma il gioco delle analogie non sembra poter andare molto oltre. Nessun modello economico di tipo corporativo, nessun sogno di avventure imperialistiche autonome oltre frontiera, nessuna irreggimentazione dei giovani, degli operai e delle donne, nessuna legislazione «speciale» in funzione anticomunista. Eppure nel fronte della destra giunta al potere legalmente in Italia vi è la presenza di una formazione - Msi-An - che esplicitamente si richiama all'eredità del fascismo.
È «fascista» il partito di Fini?
La risposta non può essere che negativa alla luce delle considerazioni fin qui svolte. Si tratta infatti di una formazione di centro-destra, attratta fortemente verso il centro, interessata a gestire un proprio spazio istituzionale, priva di grandi ideali reazionari, preoccupata di assicurarsi la patente di perbenismo che la nuova alleanza politica le concede, terrorizzata dalla possibilità che settori popolari scontenti la utilizzino come canale di mobilitazione extraistituzionale15.
Il nuovo partito del Msi-An - ormai sempre più spesso definito come «postfascista» - ambisce fondamentalmente a riconquistare il favore del ceto imprenditoriale italiano - di settori decisivi della Confindustria o del capitalismo di Stato - come già fu con Mussolini. Ma sa realisticamente di non potervi fare affidamento per ora. I suoi alleati di Forza Italia o della Lega sono collocati in posizione privilegiata, per una serie di fattori inscritti nella storia politica dell'ultimo quindicennio, e il Msi non sottovaluta nemmeno il peso di quei settori confindustriali che hanno apertamente appoggiato l'ipotesi di un inserimento governativo del Pds, al termine dell'esperienza (per loro positiva) compiuta col governo Ciampi. Il neofascismo di Fini può riproporsi invece di canalizzare sul terreno istituzionale lo scontento diffuso a livello di massa nei settori sociali più disparati, che non sono stati raggiunti o sono stati raggiunti male, negli ultimi decenni, dalla politica consociativa (vale a dire collaborazionistica) delle confederazioni sindacali e dell'attuale Pds. A domande concrete esso tenterà di dare risposte concrete e ciò aprirà inevitabilmente lacerazioni e contraddizioni nel suo stesso seno.
È evidente che tale prospettiva non può lontanamente rispondere alle esigenze del «piccolo uomo comune represso».
Questi è il nuovo padrone della scena politica italiana e la sua massificazione costituisce il fenomeno politico-sociale più vistoso degli ultimi decenni.
È un piccolo uomo, per l'appunto, prodotto informe di due processi concentrici, in azione fin dagli anni '60: perdita di identità socio-culturale per la diffusione totalitaria dei processi di meccanizzazione tecnologica in tutti i gangli della vita sociale e rigetto delle ideologie libertarie che, in quegli stessi anni, gran parte della gioventù intellettuale e lavoratrice portava rumorosamente nelle piazze, ingenerando nuove insicurezze e frustrazioni.
Gli anni sono passati e il piccolo uomo li ha trascorsi tutti incollato davanti al teleschermo. Non si è perso un telegiornale, ha bevuto come oro colato tutto il miele istupidente dei talk-show, ha assaporato visivamente il miraggio di cosce e lustrini delle show-girl di turno, ha letto i libri lì raccomandati, ha vibrato di commozione ad ogni round dello scontro Rai-Fininvest. Il suo sogno è una vita da telenovela le cui puntate non finiscano mai.
La domenica è dilagato negli stadi, contrario alla violenza degli ultras, ma affratellato in un grande bagno comunitario di folla orgiastica a ogni goal, a ogni partita decisiva del campionato. Hа comprato tutto ciò che vi era da comprare, anche le cose inutili, e ciò l'ha fatto sentire ricco, certamente privilegiato rispetto ai popoli del Terzo mondo, ai paesi dell'Est e agli stessi neri delle sommosse di Los Angeles. È stato chiamato quasi annualmente ad esprimere un proprio voto nel segreto dell'urna e ciò ha rafforzato il suo istinto di potenza, alla luce soprattutto dell'avidità con cui le forze politiche si contendevano il suo voto: lo facevano da quella stessa televisione, in quegli stessi stadi, attraverso il messaggio accattivante della merce appena comprata.
Nel frattempo si consumavano grandi drammi sociali, nel paese e all'estero. L'Italia tornava ad aggredire popoli «coloniali»: con ferocia l'Iraq e più bonariamente la Somalia. Il piccolo uomo tifava per l'Italia, come allo stadio, mentre viveva ad ogni coppa del mondo sogni di grandezza nazionalistica che sembravano sepolti per sempre. I suoi punti stabili di riferimento erano la tracotanza rassicurante dei politici di regime (che egli sapeva corrotti, ben prima di Tangentopoli) o la sfilata nostalgica dei padri della patria, pronti a condannare con parole appropriate qualunque eccesso, di destra e di sinistra. Il piccolo uomo non si considera di destra. O per lo meno non gliel'ha mai detto nessuno. Lui sta con la patria, con i padri della patria e con la nazionale azzurra.
Qualcosa mancava, però, a unificare quel suo mondo. La fabbrica appariva separata dallo stadio, la scuola dalla televisione. Il sistema politico in frantumi oscurava l'orizzonte radioso di una crisi economica sempre in via di soluzione (giornalisti e lustrini erano lì a ripeterglielo e a garantirlo).
E allora il piccolo uomo ha cominciato a guardarsi intorno e a scoprire che c'erano tanti altri piccoli uomini come lui. Si sono ritrovati fuori degli stadi, in comizi, funerali di Stato, adunate leghiste, magari alla presenza degli stessi imbonitori ed eroi del teleschermo. E hanno cominciato a tifare in gruppo, poi in massa: l'ebbrezza di ritrovarsi in tanti. È il loro modo di riscoprire la politica, lo «stare insieme» - come si diceva un tempo - l'«esserci», come dirà loro tra breve un qualche filosofo di regime, heideggerianamente ammiccando.
E allora nacque l'idea, in un qualche grande studio televisivo, in una qualche grande azienda di marketing, in un qualche convegno di imprenditoria rampante. Perché non dare a questa massa di piccoli uomini comuni e repressi uno strumento che unifichi cosce e lustrini con politica ed economia? Perché non canalizzare televisivamente - nel senso proprio del termine - le aspirazioni modeste, ma pur sempre insoddisfatte, di questa massa avida di sensazioni e protagonismo?
È nato così il Grande Fratello-Forza Italia, alla maniera in cui si vara un palinsesto televisivo o si lancia un prodotto sul mercato. La remissività del movimento operaio ufficiale e la mancanza di prospettive della sinistra hanno favorito il processo, come già negli anni '20. È un progetto di restaurazione capitalistica con seguito di massa, in cui per la prima volta - nella storia di una «democrazia occidentale» - si vede coincidere il potere politico con settori imprenditoriali in grado di controllare oligopolisticamente il sistema delle comunicazioni di massa. E ciò per giunta nella figura di un solo uomo: è la chiusura dell'«universo politico» di cui parlava Marcuse.
Si può considerare «fascismo» tutto ciò?
No, o per lo meno non ancora. Potrà diventarlo, però, se alcuni corpi dello Stato riusciranno a indirizzare la rabbia di questi piccoli uomini, comuni e repressi, contro le forze vive dell'insubordinazione di massa, quando essi si accorgeranno che per loro sono state riservate solo immagini catodiche delle cosce e dei lustrini. Del gusto della vita reale e dell'appagamento di bisogni biologici, neanche l'odore.
Allora saranno guai, se non si reagirà con decisione…


1 Il discorso meriterebbe d'essere approfondito e ampliato facendo riferimento all'esauriente monografia di Leonardo Rapone, Trotsky e il fascismo, Roma/Bari 1978, in particolare alle pp. 7-8 sgg.
2 Si veda Gilbert Badia, Clara Zetkin, femminista senza frontiere, Roma 1994, in particolare il cap. 23 «Sul fascismo». La Zetkin morirà nel 1932, dopo aver fatto di tutto per modificare l'orientamento del Partito comunista tedesco e la linea del «socialfascismo» che tanta responsabilità doveva avere nella vittoria del nazismo in Germania.
3 Nicos Poulantzas, Fascisme et dictature, Paris 1970, pp. 62-3.
4 Sul contesto italiano della «svolta» e la discussione sul fascismo non mancano i buoni lavori. Suggeriamo tra i migliori: Ferdinando Ormea, Le origini dello stalinismo nel Pci, Milano 1978; Giancarlo De Regis, La «svolta» del Comintern e il comunismo italiano, Roma 1978.
5 «What is fascism?» (15 nov. 1931, in The Militant, 16 genn. 1932 [trad. italiana in Scritti sull'Italia, a cura di Antonella Marazzi, Roma 1990, pp. 105-6].
6 Per amore di sintesi riprendiamo qui, in forma abbreviata, la parte dedicata all'analisi trotskiana del fascismo nel nostro Trotsky e la ragione rivoluzionaria, Roma 1990, pp. 260-83.
7 Wilhelm Reich, «Prefazione» del 1942 a Psicologia di massa del fascismo, Milano 1974, p. 11.
8 Come si vedrà nel proseguimento della nostra argomentazione, non pensiamo che basti dichiararsi «fascisti» o «nazisti» per esserlo realmente, vale a dire per esercitare il ruolo politico corrispondente. Ciò non toglie che in Europa esiste una vasta gamma di gruppi, associazioni o movimenti che ai simboli dell'estrema destra si richiama. Di loro qui non si parla perché considerati irrilevanti rispetto ai grandi e profondi processi di «radicalizzazione di destra» effettivamente in atto. Ci riferiamo ovviamente al National Front, il British National Party o gli skinheads inglesi; i Republikaner, il Npd o i naziskin tedeschi; il Vapo austriaco; con le dovute distinzioni anche il Front National di Le Pen; il Vlaams Blok del Belgio fiammingo; la Hrvatska Stranska Prava in Croazia ecc. Per l'analisi di questi movimenti non si può che rimandare al lavoro di Guido Caldiron, Gli squadristi del 2000, Roma 1993. Per la Francia in particolare: Gilles Martinet, Le reveil des nationalismes français, Paris 1994.
9 Si veda l'ottima ricerca di Paolo Nello, L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari 1978, in particolare le pp. 3-86.
10 José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, Bologna 1962, p. 12.
11 Theodor W. Adorno e altri, The authoritarian personality, New York 1950 [La personalità autoritaria, Milano 1973]; Max Horkheimer (a cura di), Studien über Autorität und Familie, Paris 1936 [Studi sull'autorità e la famiglia, Torino 1974].
12 Herbert Marcuse, «La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato» (apparso in Zeitschrift für Sozialforschung), in Cultura e società, Torino 1969, pp. 3-42].
13 Può forse essere utile ricordare che uno dei sostenitori di tale cambio elettorale, Norberto Bobbio, grazie al successo di un suo libricino (Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma 1994) ha contribuito ad alimentare la confusione sugli argomenti di cui ci stiamo occupando. Egli scrive: «… appare chiarissimamente che un estremista di sinistra e uno di destra hanno in comune l'antidemocrazia (un odio, se non un amore). Ora l'antidemocrazia li accomuna non per la parte che rappresentano nello schieramento politico, ma solo in quanto in quello schieramento rappresentano le ali estreme. Gli estremi si toccano. L'antidemocrazia peraltro non è che uno dei punti di accordo fra gli "opposti estremismi"» (p. 27).
Tra i punti comuni agli «opposti estremismi» vi sarebbe anche la visione generale del mondo nettamente «antilluministica», una concezione catastrofale e «profetica» della storia, contrapposta alla visione processuale, graduale del progresso storico, che - non si capisce per quali ragioni - Bobbio assegnerebbe addirittura a Marx (oltre che a Kant, Hegel e Comte). «Anche rispetto alla morale e alla dottrina della virtù, gli estremismi delle opposte sponde s'incontrano e nell'incontro trovano le loro buone ragioni per contrapporsi ai moderati… Il tema della mediocrità democratica è tipicamente fascista. Ma è un tema che trova il suo ambiente naturale nel radicalismo rivoluzionario d'ogni colore» (ibid., p. 30).
Il livello, come si vede, non è dei migliori e sarebbe il caso di ignorare gli errori su Marx o il curioso amalgama di fascismo e comunismo, se tale amalgama non avesse una conseguenza ideologica molto grave: nel maldestro tentativo di mascherare le grandi differenze ideali, etiche e programmatiche tra comunismo e fascismo si nasconde infatti una parziale giustificazione storica del fascismo, giacché esso sarebbe stato (e potrebbe continuare ad essere) il movimento impegnato in prima linea a combattere contro i nemici da sinistra della democrazia. Insomma, il fascismo avrebbe difeso il destino della moderna liberaldemocrazia suo malgrado, ma in anni cruciali: anni in cui la liberaldemocrazia non avrebbe certo potuto resistere all'assalto delle masse operaie di mezza Europa momentaneamente attratte dal comunismo, il bolscevismo e il «radicalismo rivoluzionario di ogni colore». Sono tesi che il lettore può ritrovare, ma con ben altra strumentazione teorica e ricchezza di riferimenti, nell'opera «revisionistica» dello storico Ernst Nolte, da questi recentemente ribadite in riferimento alla nuova destra italiana in un'intervista a l'Espresso del 29 aprile 1994.
14 Philip V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, Roma-Bari 1975, p. 5. Si veda in particolare il capitolo dedicato alla radio e al monopolio statale su di essa costituito attraverso l'Eiar. Mussolini vi fa la parte di un apprendista stregone che solo gradualmente arriva a rendersi conto dell'importanza cruciale dello strumento che il genio di Marconi gli ha messo tra le mani. Sotto questo profilo il paragone con l'odierna Fininvest non regge di certo. Presso la stessa casa editrice si veda anche Victoria de Grazia, Consenso e cultura di massa nell'Italia fascista. L'organizzazione del dopolavoro, Roma/Bari 1981.
15 Questa trasformazione dell'attuale Msi in partito moderato di centro, pienamente inserito nei giochi istituzionali del sistema, è denunciata anche da parte di chi insegue ancor oggi il mito di un fascismo rivoluzionatore ed eversivo. Si veda, per esempio, il mensile extraparlamentare di destra Avanguardia, in particolare il numero di aprile 1994, dove Mario Cecere («Costruire un nuovo radicalismo: linee di azione per l'ultima eresia», pp. 13-6) denuncia il carattere «neoconservatore» della politica di Fini, in un articolo in cui tra l'altro si afferma che «il "fenomeno" naziskin in Italia e in Europa è l'espressione attivistico-patologica assunta (nonostante le sbandierate velleità "rivoluzionarie") dal movimento neoconservatore, attualmente "vincente" nei paesi del capitalismo reale».

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